Il cosmo e la poesia (VII)

E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando: A che tante facelle?
Che fa l’aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?

Il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia è stato composto da Giacomo Leopardi quasi due secoli fa (tra il 1829 ed il 1830). Ancora oggi è attuale, bruciante. Davvero brucianti ed immortali sono le domande che si affacciano alla mente del pastore. E di noi tutti, pastori erranti nel cosmo.

A che tante facelle? A che servono tutte queste stelle? Aggiungerei, da astrofisico, a che serve che noi le studiamo? Le due domande, come capirete, vanno insieme, anche nella possibilità di una risposta.

Illustrazione generata dall’Autore attraverso Bing Image Creator

Dopo duecento anni siamo ancora qui, nel punto focale che ha individuato Leopardi. Perché è un punto gravitazionale stabile: eterno, per la razza umana. Il genio poetico indica proprio questi punti di stabilità, parla di cose che rimangono. Ricordo che proprio Leopardi scrisse anche, da giovane (aveva appena quindici anni) una poderosa Storia dell’astronomia dalla sua origine fino all’anno MDCCCXIII.

Una storia successivamente completata da una esperta del campo come Margherita Hack, in un suggestivo e significativo passaggio di testimone tra un grande poeta e una nota scienziata ed appassionata divulgatrice. Questo ci fa capire quanto la distinzione tra espressione poetica e studio del cosmo sia ormai limitante. Quando Leopardi scrive una dottissima storia dell’astronomia è poeta o scienziato? O è semplicemente innamorato delle domande ultime, che le avverte riverberare nel cosmo e proprio per questo, lo studia, lo racconta?

Il Leopardi trentenne che scrive della luna e delle stelle e di un pastore errante non è altro dal ragazzo che tre lustri prima, aveva compilato l’eruditissima storia dell’astronomia. È una persona che non ha acconsentito all’incoscienza di separare queste due tensioni, quella del capire il cosmo e quella del raccontarlo. Né ha coltivato la presunzione moderna dell’oggettivare la conoscenza scientifica, raffreddandola da tutte le passioni e le pulsioni umane, in modo da evitare emozioni e contaminazioni.

In effetti il cosmo sempre ci contamina, ma felicemente. Studiarlo senza sporcarsi le mani non serve, non funziona, è inutile. Leopardi è entrato a buon diritto negli immortali della poesia e quindi ancora ce lo insegna, così anche in questo senso è preziosissimo. Più che un ponte, un wormhole tra poesia ed astrofisica, è l’esempio vissuto che neutralizza la necessità stessa della costruzione di un passaggio: non si dà necessità più di connessione tra due realtà quando le due realtà – esaminate ad energia sufficientemente alta – appaiono una soltanto.

Se come si diceva in apertura, certe questioni non si possono separare, per rispondere alla domanda su me stesso poco mi serve rinchiudermi in un laboratorio, circondarmi di strumenti, misurarmi fin nei più intimi processi cerebrali e biologici e fisiologici. Invece, se tolgo la corrente ai monitor, stacco i sensori, apro la porta ed esco sotto il cielo stellato, inizio subito a ricevere risposte riguardo alla domanda bruciante, io chi sono.

Ma la ragione discorsiva si deve fermare: non le posso tradurre in parole, quelle risposte. Forse le cose più importanti evadono dalla logica delle parole, forse il linguaggio – pensato come articolazione della logica stessa – è sempre riduttivo, di fronte alle cose grandi. La poesia esiste per questo, usa le parole ma si sporge al di là di esse, le slarga sempre oltre il loro limite strutturale. Ci porta ad allargare lo sguardo, dunque. Proprio come fa, da sempre, lo studio del cosmo.

Così le stelle, così apparentemente lontane, ci parlano di qualcosa di vicinissimo, di qualcosa che arde nel profondo di noi. Qualcosa che una certa civiltà riduzionistica e commerciale vorrebbe spegnere, perché poco funzionale ad una economia di guerra e di acquisti. E loro eccole lì che invece resistono, ostinate. Lo fanno per noi. E proprio per questo, sono così belle.

Proprio per questo Leopardi e ogni grande poeta si confronta – ad un certo punto del suo arco poetico – con le stelle. Le stelle sono un punto di convergenza, di accordo, dove le diverse discipline possono darsi convegno e ritrovare una inedita armonia. Le stelle, dunque, appaiono come un prezioso laboratorio di quella unione tra il sapere scientifico e quello umanistico, che non si è ancora compiutamente realizzata ma che il nostro cuore attende ogni giorno con maggior desiderio. Le stelle ci ricordano, in estrema sintesi, che l’uomo nuovo tutto unisce in sé stesso: proprio per questo sono preziosissime.

Contributo pubblicato sul numero di luglio-agosto 2024 di Frascati Poesia Magazine

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