Un titolo impegnativo, perché mi rimanda subito ad un album del 1990, un album di un grande, indimenticabile autore italiano. Però non è di tali nuvole che vorrei scrivere, adesso.

Per noi le nuvole, ordinariamente, sono quelle che vediamo da Terra. Difficilmente potremmo perderci nell’idea di nuvole visibili su altri pianeti. Ci avete mai pensato, a come si vedono le nuvole da Mercurio, da Venere? Forse mai. Bene, tutto normale. Perché non siamo abituati, non siamo ancora abituati, all’idea di una pluralità di mondi, come le evidenze sempre crescenti tuttavia sembrano indicare: al momento in cui scrivo, gli esopianeti conosciuti, sono 7360. Quando leggerete (specialmente se arrivate all’articolo con qualche giorno di ritardo, non parliamo poi di mesi o anni) potrebbero già essere un poco di più.

Se realizziamo che ogni pianeta è in realtà un mondo, un mondo che, come tale, possiede una sua meteorologia (per quanto diversa dalla nostra), cioè può avere dei venti, delle tempeste, ci dobbiamo aprire ad innumerevoli prospettive. A contemplare situazioni anche molto diverse da quella terrestre.

Come si vedono le nuvole. Da Marte. Crediti: NASA, JPL-Caltech, Kevin M. Gill

Come queste nuvole marziane. Vedete come disporre di dati sempre più precisi invita la nostra immaginazione ad allargarsi, non a comprimersi? Vedete come la scienza aiuta la meraviglia, non la insidia mai? Prima, delle nuvole su Marte non potevamo saperne assolutamente nulla. Di più, in realtà: nemmeno ci pensavamo.

Immagini come questa, dunque, ci spingono ad immaginare. E sempre più spavaldamente. Ci spingono a capire che il nostro mondo non è unico, il nostro modo di pensare (che è un mondo esso stesso) non è per forza il solo disponibile. C’è altro, in tutti i sensi. E con quest’altro, grazie all’astronomia, possiamo incominciare a familiarizzare. A dialogarci, a ragionarci.

Non c’è niente che spazza via i pensieri statici, come il ritornare consapevolmente a meditare che c’è un universo multiforme, poliedrico, in perpetua trasformazione, sopra le nostre teste e sotto i nostri piedi. Un cosmo che si espande creando il suo stesso spazio, generando del nuovo in ogni microsecondo che (per noi) passa. Proprio come le nuove, sempre in mutamento, mai uguali, mai statiche. Tanto le nostre quanto quelle su Marte. E su altri pianeti, poi, chissà.

Queste su Marte, come ce le riporta Perseverance, sono diverse da quelle terrestri. I planetologi stanno già cercando di capire perché. Dal canto suo, Perseverance dal 2021 continua a passeggiare per il pianeta rosso, mandandoci immagini interessantissime. E tante, anche: dal sito della missione, cercando le immagini raw (cioè, quelle originali, non elaborate) se ne trovano quasi quattrocentotredicimila. Assolutamente mirabolante: dal sito posso guardare, ammirare, scaricare, delle immagini prese appena ieri, come la foto di copertina di questo articolo (che in sé non ha nuvole, è vero, ma a volte anche i nostri cieli ne sono sgombri – crediti NASA/JPL-Caltech, naturalmente). Cioè, foto acquisite ieri, di un ambiente planetario distante dalla mia zona, in media, circa duecentocinquanta milioni di chilometri. Le foto mi arrivano direttamente nel salotto di casa. O sul tablet, sul telefonino. Con un ritardo temporale veramente irrisorio.

Pensiamoci. Meglio, perdiamoci per qualche istante, in questo pensiero. Questo è oltre quanto qualsiasi autore di fantascienza avrebbe potuto concepire, solo cinquant’anni fa. E questo è per qualcosa, non è vano. Deve essere per qualcosa. In altri termini, tutto questo ha senso solo se è un messaggio, per tutti noi e non solo per gli scienziati. Un messaggio che varia come le nuvole, che ci spinge a diventare più morbidi, più docili, più delicati, più aperti. Che è una faccenda che comporta anche un dolore, una pena.

Lasciare andare a volte (anzi, quasi sempre) è una fatica. Ma una fatica utile, se vogliamo crescere. Ed in questo universo – che crea mentre si espande – crescere in consapevolezza è forse la realizzazione più compiuta del nostro progetto. Il nostro vero compito.

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