Blog di Marco Castellani

La poesia ai tempi del Coronavirus

Non tutti i tempi sono uguali: se l’universo è in espansione, anzi in accelerazione, questo va da sé, ed ogni tempo è in fondo un tempo particolare. Secondo me, ci sono tempi particolarmente importanti anche per leggere di poesia. Non tutti i momenti sono uguali, anche per questo. I tempi particolarmente sfidanti, come è indubbiamente quello che stiamo attraversando, sono probabilmente quelli più adatti. Penso che i tempi in cui il senso di sopportazione per la retorica arriva al limite, sono sempre tempi di opportunità per l’espressione poetica.
Quest’ultima infatti è antiretorica per eccellenza (a parte la brutta poesia, ovvero la poesia mancata, la poesia che non è poesia). Nella poesia finalmente la parola è accudita, coccolata, protetta. Ogni singola parola, conta. In esatta salutare opposizione al diluvio di parole di questo tempo, dove si spinge sulla quantità forse per una percezione di difetto, di mancanza. Tutto il contrario nella poesia, dove anche tre parole contate si possono mettere insieme, con una tale alchimia segreta, che si pongono naturalmente in pool position per rimanere eterne nella storia della letteratura. Esempio facili ma importanti, possono essere Mattina, di Giuseppe Ungaretti, oppure Ed è subito sera, di Salvatore Quasimodo. La prima è stata giustamente definita come “uno dei componimenti più brevi dell’intero novecento”. Un uso quanto mai accorto delle parole, con un risultato splendidamente riuscito proprio nell’uso sapientemente ridotto di mezzi.
Foto di Eleonora Antoniella
E’ utile pensare in questo tempo, a risultati estremi come quello di Ungaretti. M’illumino / d’immenso, il testo di Mattina, sono appena quattro parole. Qui la potenza di fuoco della parola è evidentissimo: quattro parole, quattro parole bastano.
Quanto spreco di parole c’è adesso, quante parole ci buttano addosso i media? Da ogni angolo di casa connesso ad una sorgente informativa, fuoriescono a getto continuo tonnellate di parole. Alcune certamente utili, la maggior parte no. D’altronde, le parole utili sono pochissime, e quindi tale comunicazione è paradossalmente incomunicante.
Se già Nanni Moretti, in una celebre sequenza, urlava alla giornalista à la page che lo intervistava, che le parole sono importanti, lo faceva in ultima analisi per una rivendicazione poetica. La vera poesia usa con studiata parsimonia un ingradiente “magico”, la parola appunto, così che l’abuso ordinario diventa francamente intollerabile. Nelle parole il poeta tenta di dire il mondo, secondo come gli si rivela. Ogni sequenza di parole che mette in fila, è un tributo alla rivelazione del mondo, a come esso gli appare, oltre ogni razionalizzazione e normalizzazione. E’ il suo mondo unico e specialissimo, che per un mistero largamente insondabile, risuona anche nelle profondità di altre persone, di altri cuori. Creando un ponte misterioso e bellissimo tra universi che ordinariamente dispiegano i loro fiori (ed anche le loro spine), ad anni luce di distanza uno dall’altro.
La parole dunque sono materiale così prezioso che sprecarle appare intollerabile. Usarle male, è intollerabile. Depotenziarle, lo è. La parola che stordisce, che spinge sulla quantità e non onora la immensa pazzesca profondità di ogni vocabolo, è volgare, è pornografia verbale. E’ un gioco al ribasso, è pavimentare d’oro una strada per farla percorrere dai cani (niente contro i cani, ma non apprezzerebbero certamente lo sforzo e la spesa). La parola oggi, in questi giorni di clausura fisica e di media che fanno da surrogato al contatto umano, è spinta al massimo su questa deriva, è abusata, è trascinata su terreni dove non vorrebbe andare, è forzata ad un significato che non la rispetta, non la onora: è violentata, stuprata.
I diecimila talk show dove si analizzano all’infinito le coordinate esitenziali di questo tempo così peculiare, ripetendo all’estremo le cose che sappiamo già analizzandone in mille declinazioni, contaminando il silenzio necessario di parole rese inutili, disinnescate, sterilizzando alla radice ogni possibile percezione di un senso di mistero che pure ci avvolge, si pongono all’opposto esatto dell’espressione poetica, sempre molto cauta ed accorta sull’uso della parola.
Tornare a lavorare sulla parola è l’opera per uscire da ogni modello di universo stazionario ed abbracciare davvero lo schema evolutivo che anche lo studio del cosmo oggi ci suggerisce.
E’ un lavoro che ci attende, ci attende tutti, quello di ridefinire un dizionario, quello di restituire il carattere inaudito alla lingua, sottraendola da ogni incrostazione di già visto, già sentito. Per questo è opportuno, ora più che mai, riprendere a leggere poesia, a scrivere e leggere poesia.
E’ un lavoro che anche io voglio provare a fare ora, dentro questo tempo. Perché il vero terribile rischio di planare sul chiacchiericcio televisivo e di rimanere storditi, anestetizzati lì dentro, è quello di uscire da quest’epoca, esattamente come vi eravamo entrati. Dunque, vanificando e sporcando di inutilità anche una cosa enorme e drammatica come questa, che stiamo vivendo. Un rischio che mi spaventa, mi spaventa totalmente, che non vorrei proprio correre. Tornare come prima? No, non voglio, non ne ho voglia. Non mi piace l’idea, non mi piace l’ostinazione a dimorare in un universo stazionario, dove non cambia nulla e dunque il tempo alla fine è vano.
No, mi ribello! Mi piace invece respirare la primavera in corso e il germogliare di idee leggere ed ampie come il mare, come un mare azzurro e sereno di tante coste italiane, che orla ed adorna tanti miei ricordi, tanti nostri ricordi. Sentire la pace di un tempo che srotola un suo significato, un significato nascosto che a volte si fa strada fino al cuore e ti punge di un momento assurdo di felicità pazza, tanto eccentrico e fuori orbita che puoi vivere aspettando che ne torni un altro, e l’occupazione della tua vita allora è appena lanciare funi, agganciarle da uno di questi momenti al successivo, e percorrere il tuo tempo e il tuo spazio, fidandoti che vi sia un senso, scommettendo su un senso che irrobustisce il passo e rende solido il cammino. Anche se le funi scendono giù giù prima di risalire, verso l’altro aggancio.
E le parole che servono in questo viaggio sono poche e belle, poche e belle come la vera poesia che ci accompagna e ci parla di un mondo fatato, un mondo fatato che è decisamente troppo bello, in fondo in fondo troppo smaccatamente bello, per non essere anche vero.

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1 Comment

  1. "Non mi piace l’idea, non mi piace l’ostinazione a dimorare in un universo stazionario, dove non cambia nulla e dunque il tempo alla fine è vano." Proprio vero. Quanto sono sterili le migliaia di parole che ascoltiamo ogni giorno? E quanto invece creative le rare parole poetiche… Filippo

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