Qualcosa di epico sta accadendo nello spazio. Ieri il team del James Webb Telescope ha annunciato che è terminata con pieno successo la complessa sequenza di posizionamento per i diciotto tasselli rivestiti in oro che formano lo specchio primario del telescopio, da sei metri e mezzo di diametro.

Il James Webb Telescope in una illustrazione artistica, con tutti i componenti importanti dispiegati.
Crediti: NASA GSFC/CIL/Adriana Manrique Gutierrez

Tutte le principali operazioni di dispiegamento sono ora completate, e si aspetta che il telescopio raggiunga il suo punto di osservazione (il secondo punto di Lagrange, a circa un milione e mezzo di chilometri da Terra), dove avrà inizio la lunga e meticolosa fase di messa a punto. Ci vorranno mesi, ma è bene non avere fretta, perché la messa a punto è di importanza decisiva per la qualità delle osservazioni che potranno essere effettuate.

Quello che sta accadendo ora sopra la nostra testa è il frutto di un lavoro paziente il cui inizio, secondo un articolo di Nature, si può far risalire alla fine degli anni ottanta: addirittura prima che fosse lanciato Hubble, si stava già pensando a chi lo avrebbe potuto sostituire, ragionando su come sarebbe potuto essere, su cosa avrebbe potuto osservare.

Mi piace molto meditare su questo fatto, perché mi dimostra – in questa civiltà dell’affanno, della fretta, dei progetti di corto respiro, della frenesia del risultato – che la mente scivola spesso su sentieri sbagliati: perché quello che ancora premia, anche se non è molto di moda, è soltanto l’applicazione costante e fiduciosa. Che avere fiducia e non farsi spaventare dalle difficoltà, serve.

Come sempre, un risultato tecnico e scientifico è interessante per quello che ci indica oltre la scienza, per quello che ci dice dell’uomo. Per quello che possiamo imparare, possiamo trattenere come utile, per la nostra vita ordinaria. Ma è la scienza, e serve proprio a questo.

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