Qualche giorno fa ero sulla spiaggia, sul lungomare di Sabaudia e in un momento di pigra riflessione, guardavo la sabbia. La zone è interna al Parco Nazionale del Circeo e presenta (oltre ad un bel mare) una flora ed una fauna indubbiamente interessanti.

D’un tratto nel mio orizzonte visivo entra uno scarabeo stercorario (credo) che si muove a gran velocità (per lui) tra le piccole dune di sabbia. Per un poco, lo seguo con lo sguardo. Mi impiccio, diciamo. Noto la serie di impronte caratteristiche lasciate dalle sue zampine lungo il tragitto percorso. E vorrei capirci di più, su tutta la faccenda. Dove sta andando così di corsa? Perché ogni tanto cambia improvvisamente direzione? A che stimoli sta rispondendo? Quale è il suo progetto (se esiste)? Perché si sposta? Dove vuole arrivare? È in cerca di cibo, di amore, di un riparo? È un essere vivente che in qualche modo prende delle decisioni, ma io non so in base a cosa decide. Io non ne so nulla.

Io penso di saperne di cose, ma in realtà non so un bel nulla. Non so veramente nulla. Non so nemmeno perché lo scarabeo che è passato vicino al mio ombrellone ha scelto quella traiettoria. E il fatto che di solito queste cose io nemmeno me le chieda, non diminuisce certo la mia ignoranza. Anzi la aumenta, perché non ignoro soltanto le risposte, ma spesso ignoro perfino le domande.

Come scrivevo tempo fa, capire che c’è qualcosa da capire è il vero punto. Noi non lo capiamo spesso, e così nascondiamo (a noi stessi) la nostra ignoranza. La mia analista mi sprona spesso a cercare le domande giuste, più che a trovare frettolosamente le risposte. Ha ragione: le domande sono più importanti delle risposte. Le domande stabiliscono un contesto, generano un linguaggio, danno realtà ad un certo tema.

“Probabilmente ci stiamo avvicinando al limite di tutto ciò che è possibile conoscere sull’astronomia.” A dirlo fu Simon Newcomb, matematico ed astronomo vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento. Il bello è che non aveva ancora capito che non sappiamo niente, ma all’epoca difficilmente si sarebbe potuto capire. Perché oggi, dopo tanto lavoro, siamo arrivati a poterlo dire veramente, che non sappiamo niente.

Tante volte ho presentato questo diagramma, anche nelle conferenze (diciamo la verità, in una versione o l’altra, lo presento praticamente sempre)

Energia e materia nel cosmo, secondo le teorie più attuali

Ecco. La materia che conosciamo (che compone il tavolo, il gatto, il ragazzo simpatico, la ragazza carina) è quell’esilissimo 0.03% di “elementi pesanti”. C’è poi un 0.5% in stelle, ben più corposo, e il resto… non si vede. Il quattro per cento è composto da idrogeno ed elio, che non si vedono, come pure lo 0.3% di neutrini, non si vede.

Per farla davvero corta, tra cielo e terra, scorgiamo uno 0.53% di quello che esiste. Poco più di cinque millesimi del reale, si vede.

E chi la fa da padrone, sono energia e materia oscura. Cosa è l’energia oscura? Non lo sappiamo. Cos’è la materia oscura? Non sappiamo nemmeno questo. E ci stiamo girando intorno da molto. Capisco rileggendo un mio post di quasi venti anni fa, che non è molto cambiato lo scenario, nel frattempo.

Insomma le cose stanno così. Newcomb quando considerava il cosmo stava pensando (se la nostra teoria è corretta) a circa il cinque per mille di ciò che esiste. Ma non lo sapeva. Aveva scambiato il cinque per mille (non quello della dichiarazione dei redditi) per la totalità, un errore decisamente non da poco. E non se ne rendeva minimamente conto.

Quindi di cosa è fatto l’universo, alla fine? Non lo so. Come non so perché lo stercorario prende una direzione, superata la seconda dunetta di sabbia gira a destra poi a sinistra, eccetera. Perché quel tragitto, perché non un altro? Non lo so. Perché l’albero nel parco sotto casa mia presenta questa esatta configurazione di rami, e non un’altra? Non lo so.

Potrei rilanciare. Perché alcune mattine mi sveglio nervoso, altre lieto? Posso fare delle proiezioni, tentare delle correlazioni con quanto è accaduto la sera prima, il giorno prima (alcuni andrebbero a vedere come sono posizionati i pianeti nel cielo), in ogni caso e dopo ogni tentativo, resta comunque una parte che non so.

Noi pensiamo sempre che sapere voglia dire incasellare, classificare. Anche se le saggezze millenarie ci hanno sempre messo in guardia, da tale attitudine mentale. Ma incasellare non è comprendere. Dire “questa è una rosa” non chiude il mistero della rosa, semmai lo rimancia all’ennesima potenza. Figuriamoci se poi diciamo “questa è una donna”, oppure “questo è un uomo”. Dare un nome è importante, chiama all’esistenza, ma alcune volte non esaurisce. Quanto mistero sfioriamo qui, senza saperlo nemmeno? Dovremmo davvero svegliarci da questa ipnosi, a questo punto.

Così come l’acqua non è la parola acqua, più di quanto non lo sia agua, Wasser, o H2O, nulla in questo universo è il nome che porta. Malgrado il nostro continuo classificare non si potrà mai descrivere veramente ogni animale, fiore, minerale ed essere umano. Nello stesso modo, il Tao ci dice che «il nome che si può pronunciare non è lo stesso nome». Ci dobbiamo appagare nella magnificenza di ciò che si vede e si percepisce con i sensi, invece di memorizzare e classificare in continuazione. (La saggezza del Tao, Dyer Wayne)

Dyer sta commentando l’inizio del Tao Te Ching, un libro sapienziale antichissimo. “Il Tao di cui si può parlare non è l’eterno Tao”. Limpidissimo, individua una zona fuori da ogni possibile acqusizione concettuale. E invece noi, dopo millenni, ci ostiniamo a pensare che il ragionamento discorsivo arrivi dappertutto. Che insomma basti catalogare e descrivere per possedere intellettualmente qualcosa.

Il fatto è che questo sovente questo possesso è impossibile, per cui la mente ce lo simula, e basta. Il moto sarebbe allora quello inverso, quello di lasciare andare. Perché questo aggrapparsi, che arriva fino a cercare di aggrapparsi al tempo, di possederlo fin nella vita quotidiana (anche di noi ricercatori), produce disastri.

Allora la percezione dell’incompletezza, del limite, diventa preziosa. Ci aiuta a mollare la presa, tanto è impossibile com-prendere tutto.

“Si comprehendis non est Deus”, diceva Agostino. Se lo capisci non è Dio. La ragione ci inganna, ci fa percepire come completo un certo quadro percettivo, mentre semplicemente ci nasconde quello che non riesce a comprendere. La cosmologia moderna è preziosissima in quanto viene a smascherare questo fraintendimento.

Che poi le cose sarebbero ancora più complesse di così. Perché – e qui davvero sarebbe da scomodare la fisica quantistica – non è che ci sia un bel mondo oggettivo là fuori, indipendente da noi che lo osserviamo. Se iniziamo a capire che siamo (in qualche misura) cocreatori del mondo, conoscere diventa in un certo moto (come dice Federico Faggin), non tanto svelare quanto portare all’esistenza qualcosa.

Cosa ci segnala la presente crisi della cosmologia? Cosa la nostra consapevolezza piò portare oggi all’esistenza?

Ma ora lascio anche questo spunto, che ci porterebbe troppo lontano. Chiudo invece, ritornando all’inizio.

Io non so niente. Ma questo è bellissimo, a pensarci bene. Se non so niente, ho molto spazio per imparare qualcosa. Ho molto spazio per aspettarmi un imprevisto, ho molto spazio per stupirmi, come un bambino che del mondo non sa quasi niente. Oppure come un astronomo di sessant’anni, che del mondo (ormai) sa di non sapere, quasi nulla.

Ed è contento così.

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