Il fatto è questo, magari l’avrete letto già da qualche parte. L’unica antenna disponibile per “parlare” con la sonda Voyager 2 si chiama Deep Space Station 43, ed è rimasta fuori uso per operazioni di manutenzione, per diverso tempo. Per un po’ la sonda è stata lasciata sola nel suo viaggio interstellare, senza comandi da Terra. Fortunatamente poi i contatti sono stati ripristinati, e si è così ritornati ad avere “diritto di parola” sulle manovre di una sonda che si trova lontano dal nostro pianeta, quasi diciannove miliardi di chilometri.

Un simpatico poster “stile disco” per le sonde Voyager (Crediti: NASA)

Ma fermiamoci un attimo su questo dato. Stiamoci sopra un poco, senza subito passare oltre. Insomma, ma che distanza è, diciannove miliardi di chilometri? Riusciamo davvero con difficoltà a renderci conto. E con anche maggior fatica riusciamo a pensare di avere un dialogo con una sonda così lontana da noi. Una sonda, per giunta, che è stata progettata e lanciata negli anni settanta del secolo scorso, mica adesso. Le sonde Voyager hanno a bordo strumenti che ormai molti tra i meno attempati, sulla Terra, non hanno mai conosciuto. Tanto per dire, ospita a bordo un registratore a nastro magnetico, per esempio. Ora, chi userebbe ormai un registratore a nastro per registrare qualsiasi cosa? Un campionamento digitale è enormemente più pratico e più affidabile! Eppure c’è, è lì, è in una capsula viaggiante di tecnologia anni settanta, ancora funzionante. Cioè, certo non funziona più tutto, ma diversi strumenti sì.

Capirete che non è immediato poter parlare con una sonda così lontana. E quando l’unica antenna capace di farlo entra in manutenzione, c’è da stare moderatamente preoccupati. Tuttavia il dialogo è stato ristabilito con successo, e la Voyager 2 adesso “risponde” dagli abissi sconfinati dello spazio interstellare, mantenendo un filo esile ma concreto, con questo pianetino ormai a miliardi e miliardi di chilometri di distanza. L’aggiornamento dell’antenna sarà completato a febbraio del prossimo anno, ma già il segnale di test spedito alla sonda ha avuto un pieno riscontro. Personalmente non riesco a non stupirmi per tutto questo.

L’universo è veramente sconfinato, questa sonda in viaggio da 43 anni è appena uscita dal Sistema Solare, insieme con la sua compagna d’avventura, la Voyager 1. Ci vorranno millenni prima che possa solo avvicinarsi ad un’altra stella, o ad altri pianeti. Per la precisione, i dati indicano che tra circa quarantamila anni si troverà nei pressi della stella Ross 248, distante da noi poco più di dieci anni luce: prima di allora, solo l’immensità dello spazio cosmico. Ma anche così, l’esperimento è straordinariamente interessante. Anche nell’apparente vuoto in cui si trova, la sonda è tutt’altro che abbandonata alla desolazione. Con gli strumenti ancora attivi registra importanti informazioni sulla natura delle particelle interstellari che incontra, e le invia a Terra. Così da costituire un preziosissimo avamposto in un territorio che solo il cielo sa quando riusciremo a ripercorrere con qualche altro strumento.

Raramente ci capita di pensarci. Ma sopra le nostre teste, molto molto lontano, c’è un grumetto di metallo e silicio, batterie e strumenti, che prosegue un viaggio solitario da decenni e decenni, un piccolo strumento immerso in uno spazio enorme. E che si mantiene vivo dialogando con la sua mamma terrestre, raccontandole cosa incontra, cosa vede, cosa sperimenta.

Siamo in un universo relazionale, l’unico modo per restare vivi, per vivere davvero, è rimanere con le antenne ben collimate. Raccogliere i segnali, intrecciare dialoghi, raccontare storie. Quella che raccontano le sonde Voyager è una storia unica, interessantissima. Speriamo in altri lunghi anni di racconti, ne abbiamo bisogno per capire il mondo. E noi stessi.

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