L’Universo ha una storia affascinante, che comprendiamo ogni giorno di più: ogni giorno studiamo il cielo e facciamo luce su un altro piccolo tassello, nell’architettura generale della nostra conoscenza del Cosmo. Ed è una storia affascinante, quella che ci si dispiega davanti. Una storia accessibile a tutti, perché tutti condividiamo il fatto di essere immersi in una sterminata infinità di galassie, stelle e pianeti, che ci invita – direi quasi ci sospinge – a prenderne coscienza.

Per questo è meritorio ogni sforzo ben fatto per raccontare la storia del cielo in modo equilibrato, senza banalizzazioni ma anche senza inutili astrusità matematiche. L’Universo ha una storia raccontabile, dopotutto, ed è necessario raccontarla. Lo è sempre stato, in ogni epoca, fin dai miti dei popoli primitivi. Oggi che finalmente abbiamo a disposizione un modello scientifico di Universo, non siamo certo esentati dal racconto. Anzi, forse l’urgenza di esprimerlo, di parlarne, di narrare le nostre origini, risulta oggi ancora più pressante.

Il cosmologo Carlos Frenk

Stupisce infatti quello che possiamo capire del nostro smisurato Universo, osservandolo – come facciamo – da un piccolo pianeta alle periferia di una grande galassia. Stupisce che le leggi fisiche che lo descrivono siano esattamente le stesse che abbiamo potuto derivare con la paziente analisi dei fenomeni a noi più prossimi, di quel che abbiamo potuto imparare facendo cadere a terra dei sassi, osservando il moto delle nuvole, vedendo l’acqua scorrere nei fiumi.

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