Volare liberi nello spazio. Essere liberi. A cento metri dalla stiva del Challenger, Bruce McCandless stava davvero vivendo un sogno, fluttuando nello spazio più distante dalla navicella di appoggio, di quanto fosse mai stato fatto.

Essere liberi, nello spazio.  
Crediti: NASASTS-41B

Era il 1984, ma già da diversi anni la NASA aveva sperimentato le passeggiate spaziali: il primo americano a condurre una di queste passeggiate fu, infatti, l’astronauta Edward H. White nel lontano 1965, che si intrattenne al di fuori della navetta Gemini 4 per ben venti minuti.

Galleggiare nello spazio, con l’intera Terra sotto i propri piedi, è certamente una di quelle esperienze che non si possono trasmettere a parole. Per i pochi fortunati, possiede certo qualcosa di intrinsecamente indescrivibile.

A noi qui sulla Terra, rimane l’anelito insopprimibile ad essere liberi davvero, a lavorare continuamente per liberarci da legacci e pastoie che ci zavorrano al suolo, spesso molto oltre il ruolo già preponderante della forza gravitazionale.

Essere davvero liberi, è una faccenda complessa. Implica un lavoro continuo. Scriveva Filippo Tocci, qualche anno fa, che

è fondamentale rinfrescare la consapevolezza dello scopo della nostra esistenza: siamo sulla Terra per un motivo, abbiamo un talento, qualità e inclinazioni. Siamo nati per affermare noi stessi e la nostra potenza creativa, non per adeguarci alle oscillazioni del mercato. Come fare? Abbiamo bisogno di recuperare un rapporto più profondo con noi stessi

Il paradosso mi pare proprio questo. Tanto più acquistiamo consapevolezza di uno scopo preciso e di una direzione di marcia, nella nostra vita, tanto più ci sentiamo liberi.

Anche se non siamo sbucati fuori da uno Shuttle per contemplare in diretta la sconfinata meraviglia del cosmo e del nostro pianeta in particolare, in una esperienza che rimane potentemente simbolica, sprone per noti tutti a ricercare ogni giorno la libertà, anche con la gravità.

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