Blog di Marco Castellani

Mese: Luglio 2021

Panem et circenses (et Green Pass)

Fa bello iniziare con una citazione latina, anche se l’ho (ri)scoperta adesso: “il popolo due sole cose ansiosamente desidera, pane e giochi circensi” annota assai acutamente il poeta latino Giovenale. E questo direi che c’entra con il Green Pass. Eccome se c’entra.

Perché leggo da molte parti (con il solito bias che fanno molto più rumore quelli che sono in disaccordo con qualcosa, ovviamente) che tale Green Pass sia una operazione sostanzialmente liberticida, imposta dal Governo sopra le nostre libertà costituzionali e via così (sapete già la storia).

Ora qui non vorrei indulgere in torti e ragioni, non vorrei nemmeno impelagarmi in temi “alti” come le connessioni della libertà individuale con il senso del bene comune – se poi sia veramente il bene – e simili narrazioni. Anche perché sono ampiamente dibattute sulla Grande Rete, con tanto di autorevoli prese di posizione.

Qui, voglio semplicemente fermarmi ad una domanda. Anche questa la prendo dai latini, sempre per fare bella figura. Cui prodest? A chi giova tutto questo? Chi ha l’ansia di limitare le nostre libertà fondamentali, e che ne ricava facendolo?

L’accesso regolamentato al caffè, sarebbe il problema? O c’è altro? 

Adottiamo questo modello, per assurdo. Facciamo un esperimento scientifico (è il mio mestiere, dopotutto). Un esperimento mentale, magari. Dovremmo dire, sempre per essere raffinati (stavolta passando al tedesco) un gedankenexperiment. Ma fa niente, ci siamo capiti.

E allora insistiamo, a chi giova? Facciamo il caso che io faccia parte di questo complotto orientato a limitare in modo intollerabile le libertà personali, in modo da esercitare un controllo ferreo su quello che accade. Bene (per dire). Ma sarebbe veramente furbo da parte mia, introdurre misure per evitare che la gente se ne vada tranquilla al ristorante? O sarebbe un clamoroso autogol per fare innervosire le persone, senza averne un ritorno consistente? Eh già, perché che ritorno ne ho?

A me conviene ben altro, questa è la verità.

A me conviene che le persone si credano libere semplicemente perché possono scegliere in che ristorante andare, che quotidiano comprare (per avere quasi sempre la stessa narrazione, con sfumature minime), anche libere di fare un viaggio, pur con mille cautele. Ma sì, che si sentano libere di scegliere uno dei mille canali televisivi, splendidamente uguali in fondo (cantavano i Pink Floyd negli anni ’80, I’ve got thirteen channels of shit on the T.V. to choose from, fotografando una situazione che sarebbe solo diventata più estrema con il tempo e l’avanzare della tecnologia) inondati tanto dalla stessa pubblicità assidua e rinormalizzante (che ti ricentra opportunamente e continuamente sullo stesso sistema neoliberista di “valori”, occultando convenientemente ogni altro punto di vista). Se io voglio dominare, attraverso la persuasione continua dell’impero della pubblicità (l’unica cosa che non si è fermata mai durante il COVID) devo insinuare la convinzione che non ci sia alternativa, che ci sia solo un modo di vivere, ed è questo del sistema finanziario capitalistico globale. Che un diverso sistema di valori, in cui l’economia non è la divinità a cui prostrarsi, sia possibile e sia soprattutto più autenticamente umano.

Davanti a tutto questo, come cantava Battiato, ci vuole un’altra vita. Appunto.

Se io dunque ho questo piano, di dominio sulle coscienze per asservirle allo schema neoliberista (in sostanza), in modo che siano facilmente pilotatili e non diano grossi fastidi, non mi conviene certo fare arrabbiare le persone con il Green Pass. Limitare i loro spostamenti non mi porta alcun vantaggio, anzi. Che si credano liberi spostandosi pure dove meglio credono! Che prendano pure questa libertà chilometrica come il vero essere liberi. Ogni sistema di dominio infatti opera prima di tutto una ridefinizione delle parole, e qui un concetto profondo e complesso come libertà diventa quella patinata pubblicitaria di libertà di comprare e fare quel che vuoi. Pane e giochi circensi insomma: e che non si occupino troppo della cosa politica, la lascino ad altri, la lascino a me. Ci penso io a loro, si fidino. Czeslaw Milosz l’aveva detto bene: «Pensi a bere il caffè e a dare la caccia alle farfalle. Chi ama la res publica avrà la mano mozzata».

Per cui, figurati se ti blocco se vuoi andare a bere un caffè. Anzi, se ti blocco (e non mi conviene) vuol dire proprio che lo faccio perché c’è qualcosa di molto serio, c’è una emergenza a cui devo comunque provvedere, se non sono del tutto privo di scrupoli.

Il pericolo non è il Green Pass. Quello può essere una soluzione più o meno adeguata, più o meno pratica, giustificata dall’emergenza sanitaria, si può discutere.

Ma parlare di dittatura sanitaria a mio avviso è esagerato, è parlare (quindi) per perdere tempo, o per acquisire consenso in una delle tante bolle di Internet. Il pericolo vero è quando la voce di chi ti governa assume toni paternalistici (come è accaduto nei precedenti governi) e falsamente rassicurante. Tipo ci pensiamo noi, vai tranquillo. E’ il governo che si impiccia se il tuo sia più o meno un affetto stabile, che blocca i runner che corrono da soli (tanto per far capire che ti controlla) e chiude un occhio sugli affollamenti al centro di Roma (ben più difficili da gestire anche se ben più pericolose). E’ il governo delle conferenze stampa che partono in ritardo e arrivano a reti inevitabilmente unificate, e tutti a pendere dalle labbra del Presidente del Consiglio, per capire cosa ci permetterà di fare stavolta.

Quello è il vero pericolo, e non molti se ne sono accorti. Il vero pericolo erano certi messaggi paternalistici di prima, non il messaggio (indubbiamente molto duro) di Draghi in conferenza stampa, L’appello a non vaccinarsi è un appello a morire, sostanzialmente. Non ti vaccini, ti ammali, muori. Oppure fai morire Un messaggio destinato anche a ripristinare chiarezza politica, certo. Con un tono perentorio, che non ammicca, non incoraggia derive dubbie, ti riporta secco alla situazione reale (se uno si fida ancora del parere degli scienziati).

Ma gridare al complotto contro la democrazia non è un esercizio di stile che non ha conseguenze, non è un passatempo a costo zero. C’è chi ci può guadagnare. E molto.

Il pericolo infatti è anche che questa levata di scudi ideologica alzi una grande nebbia e sposti le cose sui massimi sistemi (cosa che piace molto in Italia purtroppo), mancando il bersaglio più ragionevole e giusto. Che sarebbe quello di avviare – questi sì – un ragionamento puntuale su come è stata gestita la crisi pandemica fino ad ora, e se davvero c’è chi si è arricchito indebitamente lucrando su questa terribile sofferenza comune. Penso per esempio agli scandali dei banchi a rotelle, dei ventilatori cinesi, delle mascherine senza certificazione e altre cose su cui – mi pare – solo Italia Viva ad Azione, praticamente nel silenzio incredibile degli altri, chiedono chiarezza in modo salubremente ostinato.

Questo è realmente gravissimo, ma a questo quasi nessuno pensa. Ma certo: appare molto più intrigante discutere di libertà violate e magari rispolverare dal fondo di un cassetto quella Costituzione che subito dopo il referendum “di Renzi” era diventata di nuovo, per molti, un libro prestigioso da avere, ma non certo utile per leggervi dentro (che ci leggo a fare, se non devo polemizzare contro nessuno su Facebook?).

Chi ha rubato durante il COVID, chi si è arricchito in modo illecito, intanto ringrazia.

Ma infatti. Niente di meglio di un polverone ideologico, per sfiancare le parti avverse, distraendole dalla concretezza del reale. Ma a questo punto il problema si fa personale. Ognuno di noi deve capire da che parte stare, se usare la ragione o seguire il flusso emotivo.

E non sarà la stessa cosa, nell’applicazione e negli esiti, stiamone certi.

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Tra gli anelli di Saturno

L’illustrazione artistica mostra la sonda Cassini in orbita attorno a Saturno. Cassini (di cui ci siamo occupati spesso) ha compiuto ben 22 orbite intrufolandosi temeraria attraverso gli anelli ed il pianeta, terminando il suo tour di tredici anni tuffandosi nell’atmosfera di Saturno, il 15 settembre del 2017.

A spasso tra modi ghiacciati e fiumi di metano… Crediti: NASA/JPL-Caltech

La sonda Cassini ha il grande merito di averci portato tutti – ormai nell’epoca moderna della comunicazione di massa – attraverso le meraviglie di Saturno e della sua famiglia di lune ghiacciate, conducendoci nel meraviglioso e misterioso regno di mondi dove fiumi di metano sfociano in giganteschi mari (di metano, sempre) e dove getti di ghiaccio ed acqua vengono espulsi nello spazio da un oceano di acqua liquida che – secondo tutte le stime – potrebbe essere un ambiente perfetto per la vita (o almeno per farci un poco di sport, come illustriamo nel sito di Edu INAF in concomitanza con queste Olimpiadi).

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Di tutte le impressioni…

Parto da questo flashback. Sole, molto molto sole. Caldo. Estate piena. Sono al mare. A conti fatti, credo sia il 1982. Campeggio sulla Feniglia. Sto ciabattando intorno all’ingresso (forse vengo dalla spiaggia, o ci sto andando), sabbia, macchine parcheggiate, afa. Da qualche altoparlante esce la musica di Franco Battiato. Chi è costui? Fino a qualche mese fa nessuno ne sapeva niente, nessuno lo conosceva. E quest’estate ecco, è esploso. Non si ascolta altro.

Ricordo bene questa impressione. Dappertutto passano quasi solo le canzoni di questo album. La voce del padrone. Io ragazzo quasi ventenne, ripenso ai dischi con il cagnolino seduto davanti al grammofono. Papà o mamma mi avevano spiegato l’arcano, la riproduzione del disco è così fedele che il cane riconosce appunto, la voce del padrone. Avevamo anche dei 78 giri, a casa. Oggi farebbe sorridere il pensiero che il cane possa cogliere alcuna differenza tra lavoce reale e quella riprodotta: non ci riusciamo più nemmeno noi.

Il famoso cagnolino della casa discografica La voce del padrone

Torno a quell’anno, a quel disco. Il titolo mi piace, lo trovo intrigante. Le canzoni sono carine, orecchiabili ma non stucchevoli. Si sopporta facilmente il fatto che, in vacanza, vengano sparate ovunque, ad una frequenza quasi improponibile. Qualsiasi altra musica, ripetuta a questo livello, avrebbe portato al collasso. Sfibrata dal ripetuto ascolto, avrebbe presto mostrato il suo limite. Questa, resiste.

Personalmente, mi trovo nella piena fase cantautorale. Branduardi, De Gregori, Venditti, Guccini, Bennato. Un po’ di Cocciante (poco, quelli troppo romantici li guardo ancora con la puzza sotto il naso). Niente Battisti (la cosa è francamente incredibile, e me ne scuso: ma avrei recuperato dopo). Questo Battiato non lo pratico molto. Ma non lo praticava molto quasi nessuno. Fino a quel momento, almeno.

Dice Wikipedia che è il suo undicesimo disco da studio. Beh io me li ero persi quasi tutti, senza fatica. Come tanti, del resto. Ma ora non si può più, non si può più far finta che non ci sia. Entrato di prepotenza nelle nostre orecchie, nel nostro cervello. Un pop facile ed ispirato insieme, testi sufficientemente misteriosi che non umiliano la tua facoltà di comprendere, ti lasciano addosso quel tanto di mistero che poi ti ricircola piacevolmente in testa. La sensazione che c’è sempre altro da capire, non è un palloncino che appena comprato si sgonfia. Addirittura, puoi non capire niente e te la godi lo stesso. Basta lasciarsi andare alle suggestioni che i testi evocano.

Gesuiti euclidei vestiti come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori, della dinastia dei Ming.

Non male per noi abituati – al tempo – a ritornelli profondi ed evocativi come quelli (esempio) dei Ricchi e Poveri, in circolo in quello stesso periodo

Che confusione sarà perché ti amo, è un’emozione che cresce piano piano; stringimi forte e stammi più vicino, se ci sto bene sarà perché ti amo.

Davanti a tutto questo, Battiato esplode come una cosa nuova, coraggiosa, impertinente. Coscientemente commerciale e insieme sperimentale. La quadratura del cerchio, in musica.

Ricordo quell’estate, e poi confusamente, alcuni dischi nel periodo universitario. L’era del Cinghiale Bianco, per esempio. Indimenticabile quell’ironia dissacrante nell’incipit di Magic Shop,

C’è chi parte con un raga della sera / E finisce per cantare “la Paloma” / E giorni di digiuno e di silenzio / Per fare i cori nelle messe tipo Amanda Lear

Con Battiato c’è questo, c’è il gusto del non capito che comunque restituisce una profondità marina all’intera questione (e per questo sulla Feniglia suonava benissimo), hai questa sensazione di stare sulla soglia di qualcosa di profondo, che già ti basta. Ti appaga, in qualche modo misterioso, arcano. Io non capivo nemmeno il titolo dell’album. Certo, Stereoplay nella sua recensione diceva qualcosa sul fatto che il cinghiale bianco fosse il simbolo della rinascita spirituale. Mi accontentavo di questo, anche se sulla rinascita spirituale non avevo esattamente idee chiarissime.

Mi misi a cercare altri dischi ed incappai presto nel suo periodo sperimentale. Del resto questi sui primi dischi erano entrati nelle collane economiche, potevo permettermelo, anche se non sapevo assolutamente cosa mi stavo portando a casa. Ma la curiosità musicale che nutrivo mi spingeva ad osare, a prendere dei rischi. In questo ero molto aiutato, capisco oggi, dall’accesso ad un repertorio abbastanza ristretto, ovvero quello che potevo permettermi di acquisire tra misurati acquisti e condivisioni di dischi di amici. Non c’era Spotify (per dirla tutta non c’era nemmeno Internet, e quindi l’assenza di Spotify era in qualche modo giustificata) e questo, in un certo modo, faceva gioco. Sì, perché eri spinto a non darti per vinto, sopratutto se avevi investito qualche soldo nella faccenda. Eri spinto ad andare a fondo della musica che avevi comprato con i tuoi sudati risparmi, invece di passare subito alla successiva, cambiare playlist con un click, o roba del genere. Non avere accesso a milioni di dischi ti spingeva a estrarre il massimo succo da quei pochi che avevi a disposizione.

Quindi, il disco che (ad un certo punto) avevo acquistato da Ricordi a prezzo popolare, era Juke Box. Devo dire, ci volle tutta la mia ostinazione musicale per non lasciar perdere, già a metà della prima facciata. Ma poi, cominciai ad entrare un poco nelle dinamiche di quel lavoro. Non ero certo di capirlo bene, anzi non ne sono certo nemmeno adesso. Ma qualcosa mi intrigava. La provocazione minimalista dei ben nove minuti di Martyre Celeste, per esempio. Illuminante o irritante, a seconda dei punti di vista (forse tutte e due le cose). O ancora di più, Hiver, per soprano e pianoforte. All’inizio fai fatica ma dopo un po’ ci entri dentro e quello si piazza dentro di te e ci rimane. Negli anni, rimane. Hai presente quando il soprano riprende con Quelquefois dans le crepuscule… e il pianoforte (galeotto) inizia a srotolare quel tappetino di note fintamente inoffensivo, che accompagnano lievemente, come in una promenade? Mi torna in mente anche ora, a distanza di anni che non lo ascolto.

Inciso polemico: quanta musica contemporanea (alta o bassa, d’élite o popolare) invece scivola via in un avvitamento intellettuale senza carne, senza sangue, senza umanità? Del resto, era sempre Franco che avvertiva, da Patriots, la musica contemporanea, mi butta giù. Chiudo l’inciso.

Potrei continuare ad agganciare rapsodici ricordi, ma poi mi chiedo chi leggerebbe fino in fondo (e se siete arrivati fin qui, vi prego lasciate un commento in modo che io vi possa quanto meno ammirare). Potrei, ma alla fine non servirebbe. Battiato è stato tutto questo anzi, è tutto questo, perché le opere di un artista non sono soggette alla corrosione del tempo, si muovono in un ordine diverso. Battiato è Hiver e Bandiera Bianca insieme. Qualcuno che comunque sia – adotti scaltramente il linguaggio del pop o si diletti nello sperimentalismo – ha un approccio geniale alla musica, non si fa incasellare in un genere. Soprattutto, non tira fuori sempre lo stesso prodotto.

Battiato è uno che ci ha insegnato – non con le parole ma con la pratica artistica – che i confini tra i generi musicali non esistono, sono invenzioni di comodo, riparo del pensiero pigro. Che il genio sorpassa ogni steccato. E che quando decide che si è stancato di giocare all’intellettuale e vuole parlare alle masse (per così dire) lo fa in modo semplice e non banale. Con una voce autorevole, la voce del padrone appunto. Padrone della musica e delle parole, che domina con irresistibile fantasia.

Un tipo che dedica metà di un disco fantastico, Come un cammello in una grondaia, a lieder di autori classici. E le canzoni della prima parte, così belle che oggettivamente non capisci più, non distingui, saltano gli schemi.

Uno che in un disco di cover di canzoni famose, Fleurs 2, ti inserisce a sorpresa un pezzo originale (non riesco proprio a chiamarla canzone) come L’addio, delicatissimo e struggente. Arte, senza ulteriori qualifiche.

E vorrei raccontarvi ancora di tanti tanti altri dischi, che ho amato e amo visceralmente. Ma inutile rincorrere il miraggio di essere esaustivi. L’arte del resto, non la possiedi, non la catturi, nemmeno con le parole. Al massimo, ti lasci catturare. In qualcosa che non ha una conclusione, non ha una fine. In un oceano di silenzio, potremmo anche dire. La vera musica è molto più amica del silenzio di quanto lo è la musica piccola, povera, sintetica. La vera musica gioca col silenzio, lo esalta, lo edifica all’interno del tuo animo affannato. Che così respira, di nuovo.

Riflettevo su questo, giorni fa. L’uscita di Franco dal mondo dello sperimentalismo è una sconfitta e una vittoria, insieme. Una sconfitta, perché è la presa d’atto dell’impossibilità di raggiungere un vasto pubblico, dentro i confini (diciamolo, spesso autoreferenziali) della cosiddetta “musica colta”. Una vittoria, perché di fatto è una iniezione di una massiccia dose di coraggio e di creatività nel mondo della musica di consumo. E’ vero, come dice lui stesso, che sul ponte sventola bandiera bianca. Ma è una resa di altissimo livello. Magari di grande furbizia, ma anche di notevole creatività. E appunto, di fantasia.

Lui ne aveva di fantasia, eccome. Come tutti i veri artisti, il suo transito terrestre (per citarlo ancora), il suo appassionato registro di tutte le impressioni che abbiamo in questa vita lascia un Universo più ricco, complesso, strutturato, di quanto era prima del suo arrivo.

E questo certamente basta, per la nostra gratitudine.

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