La sonda Voyager 1 è attualmente l’oggetto creato dall’uomo più lontano da noi, in senso assoluto. Partita nel 1977, si trova adesso a più di 24 miliardi di chilometri da casa. Voyager 1 (come la sorella gemella, Voyager 2), dopo 47 anni di onorato servizio e dalle distanze cosmiche dove è arrivata, non solo mantiene i contatti con la Terra, ma ancora invia informazioni scientifiche. C’è stata parecchia apprensione negli ultimi mesi, perché i dati in arrivo dalla sonda erano improvvisamente diventati incomprensibili, indecifrabili. Un guasto ai computer di bordo: c’era la paura di perdere il contatto. Oppure, di non riuscire più a parlarci, a capirci.

Immagine artistica della Voyager 1 (Crediti: NASA)

Ora che scrivo, la NASA è appena riuscita a riprendere il dialogo con la sonda, riprogrammando i computer in modo da aggirare l’avaria. Impresa quasi incredibile, considerando che – a motivo dell’enorme distanza – ogni comando che si impartisce da Terra viene ricevuto dalla sonda quasi con un giorno di ritardo e la risposta arriva a Terra ancora un giorno dopo.

Voyager 1 è un’impresa storica: il suo viaggiare tra le stelle è una eloquente testimonianza di quanto passione e perseveranza possono incidere nell’universo. Sulle imprese storiche si è sempre fatto poesia: forse in quest’epoca in cui l’astronomia ha subito un’accelerazione senza pari, siamo rimasti indietro nel tradurre in parole poetiche lo stupore che l’esplorazione dello spazio, inevitabilmente comporta. Ma questo scollamento – come mostra il percorso fatto fin qui – è pericoloso: la scienza infatti non basta a sé stessa, la scienza non si comprende fino in fondo (né lei comprende sé stessa), se non fermenta attorno a sé un parlare poetico.

Se tutto l’universo è una trama di relazioni, attraverso la quale gli oggetti emergono all’esistenza, anche la scienza da sola non possiede un significato: deve domandarlo, mendicarlo altrove. Offrendo quello che ha: un flusso di scoperte mirabili, che devono però trovare un porto, una accoglienza. La scienza si comprende ed esiste in un ordito di relazioni con ciò che è differente da lei. Altrimenti, svapora in tecnicismi ostici ed ostili, si perde nel puro e freddo dato tecnologico.

La poesia però non abbandona mai la scienza a sé stessa. Se pure a volte appare in affanno, nel maneggiare questi nuove tecniche e questi nuovi mondi, il dialogo non è mai interrotto. Si può far ottima poesia maneggiando le cose più recenti ed attuali della ricerca scientifica. Di Claudio Damiani e dei “suoi” neutrini abbiamo già detto nella prima puntata. Possiamo qui aggiungere Davide Rondoni (classe 1964, autore di raccolte poetiche notevoli come Apocalisse Amore e Avrebbe amato chiunque) con una poesia del titolo per noi particolarmente significativo, In seguito a una notizia riportata dai giornali sulla perdita di robot sul pianeta Marte1

Su Marte muoiono i robot.
ce ne sono alcuni che passeggiano
da molto tempo lassù
ma dicono che un paio
abbiano rallentato
le trasmissioni, lanciato segnali
più sommessi, e niente infine
niente più.
Il loro corpo immobile
non sente più le stelle.
forse hanno appreso un’altra lingua,
hanno trovato un nuovo buio
che del tutto li stupisce.

I robot possono dunque diventare materia di poesia, cioè materia di riflessione oltre il dato scientifico. Paradossalmente, nel momento in cui muoiono, facendosi materia poetica attraverso queste parole, diventano vivi per noi, veramente vivi. Perché la poesia tratta sempre di cose vive, o meglio tratta le cose e le persone come fossero sempre vive: forse, tratta semplicemente cose e persone come devono essere trattate.

La scienza dei cieli ci apre scenari incredibili di altri mondi, panorami di pianeti e lune, mondi lontanissimi che travalicano la nostra troppo timida immaginazione. Propone a noi tutti un cammino di conoscenza, che dobbiamo fare in compagnia della poesia: lo stesso Rondoni, del resto, ci avverte che non è affatto opposta alla scienza. Così infatti Davide mi scriveva, qualche anno fa:

La poesia e la scienza non sono opposte, non lo erano nelle origini della meraviglia che percepisce il mondo come primo passo, e non lo sono dopo il lungo cammino di entrambe, quando si concepiscono e attuano come tensione alla conoscenza del mistero del reale. Quel che Ungaretti chiamava il “segreto” del mondo.

E se, dunque, su Marte alcuni robot muoiono (o piuttosto, hanno trovato un nuovo buio / che del tutto li stupisce), nello spazio siderale proprio ora la Voyager 1 riprende vita e ci torna a parlare di ciò che accade fuori dal nostro Sistema Solare: unico avamposto umano in un luogo così remoto.

Questa luminosa ostinazione esonda dal dato tecnico e diventa inevitabilmente materia di poesia. Sarò avventato se chiamo a raccolta – per scherzo, ma neanche troppo – poetesse e poeti che leggono queste colonne, per un prossimo poema sulla Voyager 1?

Contributo pubblicato sul numero di maggio 2024 di Frascati Poesia Magazine 

  1. leggibile qui in forma completa https://bit.ly/marte-rondoni

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