Appena esco sulla terrazza dell’Istuto Comprensivo Fratelli Bandiera, mi rendo conto di essere sbucato in un nuovo universo. Ho capito. L’ascensore che mi ha portato al terzo piano deve essere in realtà una navicella che si tuffa una specie di wormhole, che sbuca appunto in questo spazio nuovo.

Più fresco, ampio, aerato. Decisamente più vivibile, rispetto al suolo.

Da qui ammiro Roma da una posizione speciale. La vedo dall’alto, indulgo con la vista sulle luci calde delle case, che si stagliano piacevolmente sull’azzurrino della sera: nel complesso, mi sento catapultato nel bel mezzo di qualcosa di silenziosamente grande. E sono immediatamente più sereno.

Già, la posizione geografica (latitudine, longitudine) dice poco o nulla, su come vivi un certo posto. Spesso l’altezza da terra cambia tutto. E ad ogni livello c’è un modo diverso di vivere lo spazio, l’ambiente. Ad esempio una piazza. Come qui, in Piazza Ruggero di Sicilia. Che è una piazza di Roma anche se Ruggero non lo era (chiaro). Ma sono sicuro, andrebbe ugualmente bene anche un vicolo di Roma, come cantava un grande Lucio, in una splendida canzone che si cuce bene al momento, La sera dei miracoli. Le sere d’estate a Roma hanno la loro magia speciale e Lucio, pur non essendo romano, se ne era ben accorto.

È la sera dei miracoli, fai attenzione
Qualcuno nei vicoli di Roma
Con la bocca fa a pezzi una canzone
È la sera dei cani che parlano tra di loro
Della luna che sta per cadere
E la gente corre nelle piazze per andare a vedere
Questa sera così dolce che si potrebbe bere
Da passare in centomila in uno stadio
Una sera così strana e profonda
Che lo dice anche la radio
Anzi, la manda in onda…

La Luna stavolta non sta per cadere ma, grande e bella, sembra sia serena in cielo lì dove stà, soddisfatta d’esser guardata. Questa terrazza, che poi fu del noto maestro di scuola Alberto Manzi, ci spiega la simpaticissima maestra Titti, è decisamente sbilanciata sul cielo. Alberto, celebre per la sua rubrica televisiva “Non è mai troppo tardi”, insegnò proprio in questa scuola dal 1954 al 1987.

La mia esperienza in terrazza è relativa ai giorni di mercoledì e di venerdì, ma la manifestazione (ben coordinata dalla responsabile della didattica e divulgazione in osservatorio, Elisa Nichelli) è durata una settimana intera, con la presenza volontaria ed appassionata di tanti validi colleghi del mio istituto, sia ricercatori che amministrativi.

Mercoledì, dunque, sono venuto a parlare della sonda Gaia. Due giorni dopo sono tornato per fare assistenza al punto telescopi. La formula de La terrazza delle stelle – manifestazione estiva che si ripete da alcuni anni – è semplice e funziona bene. Per una intera settimana, ogni giorno una conferenza divulgativa fatta da un ricercatore dell’osservatorio (su due turni, per venire incontro alle diverse esigenze di orario del pubblico). Dopo la conferenza, le persone sono invitate ad accostarsi ai telescopi allestiti per l’occasione verso il fondo della terrazza, per osservare la Luna – come si diceva – oppure metter l’occhio su autentici gioielli del cielo: venerdì era il turno di Albireo, un sistema di tre stelle nella costellazione del Cigno, intrigante perché le due stelle visibili (l’altra è debole e tende perciò a non farsi vedere, almeno con i telescopi di cui disponiamo) si presentano con colori molto diversi.

Telescopi pronti! Aspettando che faccia buio..

Roma è innegabilmente sovrastata dall’afa, ma intanto sulla terrazza piove la grazia celeste di un venticello leggero. Arrivare in terrazza, in entrambe le occasioni, è stato per me ricominciare a respirare. Più che necessario, dopo giornate vissute immerso nel caldo, quasi avvolto da uno strato di torpore ipnotico, appiccicoso, difficile a scrollare via.

A mia stessa sorpresa, qui ci riesco, anche perché l’accenno d’aria fresca si sposa bene con la gioia sottile e delicata di parlare delle stelle, come pure di farle vedere, di mostrarle.

Parlarne è per me afferare un’altra bella occasione di raccontare i dieci anni di Gaia, questa sonda europea (lanciata nel dicembre del 2013) che sta scansionando il cielo in lungo ed in largo e che così facendo ha costruito un catalogo di circa due miliardi di stelle.

All’osservatorio di Roma, in collaborazione con quello d’Abruzzo, abbiamo realizzato un software che aiuta Gaia a cavarsela anche in campi affollati, dove le stelle sono cioè così vicine (per noi che le guardiamo) che in pratica si pestano i piedi (d’accordo, le stelle non hanno i piedi, secondo lo scenario teorico più consolidato, anche se si spostano, per noi che osserviamo). Noi insomma abbiamo lavorato per anni – prendendo le mosse da software gloriosi e importanti sviluppati negli anni passati, come ROMAFOT – per aiutare Gaia a trattenere, anche in questi momenti difficili, il massimo di informazione senza buttar via niente, o buttando via il meno che si può. Gaia osserva la Via Lattea, la galassia alla quale orgogliosamente apparteniamo, e questa ha diversi ambienti parecchio impegnativi, come gli amassi globulari o il nucleo della galassia stessa. E poi racconto dell’archivio, enorme e accessibile senza alcuno sbarramento, a scienziati ed appassionati. Spiego come Gaia faccia una scienza veramente aperta a tutti.

Al secondo turno mi sembra di essere un pelo più effervescente e centrato, ho preso un po’ il via e fa comunque più fresco. Ed è ormai scesa la notte, siamo tutti gratificati da quest’arietta più fresca, mentre le luci dei palazzi intorno, che si accendono via via, fanno discreta compagnia e non disturbano più di tanto.

Anche le domande dopo la conferenza sono più numerose, rispetto al primo giro. Mi diverto, forse non devo farlo vedere troppo ma è così. Parlare dell’universo, è una cosa bellissima: sprechiamo tanto tempo a parlare di cose futili, che quando ci sono queste occasioni sembra davvero di riprendere vita, riprendere fiato.

E quindi finisce che ci ritorno, sulla terrazza. Mi sono goduto l’assistenza ai telescopi, venerdì, ben più di quanto avrei pensato.

Con l’amica e collega Elena de Rossi, alla conferenza di Stefano Gallozzi.

Me la sono goduta, intanto per il piacere di chiacchierare distesamente con alcuni colleghi, fuori dall’ambiente di lavoro, che impone necessariamente tempi serrati. Ogni tanto fa bene, lo consiglio. La gente, poi: è lei lo spettacolo, per me (a loro non posso dirlo, però lo scrivo qui). Le persone sono proprio affascinate dal telescopio, vogliono vedere, vogliono chiedere, vogliono capire. Grandi e piccoli, davvero: sono loro lo spettacolo. Il telescopio io poi lo intendo come il contrario esatto della televisione. Perché ti accende, ti desta mille curiosità, mentre quella ti anestetizza, ti mette in stand-by senza quasi che tu te ne accorga. Davanti ad un telescopio le curiosità riprendono vita, riprendono il volo. Quanto sono lontane quelle stelline che vediamo, e se per assurdo adesso non ci fossero più, le vedremmo lo stesso, vero? Per quanto ancora? E via di questo passo.

Spesso capita che, dopo aver accompagnato una persona ad osservare attraverso l’obiettivo, magari risposto ad un paio di domande, questa ti ringrazi come se tu le avessi fatto un regalo, magari piccolo, ma realmente prezioso. Questo mi scalda il cuore, mi sento utile a stare qui, sento che il modo migliore per spendere quello che in tanti anni ho imparato, anche faticando, è quello di spenderlo con la gente, di parlare alle persone di come è bello, articolato, incredibile, rutilante, il cielo sopra le nostre teste.

Ma in fondo, di che altro si dovrebbe parlare?

E i bimbi, i bimbi in particolare, hanno questo sguardo acceso e questo sorriso così incontaminato, questo accordo spontaneo con il reale, che mi commuove. Più ancora di prima, più ancora di sempre.

Quando facevo solo l’astrofisico teorico, a volte venivo via dall’Osservatorio con un senso di strana insoddisfazione, quasi di amarezza. Certo, tutto bello (incluso l’Osservatorio), eppure mi mancava qualcosa. Anche lavorando su cose importanti, cose all’avanguardia, interagendo con vari colleghi sparsi in varie parti d’Europa, comunque mi mancava qualcosa. La luce è iniziata a filtrare di nuovo, quando sono entrato nel Gruppo Storie, poi nella redazione di Edu INAF, quando insomma ho capito che comunicare l’astronomia era qualcosa che non potevo appena decidere di fare, ma potevo solo acconsentire di fare. Cioè, era davvero il caso di seguire la mia natura, seguire le indicazioni (interne ed esterne) che mi arrivavano, smettere di forzarmi in altri ruoli.

Venerdì sono venuto via dalla terrazza, che mi sono scoperto contento. Per l’ennesima volta (grazie al cielo) lieto della scelte fatte, che mi fanno godere di più del mio lavoro. Scendendo verso terra, percorrendo le scale (in discesa me lo posso ancora permettere, di non prendere l’ascensore) verso il caldo esagerato del livello suolo, ero proprio contento. Mi sentivo al mio posto. Il mio posto è qui, è vivere per raccontarla (mi perdoni l’immenso Marquez, già incontrato su Edu INAF, se rubo un suo titolo, ma lo sento pertinente).

Cavolo, è proprio bello vivere per raccontarla. L’astronomia.

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2 pensieri su “Vivere per raccontarla (in terrazza)

  1. E che meraviglia…riscoprire come la passione per i propri studi sia il vero motore che spinge (e deve) gli insegnanti a perseguire l unico importante obiettivo: appassionare gli allievi! Grazie grazie grazie per il suo immenso contributo e per quello dei colleghi… sentire i racconti degli studiosi e’ entusiasmante, sempre! Da bimbi e da grandi!

    1. Grazie cara Maria Cristina, leggerti mi dà tanto conforto, come mi ha dato il messaggio della maestra Titti, che ho ricevuto a poca distanza dalla pubblicazione del mio articolo. A mia volta vorrei dire un sincero grazie agli insegnanti di questa ed altre scuole, per la dedizione immensa che spendono nel lavorare sul territorio, nel rendere le scuole luoghi di formazione ed aggregazione, come in questo caso.

      Come scienziato divulgatore ho girato un po’ di scuole e spesso ho trovato realtà bellissime, situazioni ove anche con poche risorse la dedizione appassionata di insegnanti e collaboratori realizza quasi dei “miracoli”.

      Un abbraccio e grazie davvero!

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