Correva l’anno 1990, e la sonda Voyager 1 si trovava già alla bellezza di quattro miliardi di chilometri dal nostro Sole. Era partita il 5 settembre del 1977 e piano piano aveva guadagnato questa rispettabile distanza, oltrepassando anche i pianeti esterni, quelli che erano stati il suo principale oggetto di investigazione.

Il giorno 14 febbraio dell’anno 1990, successe qualcosa di particolare. La sonda voltò la camera all’indietro, realizzando il primo ritratto di famiglia di un Sistema Solare, che per la prima volta si poteva abbracciare nella sua meravigliosa completezza. Successe questo, appena prima che la camera venisse spenta per garantire il funzionamento ininterrotto della sonda, fece questa foto particolarmente significativa. In questo ritratto la nostra Terra entra tutta dentro un singolo pixel.

Quel puntino chiaro… sì, siamo noi.
Crediti: NASA/JPL-Caltech

Siamo così appena, visti da così lontano. Piccoli piccoli. E passerà certamente molto tempo prima che una analoga foto della nostra Terra possa essere presa da queste distanze davvero siderali.

L’immagine in sé stessa è stata appena rielaborata secondo gli standard moderni, sempre rispettando i criteri per i quali è stata acquisita. Come è noto, si deve al famoso divulgatore Carl Sagan l’idea di usare la camera della Voyager per “guardarci” da così lontano. Il suo celebre commento alla foto è qualcosa che è uscito dall’ambito degli addetti ai lavori o degli appassionati, per acquisire una dignità di particolare valore, per ogni donna ed ogni uomo. Difficile sopravvalutare infatti la portata culturale di una tale immagine, vista la sua straordinaria unicità.

E’ straordinario pensare che le sonde Voyager stiano continuando il loro cammino (ormai) interstellare, e che ancora riusciamo da qui a ricevere i dati che ci stanno inviando. Personalmente, è una cosa che non cessa mai di stupirmi. Adesso che scrivo, la Voyager 1 si trova a più di ventidue miliardi di chilometri mentre la Voyager 2 dista da noi poco più di diciotto miliardi di chilometri, come è specificato dagli indicatori in tempo reale che compaiono sul sito della missione.

E quel puntino blu siamo noi. In quel puntino blu, sperduto nell’universo, largo come un pixel – un’unità elementare di immagine – c’è una forma di vita capace di elaborare un modello fisico-matematico di come funziona il cosmo e di come si è sviluppato tutto quel che c’è.

Capace di lanciare due sonde meravigliose (tecnologia anni settanta) e poi di non dimenticarle, di non perdere il contatto.

E soprattutto, capace di amare e di sperare.

Insomma, quel puntino blu è speciale, da quel puntino blu si vede il mondo. E lo spettacolo – tutto sommato – è ancora bello.

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