Ecco una parola che è tempo di aggiungere al mio personale vocabolario, questo progetto in lenta progressiva formazione. Confine. Il confine è interpretabile in una varietà infinita di modi, in tantissime situazioni. La prima cosa che mi viene in mente, è che il confine ha una fondamentale funzione positiva, di identificazione. Separando me stesso dal resto del mondo, io inizio a esistere, io esisto in quando entità separata dal resto del mondo, in prima istanza. Devo però comprendere questa separazione, devo ragionarci bene affinché non mi porti fuori strada, non mi faccia impantanare nella angosciosa illusione dell’autonomia, per citare una frase significativa di Don Giussani. 
In realtà è in una certa polarità dinamica del confine si gioca tutta la partita. Perché un confine ci vuole, è una buona cosa, e questo va detto. Vi immaginate una cellula senza membrana cellulare per esempio? Come farebbe semplicemente ad esistere? Dunque una separazione, che è in realtà una convocazione, una chiamata all’esistenza. Esisto in un luogo specifico, un luogo definito. Esisto perché non sono tutto il resto, sono qui. E il rischio sarebbe quello di rimanere a questo esisto, come fosse qualcosa di compiuto, di definitivo, di acclarato.
Non è così. Ed eccola la polarità dinamica, affascinantissima, di questa parola. Il confine è felicemente contraddittorio, perché esiste, in qualche misura, proprio per essere violato. Le barriere esistono per essere superate. Infrante. Io esisto perché mi impegno coscientemente in una violazione perpetua dei confini, in una continua disgragazione del sovranismo latente che un certo pensiero in bassa frequenza mi vorrebbe far adottare, come difesa preventiva, come atto implicito di calcolata ostilità verso il mondo. Invece, coltivare la fiducia è aprire i confini, forzarli, allargarli, vedere cosa accade nel passaggio (tentativamente regolato, certo) di merci e persone, anche e soprattutto attraverso i miei confini. 

Del resto, se rimango nei miei confini, se chiudo i porti all’arrivo del nuovo, dell’inatteso, all’inizio mi sento al sicuro. Di primo acchito, al primo impatto, mi può anche sembrare una gran buona idea, una ottima idea. Però alla fine mi stufo, mi annoio. Mi deprimo. Il sovranismo eccessivo di me stesso mi porta alla depressione. Capisco che sto remando contro il flusso dell’universo, così facendo. Sottraendomi da questa dinamica di scambio, mi sto impoverendo. Sono nato per contaminarmi, per ibridarmi, per rischiarmi nel confronto dialogico. Io esisto e acquisto sapore, consistenza, in quanto decido volontariamente per l’apertura dei mie porti, verso l’esterno.

Non è automatico, deve essere una mia decisione, riesaminata e rilanciata ogni istante. Devo inserirlo come punto centrale del mio personale contratto di governo (di me stesso). Niente in tutto questo è automatico: è questo il bello.

In me stesso ci sono infinite sollecitazioni a varcare i miei confini. Ce l’ho incorporate, in pratica. E’ fin troppo ovvio pensare all’ambito affettivo, ma vale la pena vederlo in questa luce. Sì, perché il rapporto d’amore è una violazione consensuale di confini, in fondo. Confini emotivi e confini fisici, anche. Nel rapporto sessuale, i confini stessi dei corpi vengono rinegoziati, rimodulati, almeno per un certo lasso di tempo. Lo dice benissimo il secondo capitolo di Genesi, e non si può dire con miglior poetica precisione, i due saranno una carne sola. Ovvero, qui i confini non sono nemmeno più negoziati, sono proprio aboliti, in un atto totale di fiducia, di abbandono. Rinuncio deliberatamente a mantenere un preciso controllo su come e quanto sono invaso, come o quanto invado: evado la logica sempre un po’ mercantile dello scambio, e mi abbandono. C’è un inizio di indicazione preziosa, anche: salendo in frequenza, progredendo nell’intensità del vivere, i confini si sfaldano, si stemperano. Svaniscono, idealmente. La gioia è vera quando è sconfinata, appunto.

In effetti, l’intero rapporto tra uomo e donna, che è frequentazione, assistenza mutua e convivenza, è affascinante anche solo a pensarlo, perché è una rinegoziazione quotidiana di confini, dei confini di due persone che accettano questa curiosa infrazione costante che a volte costa fatica, ma che viene accolta con la percezione luminosa di un mutuo vantaggio.

E’ una questione di sguardo, anche. Come guardo a me stesso e al resto. Si capisce: se mi percepisco unito al resto, alla fine tutto è mio, è parzialmente mio. Leggo come secondo alcuni studiosi il significato etimologico di Europa è ampio sguardo. Non so se è vero, ma è bellissimo. L’ampio sguardo mi rende disponibile verso un intreccio con entità diverse da me, in un interscambio delicato, difficile ma bello come un bacio. Il piccolo sguardo, al contrario, mi fa ricadere nel sovranismo spiccolo dove i veri governanti al potere sono i miei piccoli interessi, interessi poco interessanti alla fine. Anche se difficili da mettere in discussione, perché piuttosto refrattari al dibattito interno.

Lo sappiamo bene: è un combattimento, tenere le frontiere aperte. Perché la percezione del bene non è immediata, non è banale. La frontiera può essere varcata anche con cattive intenzioni. Aprendo la mia frontiera posso anche venire ferito, violato, umiliato, distrutto. Percepire che è un valore il rischio consapevole e accorto dell’apertura della frontiera, è materia di un mio personale lavoro.  Dire che l’altro è un bene per me implica – almeno come anelito – una volontà di riscatto dagli egoismi e dai particolarismi che tanto spesso mi incastrano. Ed è un lavoro anche questo (ma un bel lavoro).

Nessun sogno bellissimo ha dei confini, se ci fate caso.

Quindi il confine è una membrana che esiste per essere instancabilmente lacerata, come una ferita continuamente riaperta.

Quella ferita aperta, che ci mantiene vivi.


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