Il cosmo e la poesia (VIII)

L’universo è un luogo accogliente? Questo è l’interrogativo fondamentale, il vero focus di questa rubrica. Non puoi fare poesia, infatti, se non senti di essere in un luogo accogliente. Non puoi creare prescindendo dall’ambiente, e l’ambiente per eccellenza è il cosmo.

Leonardo Boff e Mike Hataway, nel Tao della Liberazione (uscito dieci anni fa per i tipi di Campo dei Fiori), parlano espressamente del fenomeno della perdita della cosmologia in Occidente. Un fenomeno gravissimo, che contribuisce non poco al malessere moderno del quale difficilmente riusciamo a non fare esperienza quotidiana. Anche nella poesia. Abbiamo infatti perso, con la stessa entrata nella modernità, la nozione di universo “amico”, luogo di riparo e protezione. Per gli autori, “abbiamo smarrito una narrazione onnicomprensiva che ci dia l’impressione di avere un posto nel mondo. L’universo è diventato un luogo freddo e ostile, in cui dobbiamo lottare per sopravvivere e guadagnarci un rifugio in mezzo a tutta l’insensatezza del mondo”.

Illustrazione generata dall’Autore attraverso Bing Image Creator

Allora a che serve, a che cosa è servita questa scienza? Se è a questo che ha portato, la tentazione sarebbe quella di prendere le distanze dall’impresa scientifica nel complesso. Evadere da questo cosmo – le proprie poesie sottobraccio – cercando o immaginando un ambiente più ricettivo. Davvero la scienza ha desacralizzato l’universo, relegando la domanda di apertura ad un interrogativo meramente retorico?

Dobbiamo ammetterlo: ci siamo abituati ad una cosmologia fredda ed impersonale. Ci siamo abbeverati – come pozione velenosa – ad uno schema di universo distante e indifferente, teatro olimpicamente neutro di eventi che non trasmettono e non custodiscono (più) alcun vero senso. Devo davvero rassegnarmi a vivere in un universo così? Non mi arrivano segnali nuovi, dal cosmo, per creare nuove risposte a questa domanda?

Da bambino, spesso mi trovavo a casa dei nonni materni. Ci stavo bene, mi sentivo al sicuro, l’appartamento bello e grande, affacciava sul laghetto del quartiere EUR della capitale, con un ampio balcone dal quale lo sguardo spaziava libero su un esteso panorama. Mi dava tranquillità, insieme ad un senso misterioso e bello di appartenenza, e protezione. L’unico momento in cui mi sentivo a disagio era quando, per fare le pulizie, venivano spalancate le finestre e dato aria a tutti i locali, scostate tutte le tende, lavati i pavimenti. Tutto diventava allora improvvisamente troppo grande, troppo esteso, troppo freddo: ogni ipotesi di possibile raccoglimento era persa, dispersa, incluso quel tiepido senso di casa che tanto mi era di conforto. Di colpo, tutto era troppo, per sperare che io potessi mantenere un luogo caldo dove poter dimorare.

La narrazione cosmologica rilanciata dal sistema tecno-commerciale in cui siamo immersi (con il quale la vera scienza ha poco a che fare) mi appare come casa dei nonni durante la fase delle pulizie. Una distesa incommensurabile di spazio in cui si muovono e roteano stelle e pianeti, galassie e quasar, senza alcuna ipotesi di senso. Uno spazio cartesiano dilatato all’infinito, ove i tre assi proseguono con folle determinazione il loro viaggio verso una liberazione dal sacro (ovvero, da ciò che è portatore di senso), che getta ulteriore freddo nei cuori. Per un malinteso senso di politically correct, inoltre, scegliamo di pensarci quali esseri minuscoli e casuali, confusi abitanti di un pianetino in corsa pazza verso non si sa cosa. Come noi stessi, in realtà, ci troviamo spesso presi in corsa pazza verso un obiettivo che neanche riusciamo (più) compiutamente definire.

Dove reperire ancora una scintilla creativa, in un universo fisico (ed emozionale) così concepito? Dove scaldarsi presso l’Amor che muove il Sole e le altre stelle, in questa fredda concezione logico-matematica, distante anni luce da ogni ripresa sacralità, da qualsiasi inesausta carnalità? Quella carnalità che percepiva Ungaretti, scrivendo quei meravigliosi versi di amicizia con il cosmo:

Ora mordo
come un bambino la mammella
lo spazio
Ora sono ubriaco
d’universo

Asserisce Franco Battiato in una bella canzone che tutto l’universo obbedisce all’amore, rivoltando così d’un sol colpo, proprio nella forza semplice dell’intuizione poetica, secoli di cattivi pensieri su noi e sul cosmo. Non è che anche di questa visione malata di universo, assai poco scientifica (la vera scienza è meraviglia), possiamo finalmente fare un poco di salutare pulizia?

Urge rilanciare il lavoro poetico verso una nuova cosmologia, che apra finalmente ad un altro universo. Urge comprendere (e far comprendere) come la visione cartesiana meccanicistica del cosmo sia definitivamente superata, perché intollerabilmente semplicistica. Troppo ingessata nella cultura sette-ottocentesca per poter trattenere nelle sue maglie la complessità viva e pulsante del reale, quale oggi appare e già da tempo – in realtà – appariva agli animi più avvertiti, come i veri poeti.

Scrivono Boff e Hataway, che l’umanità si è in genere considerata parte di un cosmo vivente intriso di spirito, un mondo dotato di una specie di incanto. Una percezione che offre quel caldo, quel riparo che permette all’uomo di conoscere, e di creare. Afferma poi Morris Barman che il rovesciamento completo di questa percezione avvenuto appena quattrocento anni fa ha distrutto la continuità dell’esperienza umana e l’integrità della sua psiche. Ha quasi distrutto il pianeta. L’unica speranza, o almeno così mi pare, è in un re-incantamento del mondo.

L’unica speranza contro questi processi di alienazione, è lavorare insieme, poeti e scienziati, a questo re-incantamento, imboccando una direzione ostinata e contraria rispetto a quel framework che vuole ogni cosa ridotta a merce, ad oggetto di consumo. Il tempo è ora. Le cose necessarie sono poche, la voglia di capire e la voglia di creare. Scienza e poesia, appunto. Unite, in una comune percezione di meraviglia.

Contributo pubblicato sul numero di settembre 2024 di Frascati Poesia Magazine

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