C’è un senso sbagliato che a volte accompagna la parola, un senso sbagliato perché foriero di una catena di fraintendimenti senza fine. Il senso sbagliato è (qui, e quasi sempre) nella separazione: specificamente, qui è nell’idea di cultura che divide, che tiene lontani, che erige barriere (tra chi sa e chi non sa). Che è elitaria, settaria, escludente. Tale senso è sapientemente inquadrato nella canzone di Giorgio Gaber, Il dente della conscenza.

C’è un senso corretto, naturalmente. Quello da recuperare. Lo trovo mirabilmente espresso in questo brano di Don Giussani, tratto dal testo Dare la vita per l’opera di un Altro:

Parlare di cultura, infatti, è parlare di tutto l’assetto umano della nostra presenza nel mondo, perché la cultura non è un esito ricercato dagli appassionati o dai competenti: la cultura è ciò da cui l’uomo trae tutto il suo comportamento, ciò a cui si ispira nel suo comportamento come origine di tutto, nel formularlo e dispiegarlo seguendo l’evoluzione delle cose e della vita, e nell’affermazione dello scopo ultimo di ciò che egli compie, cioè del suo destino.

Qui trovo finalmente quello che sto cercando. La cultura come l’assetto umano della nostra presenza nel mondo. Potente, come formulazione. Gravido di varie conseguenze. Intanto, come prima implicazione, riguarda tutti. Difatti non puoi non avere un assetto, non puoi tirartene fuori. E parimenti, nessuno può tirartene fuori. La cultura non è per pochi, non è per una casta, è di tutti e per tutti.

Se capita di rivestire il ruolo persone di cultura, di essere magari scienziati (e un primo lavoro è non cadere nell’idea che queste due categorie siano separate, ma questo è un discorso diverso), intanto non è per gloriarsi di qualcosa, per pavoneggiarsi di chissà quale sapienza, ma per un servizio. Io sono scienziato per un servizio, per fare (direi quasi, garantire) un servizio. Come tu puoi essere ristoratore, barista, guidatore di autobus, per questo: per un servizio. E non ci sono livelli di importanza diversi. Anzi, semmai ci fossero, temo che lo scienziato, l’intellettuale, occuperebbero gli ultimi posti. Jovanotti nel meraviglioso brano Temporale avvertiva nel 2008 (album Safari) assai saggiamente, che l’autista di scuolabus ha in mano la nazione.

Sì, quindi giusto rispettare gli scienziati: come rispettare chiunque, qualunque lavoro svolga. Quando mi dicono ah tu che sei scienziato… come se appartenessi ad un altro mondo, un altro pianeta, anche se per scherzo, mi indispongo (lo ammetto, sono permaloso e facilmente irritabile). Ecco, non sono migliore di nessuno, non ho risposte preconfezionate (la scienza non possiede verità, del resto, quindi nemmeno gli scienziati in quanto tali le possiedono). Provo a portare il mio contributo nel mondo, esattamente come fanno tutti.

Beninteso, c’è chi approfondisce certe cose, per mestiere. Chi acquisisce una conoscenza particolare in uno specifico campo. Uno vale uno, d’accordo: ma non certo nel senso di piallare le diverse competenze. Chi conosce la stratificazione di un modello stellare al variare del tempo, chi si è pazientemente costruito una competenza in astrofisica o in biologia quantistica o è un grandissimo esperto nella teoria delle foliazioni (che non è una roba di botanica ma di matematica, per inciso), ha compiuto un lavoro che è giusto riconoscere.

Però è sempre per un servizio, che si integra con tutti gli altri. Perché nessuno può fare tutto, essere esperto di ogni cosa: Archimede Pitagorico è – come giustamente avverte Wikipedia – un personaggio immaginario. Io non so fare la sachertorte, non so nemmeno da dove si comincia, per prepararla. Però conosco qualcosa degli interni stellari, posso intrattenervi sui cataloghi di Gaia e sulla deconvoluzione di spettri stellari parzialmente sovrapposti. Anche, mi piace ragionare all’incrocio tra astronomia e letteratura, lì mi trovo bene.

Insomma conosco alcune cose, ne ignoro moltissime altre. Alla fine, come tutti. Un pasticcere provetto, il quale abbia sviluppato una grande abilità nella preparazione di un dolce (non necessarimente una sacher, con buona pace di Nanni Moretti) ha in sé una sua cultura specifica, che mescola sapientemente tradizione ed innovazione, per giunta. Può essere meno di cultura di uno scienziato? Ne dubito.

Basterebbe rimanere nella definizione di Giussani. Se la cultura è una attitudine e non quantificabile (diciamo) in un numero di libri letti, di corsi seguiti, di diplomi appesi nello studio, tutto è conseguente.

Tra un barone universitario spocchioso ed arrogante che non vuole saperne nulla al di fuori di ciò che già conosce, che pensa di centellinare il suo sapere accademico compiacendosi di donarlo con il contagocce alla platea dei non addetti, e un meccanico che ti sistema il motore della macchina in modo attento e con economia di mezzi e di tempo, grazie alla sua conoscenza appassionata della meccanica del mezzo, io non ho molti dubbi su chi sia la persona di cultura. Né ho dubbi su chi porti più luce ed ordine nel mondo.

La seconda conseguenza, che rende la definizione di cultura veramente esplosiva è il collegamento al destino. Legare la cultura al destino è svincolarla completamente da quel senso di erudizione in fin dei conti, inutile, facendola rientrare compiutamente nella vita, nel vivere umano, nel confronto con ogni aspetto della realtà.

Cultura non è elencare in modo corretto l’elenco degli affluenti del Po, o gli stati confinanti con l’Austria. Cultura è quel lavoro – intellettuale ma non soltanto – che dona limpidezza e ragioni all’affermazione cosciente del nostro destino.

Dunque, assetto e affermazione sono i veri sapori della cultura. Credo proprio che su questo, Gaber sarebbe molto d’accordo.

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