Degli ABBA ho ricordi davvero lontani, eppure risalenti ad un periodo in cui non erano già più il presente musicale, ma un glorioso passato. Correvano gli anni novanta, a quell’epoca avevo una borsa di studio da svolgere per la maggior parte del tempo presso l’Osservatorio di Collurania (Teramo), ora Osservatorio Astronomico d’Abruzzo. Con Maurizio, vincitore pure lui di una analoga borsa, facevamo il viaggio da Roma ogni inizio settimana, per rientrare nella capitale la sera del giovedì.

Il fatto che si fosse all’ingresso negli anni novanta è importante, perché implica che non ci fosse ancora Spotify o niente di analogo, e che per allietare il viaggio con della musica l’equipaggio avesse a disposizione appena un robusto (ma non così pratico) lettore a cassette.

A Stoccolma esiste un museo degli ABBA.
Con tanto di stivali (ovviamente).

Orbene, tra gli ascolti che lo stereo a cassette della mia Panda color grigio Oslo (secondo la casa automobilistica, per i comuni mortali era piuttosto un verdino un poco sbiadito) ci elargiva con più costanza, poiché – a nostro giudizio – particolarmente adatti alla guida – c’erano anche i grandi successi del celebre gruppo svedese (la cassetta era di Maurizio, che volentieri la portava con sé per l’occasione). Ancora adesso, mi assalgono vaghi ricordi dell’imponente massiccio del Gran Sasso – come si può ammirare percorrendo la A24 verso Roma, passato Teramo – con le mitiche note di Chiquitita a farcire la piccola autovettura di sapienti coretti scandinavi e soprattutto ad esporre una vena melodica spudoratamente debordante (solo ora scopro che il video è girato in montagna, quindi alla fine tutto torna). Chiquitita, e poi naturalmente tutti gli altri immortali successi del gruppo.

Al tempo noi eravamo (e per molti versi, lo siamo ancora oggi) ragazzetti parecchio centrati sul rock e in particolare su quello progressivo (io anche con una marcata predilezione per Mike Oldfield che Maurizio assecondava in parte, asserendo però – da buon batterista – che certi pezzi di Mike non sono abbastanza “suonati”, anche se questa è un’altra storia). Per capirci, Pink Floyd, Genesis, Peter Gabriel e compagnia varia, come repertorio standard. Eppure, devo dire che gli ABBA – uno dei pochissimi scarti che ci concedevamo rispetto al nostro pensiero musicale dominante – ci hanno tenuto parecchio compagnia, in quelle ormai mitiche trasferte.

E certo, sono passati ormai molti, molti anni. In tutto questo tempo gli ABBA per me – e per moltissimi – hanno significato un preciso riferimento temporale, quello a cavallo tra i settanta e gli ottanta del secolo scorso. Varcato il nuovo millennio, chi ci pensa più? Certo sono belle melodie, questi coretti nordeuropei scendono giù bene e si gustano anche a distanza di decenni, ma insomma, è sempre una rivisitazione di roba passata, archiviata, conclusa. Oppure no?

Chi l’avrebbe detto che in questi giorni mi sarei imbattuto, in pieno 2021, in un nuovo disco degli ABBA? Si chiama Voyage e comprende dieci canzoni registrate prima del COVID, nel 2018, ma dato alle stampe (si fa per dire, ormai) solo adesso. Il nono disco del gruppo, contando solo quelli registrati in studio. Tutto normale, se non fosse che l’ottavo, The Visitors, risale al lontanissimo 1981. Tanto per dire, narrano le cronache del tempo che The Visitors sia stato il primo disco in assoluto ad essere stato stampato in formato CD, formato che ormai è caduto in disuso esso stesso (o quasi). Tutta l’era del CD in pratica è trascorsa senza che agli ABBA (posto che si concepissero esistenti) sia venuta voglia di buttare nuova musica sopra questi dischetti.

Detto alla spicciola, sono passati più di quarant’anni. Concederete che non è del tutto consueto far passare quarant’anni tra un’opera d’ingegno e l’altra, nemmeno Stanley Kubrik era così pacato nella realizzazione dei suoi capolavori. C’è di che essere colpiti. Quindi mi sono approcciato a questa nuova uscita con una certa curiosità, insieme con la paura di rimanere deluso. Non sarà un accanimento terapeutico per caso? Chissà mai se avranno davvero qualcosa ancora da dirci, questi ABBA (considerato che già è stato uno shock sapere che esistono ancora).

La risposta a tali questioni la si vive solo ascoltando. L’apertura è in grande stile, comunque. I Still Have Faith in You è una ballata che ti entra subito in testa, per la sua ricchezza timbrica, la felicità melodica. Hey, primo singolo dopo 38 anni, precisamente da Thank You For The Music, che risale per l’appunto al 1983. Grazie per la musica, ci risentiamo tra qualche decina d’anni. In pratica.

Ragazzi, trentotto anni non sono pochi. In trentotto anni – per rimanere in ambito musicale – uno come Mozart fa in tempo a nascere, crescere, comporre capolavori assoluti che non verranno mai dimenticati finché esisterà l’uomo, e poi (purtroppo per lui, ma anche per noi) perfino morire.

Epperò qui il tempo non sembra passato per niente. Meglio, sembra che il tempo che passa non sia più l’ultima parola. Che il tempo stesso sia parecchio relativo, insomma. Cioè che volontà, perizia, dedizione, attitudine positiva e quant’altro, certo non fermino il tempo e tuttavia lo influenzino intimamente, dettandone le condizioni del fluire e mortificandone quell’assetto che troppo spesso si pretende inossidabile, incoercibile. Il dramma è questo, caspita. Che noi abbiano nel cervello il fatto del tempo come entità in spostamento rigido e costante: le solite favole delle lancette implacabili, della faccenda che niente dura, insomma la dedizione meccanicistica di Time dei Pink, indubbiamente geniale ma anche implacabile, ossessivo, pervasivo nella sua carica di angoscia.

Il tempo pensato come scorrere meccanico ultimamente ci angoscia, perché – azzardo – è una brutta menzogna, un cattivo racconto. Il tempo in realtà è morbido, plastico. Ormai anche la fisica lo sa. Si piega, rallenta intorno a stelle e pianeti, accelera altrove. Secondo me, rallenta anche attorno ad addensamenti di significato, di senso. Ho ancora fede in te come dichiarazione potente si innesta in quel tempo che a torto si ritiene meccanico introducendo un principio di felice rivoluzione, di lieto scardinamento. Non va tutto come al solito, non è sempre la dura attualità apparente, quel sentire tutto provvisorio e tutto a rischio tanto che si pensa, si dice everything dies baby it’s a fact come lucidamente canta Springsteen, o almeno non necessariamente lo è. Non è per forza così. Non è un fatto, o meglio i fatti dipendono anche, almeno certi fatti, da come li pensi, da come li vivi.

Se hai una buona storia, questo fa la differenza. Il tempo scorre implacabile se non c’è una storia, ti trasporta via se non hai un quadro di significato, se non hai radici. Non riposando ultimamente su di una qualche normalizzazione, allora sì che spinge all’infinito e trascina tutto con sé. Ma lo sappiamo, la vera stoffa dell’universo sono le storie, l’universo stesso è fatto di storie, anche il mio lavoro – grazie al cielo – me lo ricorda. In fondo gli ABBA (vecchi e nuovi, che queste categorie svaporano felicemente con lo svaporare stesso del tempo meccanico) cantano proprio questo, ma lo dicono proprio, arrivano subito al punto nel testo di questa formidabile canzone, cantano abbiamo una storia e questa è sopravvissuta e così facendo innestano una sfida gagliarda nel tempo, una riscossa sul tempo pensato meccanico e dunque pensato male. Si propone implicitamente un ripensamento del tempo, un allentamento e un allietamento di tempo. Questo, fin dalle prime note. Poi l’orchestra arrangiata in modo sapiente, il tappeto discreto di sintetizzatore (una delle pochissime connessioni alla modernità), i coretti svedesi (volete che non ci siano in un disco degli ABBA) fanno il prodigio sonoro, rendono l’opera compiuta, godibile. Che bella canzone. Degna certamente degli ABBA di un tempo, ma il tempo che esiste davvero è solamente questo tempo e infine il tempo che cosa è realmente?

Così si sbuca fuori da questa canzone con la sensazione di aver assaggiato un prodotto ispirato (e confezionato assai bene). Ti ricircola addosso un gusto buono che ti predispone favorevolmente all’ascolto del resto del disco, che però non vi sto a dire traccia per traccia perché qui sono già andato parecchio lungo e soprattutto perché già molto bene è stato detto.

La cosa che ti sorprende più vai avanti è che il tempo non sia passato, oppure (meglio) che il tempo non sia quello che pensi tu, povera sprovveduta personcina preda dei modi comuni di pensare (non vi offendete, sto dipingendo me). Gli ABBA ti fanno una lezione sul tempo senza astruse equazioni o pompose enunciazioni e lo fanno operando tagli, cuciture e modifiche nel tempo tali che tu rimani a bocca aperta, incastrano arrangiamenti e modi di suonare che sono quelli degli anni settanta ed insieme sono attuali, sono quelli che servono, quelli che ci vogliono, quelli nello stile ABBA insomma.

Così più ascolti più senti che qui c’è palesemente qualcosa di bello ma c’è anche qualcosa che non va. La cosa bella riguarda la musica, la cosa che non va riguarda la fisica ed appunto il tempo e meglio ancora, più precisamente, come tu lo pensi. Se non cedi ad un tempo morbido e plasmabile, qui non capisci più niente. Se non lasci agli allocchi l’idea di un tempo indipendente dagli eventi (dagli occhi, dai luoghi, dai sorrisi e dalle emozioni) come nastro trasportatore inesorabile, non ti raccapezzi.

La cosa ti sembra assurda e magari non ne parli con nessuno, ma alla fine capisci che il tempo è una faccenda molto bizzarra e meno inquadrabile sommariamente e questo è un gran bene perché alla fine anche tu sei immerso nel tempo e questa cosa di invecchiare meccanicamente verso un destino mediamente poco esaltante non ti è mai andata a genio e forse rinegoziando il tempo forse, mettendoci insieme cose come senso e significato, miscelando il tutto con sapienza certosina o zen o comunque antica, le cose cambiano un po’ o forse anche più di un po’ ed allora apparenti assurdità come un disco degli ABBA in puro stile ABBA quarant’anni dopo la fine evidente e completa degli ABBA iniziano perfino ad avere senso, eppure questo sarebbe anche poco. Forse inizia anche ad avere senso una vita che scorre in un campo di eventi e sorprese come quella tua personale, ora che la vedi in modo diverso, e dunque la cosa non è tanto scappare dal tempo ma iniziare a familiarizzarsi con un altra natura del tempo, metterci i piedi pian piano come quando vai in acqua e all’inizio non sai e non ti decidi ma poi capisci che ti ci trovi bene e dici perché non ci sono entrato prima. E quando pensavi che non ci sarebbero state già sorprese le sorprese infatti (oppure invece), arrivano.

E per questo scoprire un nuovo tempo, c’è sempre tempo. L’essenziale è non lasciar scappare le occasioni di scoperta. Non chiudere la porta non blindare la meraviglia incipiente con pensieri pigri alla tanto ormai. Invece no, farsi prendere dalla musica (e dalla fisica) ed insomma rilanciare in puro stile ABBA, esclamando in allegra pazzia cose come ho ancora fiducia in te.

Queste cose il tempo (qualunque cosa pensi di essere) lo incartano, lo confondono, lo spiazzano. E magari, lo rendono amico.

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