Sono lì che ascolto. Sono seduto al mio posto nella Cavea dell’Auditorium Parco della Musica (che ho appena scoperto essere ora chiamato Ennio Morricone), e sono appena stato oggetto (credo, con altre persone) di un fenomeno spaziotemporale abbastanza curioso.
Me ne sono accorto appena il tastierista ha affrontato la stupenda intro di pianoforte di The Lamb lies down on Broadway, questo fantasmagorico disco realizzato dai Genesis nel 1974. Vabbè, più che disco, dovremmo precisamente dire concept album, come appunto viene menzionato da quelli che la sanno lunga.
Ma dicevamo, il fenomeno spaziotemporale. Eccolo. E’ un salto indietro nel tempo per un ammontare di circa 45 anni, e nessuno mi aveva avvertito. Di fatto, dopo un minuto di musica (glorioso tripudio di tastiere), mi trovo nel bel mezzo degli anni settanta. Non c’è possibilità di sbagliare, non c’è alcun errore. E’ tutto perfettamente coerente, in effetti la coerenza è veicolata dalla musica, dai rapporti di tensione e distensione tra le note, dall’architettura di universo che espongono, e diffondono, istante per istante.
Beh, foto fatta con il mio smartphone (riapparso per un momento appena, d’accordo) |
Penso che ogni melodia, anche la più banale, proponga una architettura di universo, trasporti un modello cosmologico. Un modo di pensare, di guardare alle sensazioni, alle emozioni, alle pulsioni, alla natura, al cielo, alla Luna. Al destino dell’universo, alla presenza di un senso o alla sua mancanza. A come vanno a finire le cose, per te e per tutti quanti e per tutto quel che c’è. Certo tale modello è nascosto, è cablato nelle note e nel ritmo, nei timbri degli strumenti e nel modo di suonarli. Nascosto, e per questo più potente. Ti arriva sottopelle senza passare per il ragionamento, lo assorbi senza quasi accorgerti. Ti arriva in vena, senza che tu debba iniettarti nulla.
Ed eccola lei, la Luna. Si vede bene dal mio posto nella Cavea (Tribuna Numerata, fila E), durante la prima parte del concerto. La guardo con curiosità, e trovo subito piena conferma. E’ stata sostituita, non è quella solita. Per la precisione, è una Luna del 1975 (o giù di lì, l’esattezza totale non è possibile), una Luna ancora tutta emozionata, un po’ scomposta, un po’ arruffata, dall’essere stata visitata dall’uomo solo pochi anni prima, toccata per la prima volta. Eh già, penso, in fin dei conti l’arrivo sulla Luna degli astronauti di Apollo 11 è del 1969, insomma pochi pochi anni fa. Una Luna che stiamo percorrendo adesso in fin dei conti (l’ultima missione, Apollo 17, è appena di un paio di anni fa). Siamo nel 1975, ricordiamoci.
Essere nel 1975 vuol dire qualcosa. Non è una cosa leggera. Non c’è Internet, non ci sono telefonini. Soprattutto (non troppo strano) non esiste niente, di tutta la musica creata dopo il 1975. Non esistono tutte le invenzioni melodiche, ritmiche, inventate dopo. Per dire, non esiste il suono delle percussioni più secche e precise, degli anno ’90 (infatti in realtà non so di cosa sto parlando): qui ci sono ancora quelle pastose, piene, totali. Non ci sono i ritmi disco degli ‘80, i ritmi facili e ripetitivi e minimalistici. Quali? Non lo so, ripeto. Non esiste ancora The Wall dei Pink Floyd, nemmeno come possibilità del pensiero. Attenzione, qui. Essere nel 1975 vuol dire che puoi pensare quello che vuoi, che credi di poter pensare qualsiasi cosa, ma di fatto non riesci a pensare il giro di basso di Another Brick in the Wall nemmeno se ti sforzi come un pazzo. Non ti viene. Non ti avvicini nemmeno. Puoi prendere una nota o due se sei geniale, come anticipo nell’aria, ma subito ricaschi nella circuitazione più barocca, meno cinica e più enunciativa, propria di questi tuoi anni. E’ una categoria mentale che non esiste, e tu non ti rendi nemmeno conto che non esiste, è questo il bello. Non capisci che c’è uno spazio di esistenza di qualcosa di incredibile, ma che ora non esiste. Non vedi lo spazio vuoto, è disponibile ma in un certo senso non lo è. Si nasconde, non c’è. Non lo sai. Lo saprai tra qualche anno (non molti), ma ora no.
E mica è finita qui. Non esiste nemmeno Abacab, questa canzone che è così stupendamente nelle corde dei Genesis (quelli senza Peter Gabriel, d’accordo, ma ora non entriamo nel dettaglio), che ti stupisci totalmente del fatto che non esiste. Che non è nell’aria. Che vuoto che lasciano le cose che non esistono! Ora sarebbe intollerabile. E tu niente, nemmeno sai che non esiste, appunto. Pazzesco, a pensarci.
Così ho attraversato un tunnel spaziotemporale e ora mi trovo qui. Del resto è normale. Perfettamente normale. Non è che ti avvertono prima che tu attraversi un tunnel di questi. Mica trovi dei cartelli attenzione al tunnel, ti porterà negli anni settanta, vuoi proseguire? No, niente di tutto questo.
Potenza della musica, potremmo dire. E qui la musica c’è, c’è eccome. E c’è gente capace di suonarla, di cantarla: per la cronaca, un supergruppo composto dai Revelation e dagli Squonk. Vabbé io non li conoscevo, ma non importa. Ciò che importa adesso è che c’è gente che ti esegue Lambs con una precisione nitida quasi da maniaci. Sì, e con bravura. Certo. Parecchia, anche. Tutto è come nel disco (forse anche troppo? Non so). Ogni specifico pattern di batteria (e sì che è una invenzione continua quel disco, che Phil Collins se ne è inventate di tutte) è riprodotto qui dal vivo adesso, ed ecco spiegato il meccanismo della macchina del tempo. Rendere viva una cosa degli anni settanta è possibile solo se sei negli anni settanta. Diamine, questo spiega tutto. E anche la parte visiva è curata, l’idea che non ascolti appena una musica, ma sei dentro una storia, calato completamente in una storia, che è di colori, maschere, costumi, video.
Mi dico, questi qui che suonano, ma quanto avranno studiato il disco come dei pazzi maniaci? Ogni grappolino di secondi di suono è stato certo riascoltato innumerevoli volte, per fare questo reverse engineering che restituisce un’opera rock (con una trama complessa ed onirica) con questa precisione quasi imbarazzante.
E le luci, i colori, che accompagnano il dipanarsi della storia di Rael, il giovane portoricano sbucato fuori dal riformatorio di Pontiac (la storia narra di un altro salto spaziotemporale, quella di Rael verso una sorta di regno sotterraneo sede di incontri tra il mitologico e l’allucinato).
Il filmato sostituisce la tonnellata di diapositive che a suo tempo (cioè ora) i Genesis si portavano in concerto, e muove tra l’evocativo, il sognante, l’inquietante, con lo spaesamento dell’arrivo inesorabile dell’epoca moderna, il sogno che si fa incubo perché non è più accolto, è pigiato verso le profondità della coscienza dalla modernità industriale che nell’esaltato delirio della produzione in serie pialla ogni differenza, la solitudine, la violenza, la paura dell’intimità, il mondo non più avvertito come rifugio, ma come un posto dove ci si gioca tutto, non ci si può rilassare, anche l’amore è ridotto ad una prestazione, un imparare dei codici di azione (e di sopraffazione) per non fare brutta figura, affidandosi ai manuali, in perdita verticale di spontaneità libera. Fino all’uscita finale, nel qui ed ora, forse sbrigativa ma in ogni modo indicativa, riunificativa (anche nella storia), che chiude il tunnel spaziotemporale e mi riporta (dopo un esteso bis, in verità) all’anno 2020: quello dove di botto ritornano all’esistenza i telefonini, Internet e tutto il resto.
Insieme con la nostalgia di un’epoca, provvisoria ed imperfetta quanto si vuole, dove sognare non era ancora concepito come antitesi al cambiamento del mondo, ma ne era la necessaira premessa.
Come in realtà deve essere, perfino dopo 45 anni da allora.
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