Non voglio barare: conosco questo termine, pareidolia, solo da poche ore. Da quando mi sono imbattuto in questo post sul sito della NASA, riguardo al percepire forme familiari nelle immagini astronomiche. Come questa, dove in effetti l’impressione di una “mano cosmica” è molto forte.

E ho ammirato la bellezza di questa altra immagine. Riguarda ancora l’oggetto denominato PSR B1509-58, una stella di neutroni in rotazione circondata da una grande nube di particelle di alta energia, a circa 17000 anni luce di distanza dalla Terra.

Credit: X-ray: NASA/CXC/SAO; Infrared: NASA/JPL-Caltech

Appare oltremodo curioso che anche in questo caso la pareidolia possa entrare in gioco, perché stavolta sembra di poter scorgere addirittura un volto. Che ovviamente è frutto dell’elaborazione del nostro cervello.

Tuttavia, prima di biasimare il nostro sistema percettivo, rimango ammirato dal tentativo inconscio, spontaneissimo ed immediato, di umanizzare quello che vediamo in cielo (e in Terra), di ricavarne cioè uno spunto, una storia che ci consenta di rapportarci con più confidenza e familiarità a quel che vediamo.

“La luce delle stelle fisse, come un rifugio capovolto” cantava molti anni fa De André in Dolce Luna. In fondo è tutto qui: ricavare storie è l’operazione sempre necessaria di rendere raccontabile l’universo. Così, finalmente, possiamo ritornare a sentirci a casa, a sentirci protetti, nel rifugio del suo grembo cosmico.

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