Credo che il miglior modo di iniziare a ragionare di poesia e guarigione, il modo più diretto e veloce per entrare subito nel vivo, sia riferirsi a quanto scrive il poeta e filosofo Marco Guzzi nell’introduzione al mio volume di poesie, il cui titolo è appunto, Imparare a guarire

[Ciò] esprime un desiderio che accomuna tutti gli uomini di tutti i tempi, e che oggi si fa ancora più pressante, urgente, indilazionabile, in quanto lo stato di malattia, e di malessere universale, sembra aver raggiunto un livello terminale, una soglia di insostenibilità, che mette a repentaglio la stessa sopravvivenza della specie umana sul pianeta terra.

Sono parole nette, con le quali qui ci vogliamo confrontare. Riconoscere infatti di essere accomunati da un disagio così forte, segno di questo passaggio di epoca che molti filosofi rintracciano come cifra significativa nel decodificare le complessità e contraddittorietà del tempo attuale, è il primo passo necessario. Ci motiva con decisione a ricercare, finalmente, non più strategie spicciole di sopravvivenza, ma a puntare su un sogno più grande. Riprendere coraggio e, armati solo di un pugno di versi, andare alla scoperta di strade che possano aiutarci, tramite le quali sia possibile, con tutta la gradualità che ogni vero processo trasformativo richiede, imparare a guarire. 
 
 
 
Qui subito si instaura, già si instaura, il suggestivo parallelo tra poesia e guarigione. E’ un fatto, la poesia si connette a doppio filo con il tema della guarigione, se non altro – vorrei dire – carnalmente, cioè per la natura stessa del poeta, della sua persona. 
 
 

Rubo le parole al poeta Franco Arminio, per avvertire che
 

c’è un problema quando si hanno rapporti con i poeti. Il problema deriva dal fatto che il poeta è una creatura patologicamente bisognosa di amore. Una creatura in subbuglio con cui non si può mantenere un’amicizia generica e blanda. Col poeta non ci possono essere pratiche attendistiche e interlocutorie, bisogna gettargli in faccia il nostro amore o il nostro odio, bisogna tenerlo ben vivo nella nostra mente, bisogna pensarlo, parlargli delle sue parole, raccontargli le sue storie.

 
Il poeta dunque si presenta sul palcoscenico del mondo, interseca le nostre vite indaffarate, con una ricettività particolare, con una irriducibilità alle convenzioni della vita sociale. Ci scrolla dai nostri facili equilibri, dalle nostre connivenze con ciò che non è autentico, e ci richiama prepotentemente – e spesso in modo scomodo – al suo ed al nostro cuore. E’ tra quei personaggi un po’ fastidiosi, che ci rimandano all’urgenza del processo di guarigione, alla necessità indilazionabile di darvi spazio, respiro. Chiaro, è qualcosa che non necessariamente ci compiace, ci gratifica, in prima istanza. Questo richiamo al cuore infatti può mettere in crisi i diecimila equilibri che, per quanto precari, per quanto inevitabilmente a scadenza, avevamo così prudentemente ed accortamente messo in opera, testato e collaudato. Guarire implica la fatica di iniziare a pensare in maniera diversa, a vedere in maniera diversa. Insomma, un tempo avremmo detto, a convertirsi. A che giova tutto questo?, ci si può chiedere. Continua infatti Franco,
 

Uno allora può dire: ma a che serve tutto questo? Io penso che alla fine non serva al poeta, perché il poeta non ha mai bisogno di quello che gli viene dato. Penso che tutto questo serva a chi dà, a chi si protende a lenire le varie disperazioni del poeta. L’atto di guarire chiude le ferite, ma solo al guaritore.

 
Se prendiamo per vera questa parola di poeta, ci diventa evidente come la poesia sia un ambito privilegiato per avviare o riavviare quel processo di risanamento, di guarigione, che oggi è più che mai necessario, per tutti. In questa luce, mi pare che la coltivazione della disciplina della poesia – ovvero prima di tutto la sua quotidiana frequentazione – acquisisca una importanza decisiva, per il nostro cammino umano. Avere a che fare con la poesia è ipso facto essere impegnati in una opera di guarigione: di più, vuol dire essere impregnati di quest’opera, che è allo stesso tempo personale e sociale. 
 
Per iniziare a convincersi, basti pensare alla sostanziale alterità della poesia (e del poeta) verso gli aspetti più massificanti e commerciali del mondo contemporaneo. Niente da fare, il poeta proprio non ha patria nel mondo dell’economia intesa come misura di tutte le cose, nell’universo che fa della borsa e degli andamenti dei mercati una moderna divinità, ovvero ciò che realmente “esiste” e sarebbe eresia soltanto porre in discussione. Bene, il poeta è radicalmente altro rispetto a questo, ma la sua alterità è sempre un pungolo al nostro modo di vita distratto e a volte perfino collaborazionista con questo sistema, ed insieme una possibile via di recupero, di guarigione e di riscatto.
 
Di fronte ad un mondo morente in tante sue manifestazioni, la poesia testimonia (a volte in modo scomposto, slabbrato) una irriducibile polarizzazione verso la nascita, la rinascita, come allettante possibilità di quel perpetuo inizio che è sempre speranza di fioritura. 
 
PERPETUO INIZIO
 
A grappolo quei fiori 
fioriscono, dalle finestre 
sulla piazza tutto è
 
appena un segno, tutto è
questa mappa d’acqua di 
indicazioni sommerse di 
frammento di poesie disperse,
 
tutto è
quella gloria che non si veste
 
di altro che il tuo sciogliere, 
scegliere di non sapere di
non erigere opposizione di non
 
elaborare eccezione 
a ciò che accade.
 
A grappolo i fiori fioriscono,
 
nutrono la
luce dai balconi sulla piazza, tutto è 
questa pietà così assurda che ogni 
cosa è sempre riportata all’inizio, 
sempre nuova sempre
 
in perpetuo ricominciamento.
 
C’è prima di tutto una decisione da prendere. C’è da decidere dove guardare, dove indirizzare i nostri sforzi. Se indugiare in un mondo morente, o attivarsi verso il nuovo, che può essere anche tenue e sottilissimo, quasi un accenno embrionale, ma è come una prima luce che annuncia un’alba radiosa. Lo ha detto assai bene Aldo Moro, che se noi vogliamo essere ancora presenti, ebbene dobbiamo essere per le cose che nascono, anche se hanno contorni incerti, e non per le cose che muoiono, anche se vistose e in apparenza utilissime.
 
La poesia traffica sempre con le cose che nascono: sono quelle che davvero la attirano. Per questo i ragazzi, sono così attenti e ricettivi verso di lei. Per questo la scuola è un ambito privilegiato, un laboratorio d’eccellenza, per fare della poesia una via di autentica crescita umana. Gli allievi di tanti professori attenti ed appassionati, come Carla Ribichini, lo sanno, e lo testimoniano. Anche in questa sede, se ne è parlato. Ma ad ogni età, volgersi verso l’aurora è una possibile opzione, innanzitutto. Bisogna infatti decidere di guarire, ha detto sempre Guzzi. Accogliere questa ipotesi, è sempre una nostra libera decisione.
 
IPOTESI DI ROSA
 
No non questo appena, ma 
qualcosa.
 
Un nuovo orizzonte 
oppure lo sai,
 
quell’ipotesi di rosa.
 
Qualcosa che 
chiama che
 
esige imperiosa 
la tua dedizione.
 
La tua unica 
decisione.
 
Come mettersi all’opera? Come avviare assai praticamente la nostra personalissima e agognata guarigione? Ci interessa in effetti una traiettoria pratica, percorribile, sperimentabile con i sensi, rupestre e sedimentaria, nel senso di una concretezza più rocciosa e solida, di ogni discorso fatto appena di vibrazioni d’aria, che rapidamente si ricompongono. Seguo ancora quello che scrive Guzzi nell’introduzione al volume, là dove avverte che
 

l’opera della nostra guarigione è un’opera paziente, richiede un lavorio costante sulle fibre dolenti della nostra anima ferita. Siamo chiamati sempre di nuovo ad ammorbidire la sostanza contratta e impaurita del nostro cuore, siamo chiamati a riconoscere tutti i nostri moti interiori, a non negare o rimuovere nulla, neppure gli aspetti più oscuri e penosi. Siamo chiamati a comprendere cosa significhi non giudicare, e non giudicare prima di tutto noi stessi, per lasciarci invece benedire, curare, e appunto così guarire nelle più aspre e sanguinanti profondità.

 
Così che la guarigione – che appunto avviene in compagnia della poesia – deve abbracciare la pazienza, deve sposare, amare tutta la particolarità di un percorso, che arriva fino alla temeraria richiesta di riconciliazione con la nostra debolezza, con il luogo stesso della nostra ferita, insomma con il suo sanguinare, finalmente guardato, accolto. Possiamo anche dire che il poeta – uomo o donna che sia – è chiamato ad accogliere la sua recuperata docilità, la sua intima femminilità – espressa con potente valenza simbolica – proprio attraverso questo ostinato sgorgare, questo mestruo non gestibile, non controllabile, del suo stesso sangue. Amare la propria ferita sanguinante, infatti, è l’atto più spaventoso, quasi scabroso, ed è l’atto più risanante, rivoluzionario, follemente creativo, ultimamente gioioso, di quanto si possa pensare. E avviare un’opera così – così importante e così coinvolgente – non può che avvenire attraverso la pazienza, esercitata, richiesta, desiderata.  Implorata. 
 
 
L’OPERA PAZIENTE
 
Vedere accadere le cose, 
vederle senza
 
essere degno nemmeno
della loro ombra.
 
Un regalo continuo una 
eccedenza imbarazzante quasi,
 
felicemente sconveniente. 
 
Eppure ancora sangue. Ora.
 
La ferita continua
ugualmente a sanguinare, devi 
mettere le mani
proprio affondarle
 
nel sangue, scoprire che 
che puoi stare lì, puoi
 
essere lì, non deve 
fermarsi non devi fermare
 
cambiare, spostare niente. 
Non devi curare
nulla ma appena
 
appena lasciare ogni pretesa all’opera 
paziente.
 
La tua più abile impresa,
la tua guittezza più scaltra sarà 
lasciare
 
operare.
 
Risanare il mondo, abbandonare ogni iperattivismo e ogni perfezionismo per lasciare operare, per ritornare a quote più normali, come cantava Franco Battiato, è un’opera che non si tenta mai in solitaria, ma si affronta in cordata: è cosa che richiede l’alleanza, la rinnovata alleanza tra donna e uomo, tra nero e bianco, tra credenti in diverse fedi. La poesia è sempre inclusiva, mai escludente. Si impara a fiorire imparando a spostare, faticosamente, le pietre tombali della nostra incapacità a relazionarci, delle nostre umanissime esitazioni a metterci a nudo. Si impara a fiorire, nella parte di noi che abbraccia. Che bacia. 
 
IMPARARE A FIORIRE
 
Non sapevi, timida,
verificare la sequenza limpida
d’ogni segmento esploso, eroso
in questa spietata e petrosa
intersconessione.
 
Sapevi appena questo – come
adatta, adattata dalla pratica
resa morbida dalla
pratica, resa quasi morbida quasi
meno aspra, dalla costante
pratica.
 
Sapevi di questo lavoro
che ripesca gioia dove
non avevi sentore, fin tra il tuo
stesso identico
odore oppure
 
ti fermi feconda in quell’oppure
gravida ormai di formula e azione nel tuo
stare e pensi oppure,
il lavoro.
 
O il lamento o il lavoro non
c’è infatti terreno in mezzo e l’attesa
ricama l’intimo compimento come
 
parto d’un mondo terminale, che
nelle tue mani giunte già
ricomincia a
fiorire.
 
Il mondo ricomincia a fiorire nelle mani della donna, dell’uomo, che lo accolgono, l’universo si acquieta e si raggomitola nella gratitudine di un moto di assenso, di diversione dall’usato sentire, di un intima propensione a dire sì, stavolta sì, nell’aprirsi alla speranza fiduciosa e rivoluzionaria che c’è molto più di quanto i nostri occhi riescono a vedere, che la realtà delle cose si presta, si piega quasi, alla fuga verso qualcosa di maestoso, di grande, che innerva questo cosmo di speranza buona, fragrante come la pizza appena sfornata del forno in fondo alla strada, quello con la bella luce gialla dell’insegna che si spande nel blu denso e pastoso del giorno ormai al tramonto. Contemplando questa speranza, sperandola e contemplandola, ci viene naturale il silenzio, ci viene spontaneo il radunarci in quieta celebrazione di questo silenzio, di questa perpetua speranza di novità nella nostra vita. Di questa alba che, come pensavamo da bambini, seguirà ad ogni nostro tramonto, sempre.
 
QUESTO SILENZIO
 
Sì, questo silenzio finalmente spegne
la panoplìa rutilante del
distrarsi, di un eterogeneo
alimentarsi, apre
 
lo spazio di nuovi universi,
limpidi e nutrienti nello
 
spazio terso – non più disperso – del
tuo cielo interno.
 
Vieni, ora, fai casa, fai nido nel
tuo silenzio. Ascolta l’abbraccio di
 
un nuovo universo.
 
Del nuovo,
di nuovo.
 
La poesia è dunque convocata come ospite d’onore, a questo enorme lavoro di rigenerazione e fioritura dell’umano, di riconciliazione del corpo con il cosmo, di redenzione di ogni più piccola fibra d’esistenza. Poesia come balsamo e guida, nella indiscutibile fatica di questo strano ed ancora  misterioso travaglio verso un nuovo mondo. 
 
Solo il praticarla, la poesia, potrà persuasivamente sgombrare ogni sospetto: solo la pratica costante ci potrà convincere del fatto che non si tratti di inutili astrazioni, ma dell’incontro amoroso con la carne palpitante, del mondo.
 

 

Quella che avete letto è la relazione (con minime rielaborazioni) tenuta presso il Fondo Ferroni (Frascati, provincia di Roma) per l’associazione Frascati Poesia, in data 5 giugno 2019, che aveva come titolo “Imparare a guarire. L’esperienza del fare poesia nel cammino verso la nuova umanità”.
 
Il volume “Imparare a guarire” (Di Felice Edizioni, Euro 12), da dove sono estrapolate le poesie nel testo ed i brani della prefazione di Marco Guzzi, è acquistabile sul sito ibs.it oppure direttamente scrivendo all’editrice, all’indirizzo di posta elettronica info@edizionidifelice.it (nessuna spesa di spedizione).
 

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