Blog di Marco Castellani

Mese: Luglio 2019

L’urto del tempo (ovvero, mai dire mai)

L’argomento è tra i più seri. Forse il più serio, mano mano che uno va avanti con le stagioni, prosegue avanti il suo tragitto, nel trascorrere (comunque) ricco degli anni. E’ così serio (come la religione, il sesso) che si preferisce spesso non parlarne, si riconosce il composto equilibrio di non parlarne proprio. 

Come si fa, insomma, per le cose di cui nessuno ritiene davvero che esista una soluzione, o comunque un modo produttivo per poterle affrontare. Come si fa per le cose che ci piovono addosso e ci lasciano confusi, perplessi, interdetti. Indifesi, anche. Per le quali ognuno mette in campo, personalmente, privatamente, le difese che può, che trova, che gli sembra di trovare al momento. Provvisorie e parziali e discutibili che possano essere, ma intanto (parzialmente) tamponano. Cantava infatti Roberto Vecchioni molti molti anni fa (e lo capisco certamente più adesso che al tempo),

“salvarla con le figurine /salvarla con le patatine / con il rimorso di arrivare / soltanto quando la nave è partita / però salvarsela la vita.”

Insomma, ci sono cose che non riusciamo proprio ad affrontare di petto, dove ci arrabattiamo come si riesce. E del resto, come possiamo biasimarci? Insomma, già è demanding il fatto stesso di vivere, di intessere relazioni, di lavorare (chi può). Figuriamoci a chiedersi una cosa come questa. Figuriamoci.

Chiedersi cosa regge l’urto del tempo è cosa leggera solo per chi sia ancora molto giovane (e non è neanche detto, se la persona in questione è sensibile). Altrimenti è qualcosa, appunto, su cui non si può scherzare. Come detto, non conviene. Se ci penso, quindi, capisco meglio che il titolo di questi che chiamerò brevemente Esercizi (qui tutte le informazioni per capire cosa sono e come entrarvi in contatto), Che cosa regge l’urto del tempo,  è veramente una sfida. E’ proprio qualcosa su cui non sopportiamo risposte retoriche o inconcludenti, su cui non tolleriamo perdite di tempo, giri di belle parole.


La posizione predominante (psichicamente dentro di noi, e statisticamente tra noi) è quella espressa in modo geniale e disincantato da Francesco Guccini nella canzone Farewell, non a caso richiamata esplicitamente da Juliàm Carron durante gli Esercizi. Non si può scavallare rapidamente questa posizione, dobbiamo farci i conti ogni mattina invece. Di più, io diffiderei profondamente di chi la scavalla troppo facilmente, magari con quel meccanismo di spiritual bypassing che purtroppo non porta mai ad una vera crescita dell’individuo.


Possiamo dirlo, possiamo ammetterlo. E’ tremendamente persuasiva la frase di Guccini

Ma ogni storia ha la stessa illusione, sua conclusione, e il peccato fu creder speciale una storia normale…

Qui non c’è più da barare. E’ vero, si esce da questa percezione, se ne può uscire, lo sappiamo tutti. Abbiamo tutti sperimentato momenti in cui questa percezione era vista come falsa. Momenti, dico. Perché certo, viviamo abitualmente così, con una specie di asserzione interiore che gira in background, che avverte “niente può reggere l’urto del tempo”. Cantava anni fa, il Boss, che everybody dies baby it’s a fact. Sembrerebbe una parola tristemente definitiva. Eppure abbiamo tutti sperimentato momenti illuminati in cui sentivamo che questa non è l’ultima parola. Non è il framework conclusivo, quello che comprende tutto.

Ma qui si innesta il cambio, secondo me. Per andare oltre va effettuato un cambio di paradigma. Non basta più elencare concetti, srotolare asserzioni. Non vale più il fatto, capisco una cosa, la faccio mia, procedo oltre. Non è qualcosa che va capito. E’ piuttosto roba che va domandata, che richiede un cambio di atteggiamento. Una nuova attitudine. Qualcosa che ci viene addosso, ci cambia polarizzazione, ma non possiamo afferrarla. Non è questione di circoscriverla in un nostro ambito. E’ una cosa che non possediamo, ma in un certo senso ci possiede.

Insomma, non è a forza di ragionamenti sull’universo, che arriviamo a poter assentire con quella bella, antica canzone di Angelo Branduardi, sentendo anche noi che niente mai perduto va, al centro tornerà. Soprattutto perché si insinui l’idea, l’ipotesi pazzesca (e tremendamente interessante, per chiunque), che quel che c’è di buono in me non andrà perduto. Ecco, questa sarebbe davvero la rivoluzione perpetua, del nostro modo di pensare.

Mi fermo sulla soglia. Ma capisco che è cosa per cui può essere giustificato perfino un lavoro spirituale, nella misura in cui può favorire questa diversa percezione dell’ordine delle cose, dell’ordine del tempo. Qualcosa che ci porti a sussurrare, come trionfo della categoria della possibilità, quel mai dire mai che è anche il titolo di una bella canzone di Ligabue (nota, vi erano tempi in cui non avrei mai pensato di dire la frase intera “una bella canzone di Ligabue”, ma tant’è), che lascia intravedere un modo di vedere le cose, diverso.

Proprio perché l’argomento è oggetto di un lavoro, sempre da rinnovare, non è che me la posso cavare convincendovi (e convincendomi) in maniera dialogica. Sarebbe un inganno. Mi basta di portarci (e portarmi) a dire (quasi vergognandosi, ma dirlo) beh sì, può esserci questa possibilità, sembra pazzesco il più delle volte, ma può esserci. 

E’ anche un lavoro di cesello. Rinunciare alle interpretazioni all’ingrosso dell’universo, la vita, il cosmo, il Mistero, la fede… e abbassarsi a cercare quella struttura fine, quella trama di luce sottile, che a volte abbiamo intravisto tra le cose, negli spazi tra le cose. Come, sottratto al vuoto che fa paura, e consegnata ad un ordine pacifico, benevolo, bello e rassicurante.

Ed anche, come suggeriscono gli Esercizi, in modo cordiale ma preciso, ritrovare dentro sé stessi quel nucleo di valore, quel momento di incontro con qualcosa di luminoso ed armonioso, di qualcosa che vale e che ha incrociato la nostra vita, in un momento, un segmento di tempo. O che può passare o ripassare, in qualunque condizione ci troviamo.

Per questo, non dobbiamo fare nulla. A far da noi su questo, infatti, non siamo buoni.
Possiamo aspettare di intravedere, forse, una soluzione.

Dire che è impossibile, è certo lecito. Ma non sembra ragionevole.

Le sorprese, in fondo, accadono ancora.

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    Il primo rover su Marte

    Era il 4 luglio di ormai molti anni fa. Per la precisione, correva l’anno 1997, quando il rover Sojourner si appoggiava finalmente sulla superficie di Marte, portato fin là dal Mars Pathfinder. L’immagine che vediamo è stata presa appena il giorno successivo.

    La prima immagine del rover Sojourner, pioniere su Marte. Crediti: NASA/JPL

    Per la precisione, questa immagine a colori è stata presa come “assicurazione” in caso di danneggiamenti della camera stessa, in concomitanza alla sua messa in funzione. Procedura che fu invece realizzata – grazie al cielo – con pieno successo.

    Alquanto curioso, a ripensarci oggi, che questa immagine meramente di sicurezza contenga in realtà preziosissimi dati di alta qualità, perché realizzata con le lenti ancora in perfette condizioni e prive di polvere, nonché senza effettuare alcuna compressione dei dati. Questa prima storica foto (in realtà un mosaico di otto diverse inquadrature) venne scaricata a Terra alcune settimane dopo essere stata acquisita.

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    Toy Story 4, l’inesausta dinamica del dono

    Giunti alla quarta tappa dell’avventura “cosmica” di Toy Story, mi sento di dire che il pericolo della stanchezza o della routine, sia stato egregiamente scongiurato. Se la chiamo cosmica, è solo perché  il meccanismo narrativo di Toy Story, fin dalla prima rivoluzionaria puntata, è imperniato su una idea semplice ma straordinaria, estremamente feconda. Quale poi sia, la sapete: in breve, i giocattoli sono vivi e hanno affetti, relazioni, connessioni come gli umani. Ma  sono anche attenti a non farsi  scoprire: in presenza di una persona, loro simulano il comportamento atteso da un giocattolo (inerte). Potremmo dire, in termini fisici: ad ogni misura restituiscono lo stesso profilo (che è quello che più ci aspettiamo).

    Ma cosa avviene nel tempo che trascorre tra le misure? Cosa accade quando nessuno guarda? Questo non possiamo dirlo. In generale, non potremo mai dirlo. La realtà nella sua essenza si cela dietro un velo, e quel che ricostruiamo unendo le misure – come nel gioco ben noto di collegare i puntini – è sempre altamente arbitrario. Il modello non è mai il reale, e questo è un bene, perché il reale può essere sempre qualcosa di più.

    Toy Story, fin dal primo episodio, ci propone un messaggio decisamente interessante, perché parla ad una parte del cuore sempre in ascolto, sempre in attesa: ci suggerisce che l’inferenza tutta positivistica di voler ridurre il mondo a qualcosa di già visto, già compreso è ultimamente e felicemente fallimentare, perché esiste un mondo, un universo, che fuoriesce con allegria dall’ansia di catalogare e comprendere “razionalmente” le cose. Un ambiente che straripa, brulica di invenzione e relazione. 
    Woody con il nostro nuovo amico, Forky… (Crediti: sito ufficiale
    Così, si capisce che una stanza di giochi non è appena una stanza di giochi: è di fatto anche la sede privilegiata per  mille emozioni, relazioni, rapporti affettivi, intrecci e soprattutto storie, mille storie che si generano continuamente, che rendono questi oggetti tutt’altro che inerti. Del resto i bambini già lo sanno, i giocattoli vivono. I rapporti con le cose sono più imprevedibili e profondi, più poliedrici e fecondi, rispetto all’approccio utilitaristico e consumistico di molta parte del nostro pensiero “moderno”.

    E’ in fondo la riscoperta di un universo poetico, l’esplorazione di una nuova (e antichissima) dinamica dello stare nel mondo.


    E ad essere precisi, ci lancia un secondo importante messaggio, strettamente connesso al primo: questo mondo non visto, è un mondo buono, positivo. Un mondo che opera per il bene. Difatti – e anche in questa occasione viene ribadito in modo molto chiaro – lo scopo ultimo di ogni giocattolo, la sua ragione di “vita”, è il benessere e la felicità del bambino cui appartiene. Nell’aderire intimamente a questo obiettivo – e nel conseguente sentirsi parte di una relazione di affetto – è la felicità stessa del giocattolo, il suo sentirsi realizzato.

    Ci sono – è vero – conflitti e situazioni di tensione anche in questo mondo “parallelo”, non visto. Ma si risolvono sempre in bene e soprattutto, proprio in questo quarto pannello, si addolciscono ulteriormente, visto e considerato che (tranquilli, sarò generico per non rovinarvi del tutto la visione) non esiste nemmeno un vero cattivo, questa volta. 

    E’ chiaro che nessuno si aspetta, tornando a casa dopo aver visto il film, che i giocattoli nella stanza dei propri bimbi si animino davvero. Eppure questa proposta, questo suggerimento di riformulazione del patto con il reale (ovvero, ammettere la possibilità che ci sia qualcosa che non controllo, che mi supera, che opera per il bene) rimane piacevolmente attaccato addosso, come una polverina magica che – a lasciarla depositare – inizia quel sano lavoro di contrasto e di scioglimento di un cinismo che troppo spesso ci lasciamo aderire addosso, quasi fosse l’inevitabile scotto del diventare adulti.

    Forse non è così come quasi sempre ce la raccontiamo, forse c’è qualcosa che regge l’urto del tempo, qualche magia che non scolorisce nel diventare grandi, ci sembra dire l’intero progetto di Toy Story. Ma lo dice sommessamente, come un gioco: questo – a mio avviso – è il vero punto di valore. Non ci impegna con grandi discorsi, perché i grandi discorsi ormai non li sopportiamo più. Piuttosto, ci arriva di lato, sorpassa le nostre difese e ci aggancia a sorpresa, facendoci divertire e dunque predisponendo il terreno all’ascolto di una buona notizia, di qualcosa che si pone fuori dal tessuto percepito della vita ordinaria.

    Perfino il tema abusatissimo dell’accoglienza del diverso, di chi sembrerebbe “da buttare” ed anzi inizialmente si vuole esso stesso buttare via, è affrontato in modo simpatico e per nulla retorico, con l’irriverente e scanzonata invenzione di Forky, un pupazzetto creato in quattro e quattr’otto dalla bimba all’asilo con materiale di scarto. E che, in barba a tutte le sue evidenti diversità, viene integrato nel gruppo da subito. Proprio in questa amichevole integrazione, ed in una paziente educazione alla quale viene sottoposto, impara a voler bene e a volersi bene.  

    Nel complesso, questa quarta sezione (a questo punto, speriamo non l’ultima) mi sembra scorra bene, rispetti il paradigma di fruizione a vari livelli e dunque si presenti come uno spettacolo sufficientemente elaborato anche per gli adulti, sempre tenendo conto dei vincoli imposti da un approccio che deve coinvolgere persone in un ampio spettro di età. 
    Ma se devo dire, di questa quarta parte mi colpisce soprattutto una cosa, l’accento sulla dinamica del dono. Il tema centrale, senza troppo anticipare la trama, mi pare proprio costruito su questa dinamica. E’ lei che vince, alla fine, anche sull’ipotesi iniziale, sulla scommessa di partenza di ottenere con forza quello che poi viene, con una fortunosa catena di eventi che portano anche alla maturazione dei protagonisti, ceduto come un dono. La rinuncia alla forza innesca irresistibilmente una relazione più profonda, tale che si volge verso il movimento del dare quell’esitazione a lasciare qualcosa di sé, che è pur naturalissima negli umani (e quindi, nei giocattoli). Ti consegno questo nella speranza che tu possa essere felice. Quello che di mio ti regalo, ti restituisce “voce” ovvero fa cantare la tua vera essenza, per la quale potrai finalmente essere amata. 
    Alla fine della visione, ognuno è rilanciato nel fare i conti con l’ipotesi che la realtà sia più magica di quanto si è abituato a pensare. Per molti bambini, è un assunto normale. Per noi  adulti diventa il termine di una ripresa, di una ipotesi di lavoro (ritornare come bambini, per accedere alla verità delle cose, è un suggerimento autorevole innestato nel profondo della nostra storia). Ognuno è di fronte alla sua libertà, nel dare seguito a questa ipotesi, nel rilanciarla investendo la realtà del necessario lavoro di verifica, o abbandonarla. In ogni caso, la proposta c’è stata, delicata e persuasiva al tempo stesso. 

    E forse, mi dico, non si può chiedere molto di più, ad un film.

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