Passeggiavamo nel viale alberato. Lei non piangeva più, anche se il suo volto era ancora segnato dalle righe sottili delle lacrime versate.
“Non è vero, non è più così. Lo sai. Ora, lo sai” , disse Laura.
Non risposi. Assorbivo l’aria, le sensazioni. Il suono dei miei passi. Aspettavo di appoggiarmi su un terreno più semplice, ricercavo un piano di stabilità interiore più definito.
Erano ancora raggi serpeggianti di tensione sul suo viso, ad apparire. Velocemente poi si diradavano. Osservavo, preferivo aspettare.
Osservavo, preferivo aspettare… |
Non so. Non so dirti, Laura. Lo dissi o lo pensai, non ricordo. Lo sentivo.
“E’ una cosa passata. Lo sai”, disse lei di nuovo.
C’era una barriera che non cadeva, un qualcosa che non si schiudeva. Camminavamo, in silenzio. Non ero preoccupato: c’era solo da attendere. Non si poteva forzare, non si poteva forzare nulla.
Le cose grandi e le cose piccole si mischiavano. I moti dell’animo erano importanti, come gli alberi maestosi sotto i quali camminavamo. Il microcosmo delle sensazioni variava in alta frequenza ad ogni nostro passo.
Lei fece il passo più coraggioso. E la situazione si appoggiò nel suo punto di stabilità, nello stesso istante. Si fermò, appoggiò il viso sul mio petto. Respiravo il profumo dei suoi capelli biondi.
“Il resto non conta nulla. Io ti voglio bene. Io ti amo”, mi disse guardandomi.
Niente, nessuno, era più femminile di Laura, in quel momento. In quel brevissimo fondamentale momento, nel lungo viale alberato.
E io ero a casa. Finalmente.
Racconto del 2011, pubblicato su web.
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