Viviamo in un’epoca ancora ammalata di razionalismo, e di conseguenza siamo ben poco abituati, ai colori. Intendo, non ci facciamo veramente caso, non ne percepiamo la portata (tranquillamente) rivoluzionaria.

Nel senso che i colori hanno qualcosa a che vedere con il guardare le cose, e questo è ovvio. Ma non semplicemente con il vederle, ma con l’osservazione attenta che percepisce la poliedricità, la complessità di quel che si guarda, la sua irriducibilità ad un pensiero prefissato, ad un pensiero praticamente già pensato, che volesse archiviare frettolosamente l’atto dell’osservazione. Ecco, una modalità di osservazione così è perpetuamente rivoluzionaria, si capisce.

Ma questo, soprattutto. La sfida a non archiviare in fretta il dato. 
Siamo in un’epoca in cui le cose si consumano in fretta, in cui è forte la tentazione di non vivere a fondo qualcosa, ma di metterla via per fare spazio sempre ad altro. Qualcosa di altro sembra sempre la cosa più importante (geniale la frase a prima vista tutto è secondario della bellissima canzone I sacchi della posta del Battisti “secondo periodo”). Così noi tendiamo a fare le cose di corsa, ad estrarre rapidamente il succo appena pensiamo di aver capito quale sia (che poi spesso lo perdiamo, non è una grande scoperta). E la cosa migliore per farlo, è archiviare il dato di osservazione etichettandolo con un pensiero, o peggio un giudizio. E passare oltre, cercando qualcosa in perpetuo, non trovando facilmente un punto di riposo. 
Ma i pensieri, le etichette mentali, sono sempre in bianco e nero, sono qualcosa afferente ai toni del grigio. Il problema è solo questo, alla fine: è che non sono a colori. 
I ragionamenti, le varie tesi ed antitesi, anche un certo gusto per la dialettica… sono tutte faccende in bianco e nero. Come i vecchi televisori prima dell’avvento del colore. Dopo un po’ che guardavi un telegiornale, un (vecchio) film, uno sceneggiato, quasi ti scordavi che non vedevi i colori. Ci stavi pure, lì dentro, certo. Ti sembrava di essere a tuo agio in quella rappresentazione di universo. E ti dimenticavi di questo, che non stavi vedendo alcun colore. La cosa più grave in assoluto, è che ti sembrava non ti mancassero, pensavi di poterne fare a meno.

In realtà ti eri accontentato di qualcosa di meno, del vivere davvero la realtà, per tutto quel che è (ecco cosa è grave, accontentarsi è grave, per quanto contiene di rassegnazione, è una diminuzione del vivere). E diciamolo pure, un po’ ti veniva anche facile, ti veniva comodo, non dovevi fare sforzo. Perché non dovevi aprirti più di tanto, in fondo.

Infatti, il colore presuppone una attitudine ad uscire da sé, almeno in parte. A lasciare scorrere via i pensieri, per osservare veramente la realtà. Il colore può anche suggerire un punto di riposo, o almeno suggerire che un punto di riposo si trovi fuori dal proprio baricentro, che graviti esterno ai propri pensieri. 


A volte poi c’è questo, i colori non li vogliamo vedere, li vogliamo quasi cancellare. Come se per guarire potesse bastare questo, eliminare il colore di una storia, di un rapporto. Proprio questo canta Branduardi in una bellissima canzone, chiamata appunto Colori
E’ il volto tuo che ho disegnato,
Mi son seduto ed ho aspettato:
Ho usato il nero per i capelli
E rossa sabbia per la tua bocca.
Verrà la pioggia e lo laverà,
Confonderà i tuoi colori,
Quando il vento sarà passato
Sarò alla fine guarito.

Ma nessuna rimozione ci porta a stare meglio, ce lo insegna la psicologia. Dobbiamo far pace con i nostro colori, con i colori del mondo, con i colori dell’esperienza che abbiamo, del mondo. E’ un lavoro, a volte necessario. Ogni terapia psicologica, ogni percorso spirituale, deve portare a ritrovare colore nel mondo, per esempio.

Quindi, è questo. I ragionamenti sono in bianco e nero: anche quelli nuovi nuovi, appena stampati, paiono uscir fuori da un vecchio televisore, alla fine. Infatti non danno mai vera gioia, i ragionamenti (la gioia è una cosa parecchio colorata, in ogni caso). Danno attaccamento, questo sì. E motivi di polemica, di accorpamento o divisione, questo sì. Cose per ingannare il tempo, dimenticandoci di voler essere felici, insomma. Si possono fare molte cose, dimenticando il nostro cuore e la sua fame di colore.

Non l’arte, però.

L’arte, quella ha qualcosa di molto più a che fare, con i colori. Per le arti figurative è difficile negarlo. Ma anche un bel romanzo è a colori, per esempio. E’ assolutamente evidente. Anche se è stampato in caratteri neri su foglio bianco, come lo apri subito si sprigionano i colori. Pure la scienza, se non perde la sua carica di meraviglia, è a colori. Perché lo è la curiosità, quella che spinge a voler capire il reale. E potremmo approfondire il discorso verso il Mistero, pensando ai colori nella Sacra Scrittura: qualsiasi cosa si creda, si potrà convenire che un libro davvero importante (per molti, appunto, sacro) non può assolutamente prescindere dai colori, non può limitare in alcun modo il suo approccio alla realtà.

Il colore è la prima cosa, la più immediata e disponibile, che ci dice, ci suggerisce, che c’è ben altro che i nostri pensieri. A volte è un’ancora di salvezza di una potenza indescrivibile, perché ci rimanda ad un mondo di emozioni e passioni, dove già ci sentiamo più a casa. A volte è il modo con il quale una misteriosa bellezza ci raggiunge, ci sussurra, ora pensi in bianco e nero, ma rimani calmo, i colori ci sono, non lo vedi che ci sono? I colori, alla fine, ritornano. 

A volte la percezione – anche fuggevole – di un mondo segreto a colori, è tutto quel che ci serve.


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