Blog di Marco Castellani

Mese: Novembre 2020

Oggi non ho tempo…

Questo ci capita spesso di dirlo, di ammettere candidamente guarda oggi non ho proprio tempo. E ci va bene così. O magari siamo dispiaciuti, avremmo voluto fare quell’altra cosa, vedere quella persona (nel rispetto della distanza sociale, ovviamente). Ma non c’è stata possibilità, non c’è stato tempo. Già, ma cosa il tempo? Ci dice qualcosa l’astronomia?

Certo. Ci dice che la nostra nozione di tempo è interamente fallace. Tanto che un fisico come Carlo Rovelli può asserire (con provocatoria ragione) che il tempo non esiste. La relatività di Einstein ha scardinato per sempre l’idea marmorea di un “prima” e un “dopo”. Ci si interroga ormai se il tempo possa essere una sorta di artificio della coscienza per aiutarci a prendere parte al mondo e interagire con esso.

La prima “foto” di un buco nero, al centro della galassia M87. Crediti: Event Horizon Telescope Collaboration

In ogni caso, già da molti anni sappiamo che lo scorrere del tempo cambia a seconda di cosa c’è intorno. In montagna scorre più veloce, al mare più lento. Tutto molto concreto, sia chiaro: i satelliti GPS devono tener conto di questi cambiamenti, altrimenti non funziona più nulla. E nei pressi di un buco nero (qui la famosa prima foto) diventa lentissimo.

Pensiamoci. Il tempo è apparente, non è un dato fisico fondamentale. Utile ricordarcene, per ricercare un nostro tempo, per porre finalmente la nostra impronta sul cronografo degli eventi. Se il tempo è morbido, a noi di modellarlo, diventando (o ritornando) creativi. Andiamo, la fisica è dalla nostra parte.

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Il nuovo, che arriva

Sembra una immagine molto dinamica, ci appare quasi strano che si riferisca ad un evento astronomico. Perché se c’è una cosa che per noi è certa (come sensazione, non come ragionamento) è che il cielo è fermo. Le stelle stanno lì, non si muovono. Il cielo delle stelle fisse, si dice d’altra parte. Non certo per caso. Un’idea a cui ci siamo abituati nel tempo, ed è difficile lasciarla andare. Ma la scienza oggi ci dice questo: tutto si muove, tutto è in trasformazione. Anche le galassie. Le pensiamo di solito come entità beatamente isolate, perse nei giri orbitali delle loro stelle, imperturbabili l’una all’altra. Straniere, l’una all’altra.

E invece no. Le galassie si attraggono, si attraversano, si fondono, si modificano, si scambiano flussi di stelle. Le galassie sono entità relazionali, oggi lo sappiamo con certezza inoppugnabile. Troppi esempi ce lo dimostrano.

Crediti: ESA/Hubble & NASA, SDSS, J. Dalcanton; Ringraziamento: Judy Schmidt (Geckzilla)

Come questo. Una galassia (NGC 2799) colta nell’atto di tuffarsi verso il centro di un’altra (NGC 2798), attirata dal suo campo gravitazionale. Le due alla fine diverranno uno, un’unica galassia. Ma nel tempo: ci vorranno centinaia di milioni di anni, forse anche più. E no, niente di catastrofico. Il grande spazio vuoto che c’è tra le stelle, tipicamente, fa sì che anche in questi eventi di fusione, queste scivolino via l’una accanto all’altra, senza grandi problemi.

Così spesso si crea il nuovo: un accostamento pacifico di nuove cose, situazioni. Senza distruggere quel che già c’è, di valido.

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Emozionarsi ancora

Osservate quanto è sottile questa galassia. Molte sono come NGC 5866 in realtà, ma non sono viste di taglio. Una notevole eccezione, la conosciamo bene: si tratta della nostra Via Lattea. Condivide con questa in realtà diverse caratteristiche, sebbene sia un poco più piccola. Qui, la luce impiega circa sessantamila anni per traversarla da parte a parte, il 30% in meno di quanto impiega nella nostra.

Crediti immagine: NASAESA, and The Hubble Heritage Team (STScI/AURA)

Eh sì, perché certe galassie (tra cui quella in cui viviamo) sono veramente enormi. Noi ce lo dimentichiamo spesso, ma è così. Viviamo in un ambiente che conta circa 300 miliardi di stelle, nientemeno. Una ricchezza incredibile di colori, grandezze, stadi di evoluzione, sistemi plantetari, e via di questo passo.

E con tutto questo, parliamo pur sempre di una singola galassia. Di galassie ce ne sono moltissime. Secondo stime moderne, siamo nell’ordine dei duemila miliardi. Nel nostro universo, beninteso. Che è poi l’unico ambiente di cui possiamo ragionare: se ne esistono o no altri, è faccenda che – almeno oggi – non compete alla scienza.

A noi scienziati compete solo ricordare questo: siamo in un cosmo abbondante e variegato, tale da sorpassare ogni schema concettuale. Tale da costringerci ad allargare la mente, ragionare in grande, superare piccolezze e meschinità. Almeno con il cuore, almeno per slancio di un momento: proiettiamoci nell’immensità del cosmo. Sentiamo la meraviglia, a pelle. Emozioniamoci, ancora.

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Tutto cambia

Tutto è in movimento, niente rimane uguale. Tutto è in continuo movimento. La nostra stessa Galassia non è che il risultato di una trama di incontri, di connessioni, di scambi. La notizia appena pubblicata su Nature Astronomy è che la Via Lattea sia stata deformata nel passato in modo sostanziale, da un incontro con una galassia più piccola che anche oggi si trova vicina a noi, la Grande Nube di Magellano. Gli scienziati hanno scoperto che circa 700 milioni di anni fa (un niente, in termini astronomici) questa galassia è passata molto vicino ai bordi della nostra, sconvolgendo non poco il suo assetto complessivo, e contribuendo a plasmarla nella forma oggi a noi familiare.

La Nebulosa Tarantola fa parte del variegato ambiente della Grande Nube di Magellano. 

Tutto è movimento, fuori e dentro di noi. Ogni cosa ce lo dice. Le idee di staticità in fondo sono idee vecchie, incrostazioni, residui di modi di pensare ammuffiti. Stare nel cambiamento richiede lavoro, disciplina, passione. Ma vuol dire assecondare il moto del cosmo: molto probabilmente, ne vale la pena.

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Dialogando con Voyager 2

Il fatto è questo, magari l’avrete letto già da qualche parte. L’unica antenna disponibile per “parlare” con la sonda Voyager 2 si chiama Deep Space Station 43, ed è rimasta fuori uso per operazioni di manutenzione, per diverso tempo. Per un po’ la sonda è stata lasciata sola nel suo viaggio interstellare, senza comandi da Terra. Fortunatamente poi i contatti sono stati ripristinati, e si è così ritornati ad avere “diritto di parola” sulle manovre di una sonda che si trova lontano dal nostro pianeta, quasi diciannove miliardi di chilometri.

Un simpatico poster “stile disco” per le sonde Voyager (Crediti: NASA)

Ma fermiamoci un attimo su questo dato. Stiamoci sopra un poco, senza subito passare oltre. Insomma, ma che distanza è, diciannove miliardi di chilometri? Riusciamo davvero con difficoltà a renderci conto. E con anche maggior fatica riusciamo a pensare di avere un dialogo con una sonda così lontana da noi. Una sonda, per giunta, che è stata progettata e lanciata negli anni settanta del secolo scorso, mica adesso. Le sonde Voyager hanno a bordo strumenti che ormai molti tra i meno attempati, sulla Terra, non hanno mai conosciuto. Tanto per dire, ospita a bordo un registratore a nastro magnetico, per esempio. Ora, chi userebbe ormai un registratore a nastro per registrare qualsiasi cosa? Un campionamento digitale è enormemente più pratico e più affidabile! Eppure c’è, è lì, è in una capsula viaggiante di tecnologia anni settanta, ancora funzionante. Cioè, certo non funziona più tutto, ma diversi strumenti sì.

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Questo giorno, molto verde

Nemmeno più mi ricordo quando è successo, però è successo. Tutto è partito da lì, da quel giorno, in effetti. Da un pensiero, appena. Poi, sono le cose piccole, nascoste, che hanno più peso sulla vita. Ed in effetti, l’innesco, la cosa in sé, sarebbe proprio piccola, proprio trascurabile.

Un pensiero appena. Ho pensato che sarebbe stato bello scrivere dei racconti, delle poesie, intorno al tema unico di un parco. Sì, un tranquillo parco cittadino, un’oasi quieta e sempre, un intermezzo verde in mezzo ai palazzi, uno spazio di accoglienza nel bel centro delle attività delle persone, dell’essere perpetuamente mobile delle cose. Per la cronaca: abitare in prossimità di un parco, non è estraneo affatto a tutto questo.

Insomma, uno spazio verde come area di scambio, zona salutare di sosta per i pensieri e gli avvenimenti. Anche, terreno neutro, spazio riconciliante. L’ho pensato così, in modo leggero e spontaneo. L’ho pensato quando ancora non ero per niente sicuro che questa cosa di scrivere facesse per me, che la potessi veramente prendere sul serio. L’ho pensato quando pensare a questo mi sembrava nient’altro una giocosa pazzia. L’ho pensato come una cosa fresca, infantile, possibile, interessante. L’ho pensato quando solamente sapevo che scrivere mi piace, mi fa star bene. E nient’altro.

Dopo, ho attraversato tanti momenti, di entusiasmo, di fatica, di stallo. Ho smesso e ho provato a fare altro. Ho smesso e ho provato a non far nulla. Infinite volte. Ho scritto un romanzo (con delle parti un po’ deboli e altre, credo, abbastanza interessanti). Ho messo insieme delle raccolte di poesie, l’ultima si chiama Imparare a guarire. Ho pubblicato poi un libro di racconti divulgativi per ragazzi, Anita e le stelle.

Sì tutto bene, tutto bello. Però intanto questo progetto rimaneva lì, quieto. E aspettava. Non se lo sognava, di farsi da parte definitivamente. Ogni tanto mi interrogava pure, tipo Marco che vogliamo fare di questa cosa? Io ovviamente non rispondevo, oppure adducevo scuse. Della serie, sì sì poi ci penso, vedi ora sto finendo questa cosa, sono molto occupato… Allora aspettava, lui. Con pazienza. Ogni tanto si rifaceva vivo. Sono qui, ti ricordi eh? Che vogliamo fare? E io, ovviamente, procrastinavo. Altre scuse, pretesti, tentativi di dilazione, distrazione. Tutti hanno qualcosa che chiama, in questo modo. Tutti cercano di sfuggire, di prendere tempo. E io non faccio certo eccezione.

Anche, un muro denso di obiezioni: la più tenace è sempre la solita, non sono capace, ma poi chi sono io per scrivere? E comunque, come lo pubblico? In effetti (lasciando perdere il resto, per ora) pubblicare una cosa così non è facilissimo, se non sei famoso. Intanto i mesi, anche gli anni, come loro abitudine, passavano. Venne il momento in cui pensai di usare una piattaforma come Wattpad per pubblicarlo, a puntate. Però un po’ di riflessione, e un po’ di osservazione, mi convinse che Wattpad è ottimo per brevi racconti romantici per adolescenti (lo dico con il massimo rispetto), cosa in cui io purtroppo non sono bravo per nulla, ma poco adatto a questo tipo di progetto, dove ci sono capitoli anche parecchio lunghi e certi momenti sono un poco più introspettivi.

E insomma. Le cose andavano avanti, la vita pure, e un angolo del mio spazio mentale era comunque occupato da questa cosa. Questo progetto, che ne facciamo? Ogni tanto lo riprendevo, alternavo fasi di esaltazione per certe parti, di sconforto per altre.

E niente. Alla fine le parti che mi piacevano hanno prevalso. Certe parti mi corrispondono talmente, che non potevo lasciarlo invecchiare, così incompleto. Mi sono messo a lavorare, riprendendo la lotta anche sui due racconti più lunghi: che mi hanno fatto tribolare e tremolare abbastanza, fino a che non ho sentito un sapore che iniziava a piacermi, anche lì. In generale, l’ampio intervallo del tempo di composizione mi ha aiutato, mi ha condotto a sperimentare stili diversi, a osare in certi punti, a tentare modalità espressive particolari.

Intanto mi veniva l’idea per l’ultimo capitolo, quell’idea così semplice ma così… boh, questa non ve la dico, ma mi piace tanto. Ritengo sia abbastanza originale: perlomeno, io non ricordo di averla incontrata in nessun libro. Però se leggete, non saltate avanti: non si fa, non vale.

Insomma è qui, lo potete trovare su Amazon, per ora in formato ebook, magari tra un po’ anche a stampa. Ma ci pensate. Quante cose possono accadere intorno ad un parco? Quante situazioni sussistono in modo sincrono, simultaneo, avvengono lungo questo incredibile tracciato polifonico multipista che è la vita? Quanti linee d’azione parallele insistono in uno stesso luogo, gravitano in una stessa area? Non lo comprendiamo, non lo percepiamo con la mente lineare, razionale. Questo è logico. Noi ci occupiamo di una cosa alla volta, laddove in uno stesso istante si svolgono infinite storie, si snodano innumerevoli eventi. Dovremmo aprirci un minimo alla irriducibile intelaiatura polifonica del reale, certo: ma è proprio difficile.

Sì, il reale è polifonico, mentre i pensieri sono monofonici, e spesso, purtroppo, anche cacofonici. Quando pensiamo il reale lo riduciamo ad una tessitura monofonica, di cose che si succedono una per una. Ma è una riduzione incredibile, una compressione quasi intollerabile. Il pensiero a volte si rinchiude in sé stesso, fa guerra a tutto ciò che potrebbe modificare il suo procedere a spirale sempre sugli stessi percorsi, il suo ostinarsi al giro del criceto nella ruota. Fa guerra all’ipotesi del nuovo, alla possibilità anche episodica e laterale di una inaspettata felicità. Ecco, le persone in questi racconti, a tratti se ne accorgono, questo loro lo avvertono. Magari non riescono ad uscire a questa consapevolezza, in modo lucido e determinato. Ma si accorgono.

Ecco, allora la faccenda è riprendersi il pensiero luminoso, aperto e felicemente incompleto, limpidamente provvisorio. In questo libro provo a sporcare le parole che uso, a sporcarle di questa polifonia di vita, di questa felice imperfetta incompletezza delle situazioni. La parola che non si sporca di niente, non tira su umori odori e sapori, come una buona pasta tira su il sugo, non vale nulla. E basta, insomma. Non ce ne facciamo nulla di cose troppo terse, troppo pulite.

Credo di aver chiaro cosa volevo raccontarvi, dopotutto. Desideravo che anche le storie più affastellate, complicate, si affacciassero ad un margine di speranza, all’apertura infinitamente interessante della possibilità, del fatto che niente è detto, che l’universo è in movimento accelerato, che nessuna situazione è statica. Volevo dirlo innanzitutto a me, e dirmelo nella unica maniera in cui so parlare a me stesso, nella maniera che mi riesce meglio, scrivendo.

A volte poi, mentre me lo dico, un altra, un altro, intercetta il mio discorso, lo trova interessante. E questo è veramente bello. Qualcosa che ha a che fare con ciò che pomposamente si chiama arte ed è accessibile, nella sua magnanimità, non solo ai conclamati grandi artisti ma a tutti noi nella misura in cui ci rendiamo disponibili a lasciare che un po’ di noi stessi venga usato da altri, senza che noi si detenga il controllo, si reclami il copyright emozionale.

Diciamocelo tutto, la sfida è questa. Tu, scrittore, vorresti avere questo controllo, dici tante belle parole ma vorresti controllare come la gente usa quello che scrivi, vorresti dire la tua, spiegare, evidenziare, manifestare, fare il critico di te stesso. Chiaro, il tuo ego spinge in questa direzione. Ma è un lasciar andare che ci vuole, un lasciare andare che è necessario. In questo caso, un ammettere che il ruolo del lettore è altrettanto creativo e inventa cose e le fa vivere tra le tue parole, che tu nemmeno hai idea. Nel caso migliore, il lettore fa l’amore con le tue parole, in un modo che tu non te lo immagini nemmeno. Le parole sono tue, ma le connessione che attivano, sono personalissime, sono di chi ti legge.

E che sia così, l’ho capito anche nell’ultimo giro di revisione, che è stato supportato da amiche ed amici. Che mi hanno arricchito e istruito, così che gli ultimi aggiustamenti, si può dire, sono stati fatti, insieme. E insieme si va più lontano, anche nella scrittura.

Questo è un fatto, incontestabilmente. E come si dice in un racconto di questo libro, un solo fatto, sorpassa mille pensieri.

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