Blog di Marco Castellani

Mese: Febbraio 2020 Page 1 of 2

Un universo effervescente

Si trova “appena” ad undici milioni di anni luce dal pianeta Terra, il suo nome in codice è NGC 5128 ma è più nota con il nome di Centaurus A. E’ una galassia di forma ellittica che si estende nello spazio per ben sessantamila anni luce. Questa immagine presa dal Telescopio Spaziale Hubble ci mostra un “particolare” largo circa 8500 anni luce, più che sufficiente per mostrarci la maestosità di questa galassia.

La parte centrale di Centaurus A
Crediti: NASAESAHubble Heritage (STScIAURA)-ESA/Hubble Collaboration

La storia di Centaurus A è la testimonianza di un Universo che non si ferma, che non ammette soluzioni “stazionarie”, che è in sommovimento perenne. Stiamo infatti osservando il risultato di una collisione tra due galassie “normali” che incontrandosi, hanno generato questo ambiente “spumeggiante” e composito, costituito da regioni di forte formazione stellare, ammassi stellari massicci, ed ancora gas e polvere cosmica, in grandissima quantità.

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Colori

Viviamo in un’epoca ancora ammalata di razionalismo, e di conseguenza siamo ben poco abituati, ai colori. Intendo, non ci facciamo veramente caso, non ne percepiamo la portata (tranquillamente) rivoluzionaria.

Nel senso che i colori hanno qualcosa a che vedere con il guardare le cose, e questo è ovvio. Ma non semplicemente con il vederle, ma con l’osservazione attenta che percepisce la poliedricità, la complessità di quel che si guarda, la sua irriducibilità ad un pensiero prefissato, ad un pensiero praticamente già pensato, che volesse archiviare frettolosamente l’atto dell’osservazione. Ecco, una modalità di osservazione così è perpetuamente rivoluzionaria, si capisce.

Ma questo, soprattutto. La sfida a non archiviare in fretta il dato. 
Siamo in un’epoca in cui le cose si consumano in fretta, in cui è forte la tentazione di non vivere a fondo qualcosa, ma di metterla via per fare spazio sempre ad altro. Qualcosa di altro sembra sempre la cosa più importante (geniale la frase a prima vista tutto è secondario della bellissima canzone I sacchi della posta del Battisti “secondo periodo”). Così noi tendiamo a fare le cose di corsa, ad estrarre rapidamente il succo appena pensiamo di aver capito quale sia (che poi spesso lo perdiamo, non è una grande scoperta). E la cosa migliore per farlo, è archiviare il dato di osservazione etichettandolo con un pensiero, o peggio un giudizio. E passare oltre, cercando qualcosa in perpetuo, non trovando facilmente un punto di riposo. 
Ma i pensieri, le etichette mentali, sono sempre in bianco e nero, sono qualcosa afferente ai toni del grigio. Il problema è solo questo, alla fine: è che non sono a colori. 
I ragionamenti, le varie tesi ed antitesi, anche un certo gusto per la dialettica… sono tutte faccende in bianco e nero. Come i vecchi televisori prima dell’avvento del colore. Dopo un po’ che guardavi un telegiornale, un (vecchio) film, uno sceneggiato, quasi ti scordavi che non vedevi i colori. Ci stavi pure, lì dentro, certo. Ti sembrava di essere a tuo agio in quella rappresentazione di universo. E ti dimenticavi di questo, che non stavi vedendo alcun colore. La cosa più grave in assoluto, è che ti sembrava non ti mancassero, pensavi di poterne fare a meno.

In realtà ti eri accontentato di qualcosa di meno, del vivere davvero la realtà, per tutto quel che è (ecco cosa è grave, accontentarsi è grave, per quanto contiene di rassegnazione, è una diminuzione del vivere). E diciamolo pure, un po’ ti veniva anche facile, ti veniva comodo, non dovevi fare sforzo. Perché non dovevi aprirti più di tanto, in fondo.

Infatti, il colore presuppone una attitudine ad uscire da sé, almeno in parte. A lasciare scorrere via i pensieri, per osservare veramente la realtà. Il colore può anche suggerire un punto di riposo, o almeno suggerire che un punto di riposo si trovi fuori dal proprio baricentro, che graviti esterno ai propri pensieri. 


A volte poi c’è questo, i colori non li vogliamo vedere, li vogliamo quasi cancellare. Come se per guarire potesse bastare questo, eliminare il colore di una storia, di un rapporto. Proprio questo canta Branduardi in una bellissima canzone, chiamata appunto Colori
E’ il volto tuo che ho disegnato,
Mi son seduto ed ho aspettato:
Ho usato il nero per i capelli
E rossa sabbia per la tua bocca.
Verrà la pioggia e lo laverà,
Confonderà i tuoi colori,
Quando il vento sarà passato
Sarò alla fine guarito.

Ma nessuna rimozione ci porta a stare meglio, ce lo insegna la psicologia. Dobbiamo far pace con i nostro colori, con i colori del mondo, con i colori dell’esperienza che abbiamo, del mondo. E’ un lavoro, a volte necessario. Ogni terapia psicologica, ogni percorso spirituale, deve portare a ritrovare colore nel mondo, per esempio.

Quindi, è questo. I ragionamenti sono in bianco e nero: anche quelli nuovi nuovi, appena stampati, paiono uscir fuori da un vecchio televisore, alla fine. Infatti non danno mai vera gioia, i ragionamenti (la gioia è una cosa parecchio colorata, in ogni caso). Danno attaccamento, questo sì. E motivi di polemica, di accorpamento o divisione, questo sì. Cose per ingannare il tempo, dimenticandoci di voler essere felici, insomma. Si possono fare molte cose, dimenticando il nostro cuore e la sua fame di colore.

Non l’arte, però.

L’arte, quella ha qualcosa di molto più a che fare, con i colori. Per le arti figurative è difficile negarlo. Ma anche un bel romanzo è a colori, per esempio. E’ assolutamente evidente. Anche se è stampato in caratteri neri su foglio bianco, come lo apri subito si sprigionano i colori. Pure la scienza, se non perde la sua carica di meraviglia, è a colori. Perché lo è la curiosità, quella che spinge a voler capire il reale. E potremmo approfondire il discorso verso il Mistero, pensando ai colori nella Sacra Scrittura: qualsiasi cosa si creda, si potrà convenire che un libro davvero importante (per molti, appunto, sacro) non può assolutamente prescindere dai colori, non può limitare in alcun modo il suo approccio alla realtà.

Il colore è la prima cosa, la più immediata e disponibile, che ci dice, ci suggerisce, che c’è ben altro che i nostri pensieri. A volte è un’ancora di salvezza di una potenza indescrivibile, perché ci rimanda ad un mondo di emozioni e passioni, dove già ci sentiamo più a casa. A volte è il modo con il quale una misteriosa bellezza ci raggiunge, ci sussurra, ora pensi in bianco e nero, ma rimani calmo, i colori ci sono, non lo vedi che ci sono? I colori, alla fine, ritornano. 

A volte la percezione – anche fuggevole – di un mondo segreto a colori, è tutto quel che ci serve.


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Venti passi

Lorenzo è sulla soglia di una scoperta straordinaria, una scoperta che promette di rivoluzionare l’astronomia per gli anni a venire. Unendo il quadro cosmologico consolidato con le più recenti  acquisizioni delle geometrie non euclidee, scopre una connessione feconda che può portare ad un risultato senza precedenti. Tuttavia non viene compreso dal suo ambiente scientifico ed anzi deve lottare con il suo superiore che vorrebbe destinarlo ad altre ricerche.


Vive questo particolare momento della sua storia professionale mentre si trova nel mezzo di una crisi matrimoniale, che sta raggiungendo forse il punto di rottura. Potrebbe compiere un balzo avanti straordinario sul piano conoscitivo, se solo trovasse il modo di poter verificare la sua intuizione. Nel contempo, sta rischiando un annichilimento completo sul piano affettivo. Le due problematiche risulteranno assai più legate di quanto lo stesso Lorenzo avrebbe potuto supporre. 

È un cambio di atteggiamento verso il reale, una maggiore compromissione con la vita, che permetterà ad entrambe le situazioni di raggiungere uno sbocco inaspettato, di fluire verso un compimento reso in precedenza impossibile o comunque difficile da una attitudine troppo intellettuale. Una maggiore immersione nel flusso della vita porterà a Lorenzo un rifiorire di inattesa fecondità.


Il racconto Venti passi rappresenta il mio contributo al Carnevale della Matematica #69 dal tema “Macchine matematiche antiche e moderne”.

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Quel puntino blu…

Correva l’anno 1990, e la sonda Voyager 1 si trovava già alla bellezza di quattro miliardi di chilometri dal nostro Sole. Era partita il 5 settembre del 1977 e piano piano aveva guadagnato questa rispettabile distanza, oltrepassando anche i pianeti esterni, quelli che erano stati il suo principale oggetto di investigazione.

Il giorno 14 febbraio dell’anno 1990, successe qualcosa di particolare. La sonda voltò la camera all’indietro, realizzando il primo ritratto di famiglia di un Sistema Solare, che per la prima volta si poteva abbracciare nella sua meravigliosa completezza. Successe questo, appena prima che la camera venisse spenta per garantire il funzionamento ininterrotto della sonda, fece questa foto particolarmente significativa. In questo ritratto la nostra Terra entra tutta dentro un singolo pixel.

Quel puntino chiaro… sì, siamo noi.
Crediti: NASA/JPL-Caltech

Siamo così appena, visti da così lontano. Piccoli piccoli. E passerà certamente molto tempo prima che una analoga foto della nostra Terra possa essere presa da queste distanze davvero siderali.

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(Mia) piccola fragilità

La mia piccola fragilità
che diventa una barca

e tu più non fuggi
ma sali ed insieme

partiamo.

Da “Anni diVersi” (Lulu, 2009)
Disegno di Davide Calandrini (diritti riservati)

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Risposta alla paura

La risposta alla paura
– l’unica vera risposta –
è un cammino.

Una strada bella
faticosa ed aspra

che porta a casa.


Da Per prima è l’attesa (Ilmiolibro, 2011)
Fotografia dell’Autore

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Daniela nella pioggia

Daniela aveva questo, nel cuore. Voleva smettere di rimanere nella pioggia, voleva essere amata. Davvero. Quasi due anni ormai che lei restava nella pioggia. Alla sua amica del cuore, Amanda, lo diceva così. Quando lei le chiedeva, arrivata in ufficio, “come stai”, lei rispondeva in questo modo. Ormai era uno standard, una consuetudine tra loro, come un gioco.

“Come stai?”
“Sono nella pioggia”
E poi magari sorrideva. Perché Daniela aveva un sorriso contagioso e non le importava troppo di nasconderlo, sorrideva anche quando era nella pioggia…

Il racconto può essere anche scaricato in formato PDF o epub.

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Laura

Passeggiavamo nel viale alberato. Lei non piangeva più, anche se il suo volto era ancora segnato dalle righe sottili delle lacrime versate.
“Non è vero, non è più così. Lo sai. Ora, lo sai” , disse Laura.
Non risposi. Assorbivo l’aria, le sensazioni. Il suono dei miei passi. Aspettavo di appoggiarmi su un terreno più semplice, ricercavo un piano di stabilità interiore più definito.
Erano ancora raggi serpeggianti di tensione sul suo viso, ad apparire. Velocemente poi si diradavano. Osservavo, preferivo aspettare.
Osservavo, preferivo aspettare… 
Non so. Non so dirti, Laura. Lo dissi o lo pensai, non ricordo. Lo sentivo.
“E’ una cosa passata. Lo sai”, disse lei di nuovo.
C’era una barriera che non cadeva, un qualcosa che non si schiudeva. Camminavamo, in silenzio. Non ero preoccupato: c’era solo da attendere. Non si poteva forzare, non si poteva forzare nulla.
Le cose grandi e le cose piccole si mischiavano. I moti dell’animo erano importanti, come gli alberi maestosi sotto i quali camminavamo. Il microcosmo delle sensazioni variava in alta frequenza ad ogni nostro passo.
Lei fece il passo più coraggioso. E la situazione si appoggiò nel suo punto di stabilità, nello stesso istante. Si fermò, appoggiò il viso sul mio petto. Respiravo il profumo dei suoi capelli biondi.
“Il resto non conta nulla. Io ti voglio bene. Io ti amo”, mi disse guardandomi.
Niente, nessuno, era più femminile di Laura, in quel momento. In quel brevissimo fondamentale momento, nel lungo viale alberato.
E io ero a casa. Finalmente.

Racconto del 2011, pubblicato su web.

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