Blog di Marco Castellani

Mese: Gennaio 2021 Page 2 of 3

Guardare, Plutone

Questa è una immagine su cui vale sostare meditando la sua eccezionalità. Siamo abituati ormai a fronteggiare un flusso continuo di media, streaming, messaggi di chat (spesso inutili), notizie (spesso fatue) ed email, davanti ai quali ci difendiamo così, diminuendo l’attenzione. Ma questa è una cosa diversa, che rimane. Che rimarrà per molti, molti anni. Fermiamoci. Guardiamo.

Panorama di Plutone. Crediti: NASAJohns Hopkins Univ./APLSouthwest Research Institute

Stiamo osservando una foto di Plutone presa da circa 18.000 chilometri di distanza dalla superficie, dalla sonda New Horizons. Precisamente, quando quindici minuti dopo il momento di massimo avvicinamento, la sonda NASA prende questa immagine “volgendosi indietro”. Siamo nel 2014. Sono passati più di sei anni e questa è una delle immagini più definite di Plutone che abbiamo. E passeranno molti, molti anni ancora, e le foto della New Horizons rimarranno lo stato dell’arte per quanto riguarda il pianeta nano.

Per ottenere questa foto è stato necessario un viaggio. Un viaggio durato quasi dieci anni, durante i quali la sonda è state messa in ibernazione e poi (grazie al cielo) risvegliata, con una procedura che ha lasciato gli scienziati con il fiato sospeso, fino alla conferma che tutto fosse andato bene.

Onore a New Horizons, che ci ha aperto un mondo. Prima di lei, le foto di Plutone erano un cerchietto grigio, e (quasi) basta. Grazie a lei possiamo guardare Plutone, per la prima volta nella storia. Gli avvallamenti, le catene montuose. La ricchezza che increspa di indubbi interesse un corpo celeste derubricato perfino dal rango di pianeta. Rendiamoci conto: per avere foto migliori di questa, sarà necessaria un’altra missione, con tutto il tempo necessario alla preparazione e al viaggio (posto che vada tutto bene, poi).

Vuol dire, in parole povere, che questa foto (che ci mostra un panorama esteso per quasi 400 chilometri) è assolutamente unica. E lo rimarrà per molto, molto tempo ancora.

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Il buco nero, che si è perso

Lo sappiamo bene. A tutti noi ci capita di perdere le cose. Un mazzo di chiavi, il portafoglio (purtroppo), un libro, un quaderno. Accidenti, l’avevo messo lì… e sconsolati ricerchiamo dappertutto, mentre ci sale il panico (nel caso delle chiavi o del portafoglio, in particolare). Piccole cose, che possono essere perse di vista.

Leggermente diverso si profila il caso di un buco nero la cui massa è stimata nell’ordine delle dieci miliardi di volte la massa del Sole. Così dovrebbe essere quello al centro dell’ammasso di galassie Abell 2261 secondo le stime più accreditate.

Ma – perdindirindina! – non si trova.

Il centro dell’ammasso di galassie Abell 2261. Crediti: X-ray: NASA/CXC/Univ of Michigan/K. Gültekin; Optical: NASA/STScI and NAOJ/Subaru; Infrared: NSF/NOAO/KPNO

Perché pensiamo ci debba essere? Perché ormai i dati ci dicono che al centro di tutte le grandi galassie si trova invariabilmente un buco nero supermassivo, la cui grandezza scala con la massa della galassia stessa. Al centro di Abell 2261, vista la sua “stazza” non indifferente, dovrebbe trovarsi uno dei buchi neri più grandi tra quelli che conosciamo. E invece niente. La cosa lascia perplessi gli astronomi, non poco.

Ci sono (come sempre) vari modelli per spiegare questo non ritrovamento. Potrebbe essere stato sbalzato via dal centro della galassia: a volte capita, in certi scenari di formazione in cui la galassia stessa si forma tramite impatti di galassie più piccole. Quindi gli scienziati si sono messi a cercare in giro, non solo al centro.

Per ora, nulla.

Si nasconde assai bene, o per qualche motivo non esiste? Uno dei tanti interrogativi di un cielo aperto, che stimola la nostra fantasia e accende la voglia di capire. E naturalmente, di cercare

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Andromeda, che ci sfiora

Per certo, il cosmo è abitato. Abitato (perlomeno) di galassie, di ogni forma e dimensione. La ricchezza è immensa, in questo senso. Andromeda poi, ha un posto speciale in questo catalogo, perché tra le grandi galassie a spirale è quella più vicina a casa nostra.

Digital Illustration Credit: NASAESA, J. DePasquale and E. Wheatley (STScI) and Z. Levay

Si trova infatti ad appena 2,5 milioni di anni luce, e impreziosisce il cielo notturno apparendo come una nube luminosa di fora allungata, ben visibile anche ad occhio nudo. Non possiamo dimenticarci che proprio Andromeda ha rivestito anche storicamente un ruolo particolare, visto che proprio cent’anni fa ha costituito la pietra di paragone per capire la reale esistenza di altre galassie (oltre la nostra).

Quello che resta invisibile agli occhi, è la gran quantità di gas ionizzato caldo che qui viene rappresentato da un alone color porpora. Costituisce una riserva enorme di materiale perfetto per formare nuove stelle, e questo gigantesco magazzino si estende fino a circa 1,3 milioni di anni luce dalla galassia stessa. Così lontano, vuol dire arrivare a metà strada dalla Via Lattea, per cui è lecito pensare che gli involucri gassosi delle due grandi galassie in realtà si sfiorino.

Manteniamo un contatto con Andromeda, cioè il nostro cielo è adiacente a cieli nuovi e sconosciuti: la porta è quell’indagine appassionata che ci permette di cambiare la galassia dei nostri ragionamenti, per accogliere la novità.

Per capire che di galassie esistenziali, ce ne sono infinite. E che non sono isolate e impermeabili, ma si sfiorano. Per accorgersene, probabilmente, basta uscire un attimo, allentare i muri galattici della nostra incredulità ordinaria. Nelle onde giuste, si scorge una brillanza invitante, accogliente.

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Roba fatta per durare

Giove è semplicemente sconfinato. Una cosa pazzesca. Ma non ce ne rendiamo conto se non quanto ammiriamo immagini come questa.

Crediti: NASAVoyager 1, JPL, CaltechProcessing & LicenseAlexis Tranchandon / Solaris

Che rappresenta appunto il pianeta gigante, con la sua grande macchia rossa, quella tempesta perfetta che dura da oltre tre secoli ormai (tra l’altro, non è nemmeno ben chiaro perché sia rossa).

Quel “piccolo” corpo celeste che si vede sulla sinistra è una tra le lune di Giove più grandi, ovvero Europa: il confronto tra un corpo dal rispettabile diametro di più di 3000 km e il pianeta sottostante, la dice lunga su che razza di pianeta sia Giove. Invece la macchia scura a destra, è l’ombra di Io, altra grande luna gioviana.

Ma l’immagine dovrebbe anche qualcosa su che razza di sonda sia quella che l’ha scattata. Sedici istantanee prese dalla Voyager 1 (e si parla degli anni settanta dello scorso secolo) sono state appena rielaborate per ottenere questo splendido risultato. La Voyager 1 (e la sua gemellina Voyager 2) ci ha aperto gli occhi sui pianeti esterni del Sistema Solare, con risultati straordinari che reggono assai gagliardamente l’urto del tempo.

E la cosa più straordinaria, è che le Voyager stanno ancora lavorando. Costituiscono al momento la vera missione interstellare in cui è impegnata l’umanità (anche se spesso non ci bada, ahimè).

Roba fatta per durare. Messaggi tecnologici dal secolo scorso, che ci dicono che – quando vogliamo – sappiamo far qualcosa che vale. E che concentrare le nostre capacità per esplorare le meraviglie là fuori, invece di perderci in piccoli litigi di bottega, è una delle cose più belle e soddisfacenti che possiamo decidere di fare.

Ad ogni epoca.

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La gloria stellare di R136

Al centro di una regione di formazione stellare si trova un enorme ammasso, contenente alcune delle più grandi e più calde stelle che si conoscano. L’ammasso prende il nome di R136 e fa parte della Nebulosa Tarantola. E’ stato catturato in questa bellissima immagine, una decina di anni fa, dal Telescopio Spaziale Hubble.

Crediti: NASAESA, & F. Paresce (INAF-IASF), R. O’Connell (U. Virginia) et al.

A sua volta la Nebulosa Tarantola è contenuta in una galassia vicina, la Grande Nube di Magellano, a circa 170.000 anni luce da noi.

Bello vedere come gas e polvere formino delle enormi sculture nello spazio cosmico, contribuendo a restituirci l’immagine di un universo caldo, colorato e spugnoso. Dove poter procedere di scoperta in scoperta, probabilmente. Insomma, tutto l’opposto dell’idea, ormai in felice tramonto, di un cosmo freddo e scuro.

Perché c’è questo, vediamo quello che la nostra consapevolezza ci permette di guardare. E tracce di una nuova visione del cosmo, di una nuova scienza, ormai sempre più spesso ci vengono a visitare.

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Quest’universo in fioritura

La natura ci aiuta. Pensiamoci, proprio il fatto che viviamo in un universo in corsa risulta un aiuto inestimabile per noi, nel capirlo. La cosa è nota: le galassie più lontane sono quelle che si muovono più velocemente, rispetto a noi (più spazio in mezzo che si espande, possiamo dire così).

Da qui, il trucco: capire quanto sono lontane da quanto corrono. Perché, capire una cosa quanto è distante, in astronomia, è sempre stato un bel problema (tanto da inventarci le candele standard, che però hanno tutti i loro problemi e le loro belle incertezze).

Dico un’ovvietà. In un universo statico, questo sarebbe impossibile. E ci troveremmo con un bel problema per stimare la distanza degli oggetti più remoti! Mi piace pensare questo, l’universo è in espansione, in fioritura, perché così riusciamo a conoscerlo meglio.

Spettri di galassie “in corsa”. Crediti: VIMOSVLTESO

Questa è una immagine che ci aiuta a capire come sfruttiamo le informazioni che questa espansione ci consegna. Siamo diventati bravi, in questo, bravi a farci aiutare (che non è poco). In una sola immagine presa con il Visible MultiObject Spectrograph al Very Large Telescope in Cile, entrano centinaia di spettri di galassie, in un colpo solo.

Ogni spettro rappresenta la distribuzione della luce nelle varie lunghezze d’onda e, per l’effetto Doppler, risulta che gli spettri sono tanto più “arrossati” quanto più la galassia sta scappando via da noi e quindi – ecco il passaggio fondamentale – da quanto già è lontana. Spettro più arrossato equivale a galassia più lontane: insomma, come se la luce di queste galassie arrivasse con una “etichetta” che segna la distanza dell’oggetto stesso da noi.

Certo per capire bene bisogna conoscere lo spettro della galassia “a riposo”, come fosse ferma. La conoscenza porta nuova conoscenza, e non è certo una novità.

Piuttosto, è un gioco ancora bello, da giocare.

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Pareidolia (e capovolti rifugi)

Non voglio barare: conosco questo termine, pareidolia, solo da poche ore. Da quando mi sono imbattuto in questo post sul sito della NASA, riguardo al percepire forme familiari nelle immagini astronomiche. Come questa, dove in effetti l’impressione di una “mano cosmica” è molto forte.

E ho ammirato la bellezza di questa altra immagine. Riguarda ancora l’oggetto denominato PSR B1509-58, una stella di neutroni in rotazione circondata da una grande nube di particelle di alta energia, a circa 17000 anni luce di distanza dalla Terra.

Credit: X-ray: NASA/CXC/SAO; Infrared: NASA/JPL-Caltech

Appare oltremodo curioso che anche in questo caso la pareidolia possa entrare in gioco, perché stavolta sembra di poter scorgere addirittura un volto. Che ovviamente è frutto dell’elaborazione del nostro cervello.

Tuttavia, prima di biasimare il nostro sistema percettivo, rimango ammirato dal tentativo inconscio, spontaneissimo ed immediato, di umanizzare quello che vediamo in cielo (e in Terra), di ricavarne cioè uno spunto, una storia che ci consenta di rapportarci con più confidenza e familiarità a quel che vediamo.

“La luce delle stelle fisse, come un rifugio capovolto” cantava molti anni fa De André in Dolce Luna. In fondo è tutto qui: ricavare storie è l’operazione sempre necessaria di rendere raccontabile l’universo. Così, finalmente, possiamo ritornare a sentirci a casa, a sentirci protetti, nel rifugio del suo grembo cosmico.

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Marte, com’era

Questo bel lago che vedete, è un lago del passato. Rappresenta il cratere Jezero su Marte, come poteva sembrare qualche miliardo di anni fa, colmo d’acqua e con tanto di emissari ed immissari sui lati opposti.

Il cratere Jezero su Marte, come poteva essere un po’ di tempo fa… Crediti: NASA/JPL-Caltech

Il cratere è stato scelto come sito di atterraggio del rover Perseverance della missione Mars 2020, che è attualmente in volo: è stata lanciata a luglio dello scorso anno e si prevede che arriverà questo febbraio. Tra gli obiettivi, studiare l’abitabilità del pianeta rosso, investigare il suo passato e naturalmente, cercare segni di vita biologica.

Interessante l’approccio lungimirante del progetto, per il quale verranno stoccati sul pianeta una serie di campioni geologici, al fine di attendere future missioni che li possano prelevare e ricondurre a Terra per esperimenti più accurati. Tali missioni sono già allo studio dalla NASA in cooperazione con l’ESA, l’ente spaziale europeo.

La colonizzazione di Marte dunque prosegue, fuori da annunci roboanti di missioni umane (per il momento) al suo ritmo realistico e graduale. Capire il pianeta è un passo fondamentale per comprendere le nostre possibilità di esistenza su di esso. Il rilancio di un’avventura di esplorazione e scoperta che coinvolga l’umanità nel suo complesso, senza retorica, potrà essere un aiuto e un catalizzatore di forze, nella nuova epoca in cui stiamo entrando.

Epoca che vede l’universo non come una zona oscura e impenetrabile ma, in ultima analisi, come una trama relazionale, poetica di possibilità e di incontro. Tra noi terrestri, prima di tutto.

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