Proprio stamattina. Arrivo un po’ prima al Liceo Scientifico Vito Volterra, a Ciampino, per la prima lezione di un PCTO di evoluzione stellare, che devo svolgere in collaborazione con Laura, una collega di istituto.

Giro un poco tra gli edifici, prima che arrivi Chiara, la docente con cui devo interfacciarmi, ho tempo di guardarmi intorno. Sì, io ero rimasto al fatto che si chiamassero alternanza scuola-lavoro dove già si capiva un po’ di cosa si trattasse, ora dobbiamo chiamarli percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento, frase estremamente sofisticata (in cui un po’ mi perdo).

Sono curioso. Questo è la mia scuola e non lo è, allo stesso tempo. E’ la mia scuola perché io ho studiato al Liceo Volterra, proprio questo. Era la fine degli anni Settanta, dunque un po’ di tempo fa. Ovviamente i ricordi sono tantissimi e vivaci, anche dopo tutti questi anni.

Abbiamo appuntamento davanti al bar, così rimango nei pressi. Sorpreso di questa scuola che è la mia e allo stesso tempo, non lo è. Infatti, al tempo, la sede della scuola era un’altra. Dalla storia dell’istituto, ritrovo che l’istituto era situato in Via Gorizia. Ricordo, a conferma di quanto leggo, che ai piani più bassi vi era un istituto d’arte (“Paolo Mercuri”, ricavo dalla medesima pagina).

Quindi è simultaneamente mio e non mio, come se tutto vibrasse tra questi due stati. È mio, il mio liceo, ma non ha niente del mio liceo. Non sono gli ambienti che ricordo. Certo, devo dire che probabilmente è meglio, più ampio, c’è il parcheggio, un bel giardino, la palestra interna, un vero bar. Niente di questo c’era, in Via Gorizia. Pure per la palestra, dovevamo uscire dall’istituto.

E non c’erano le panchine. Non c’era spazio per averle, nessuno ci avrebbe pensato. Proprio queste panchine, eleganti e colorate, nella stradina che passa accanto al BAR, mi sollecitano in modo particolare. Perché due su tre, sono a tema astronomico. La prima che incontro ha addosso una frase di Stephen Hawking, mentre la seconda espone una frase di Margherita Hack (cliccate sulle immagini per leggere più agevolmente).

E capisco che qualcosa è cambiato, in questi anni. Forse è cambiato in meglio. Perché lo studio del cosmo è diventato di più di prima, un patrimonio comune. Il fatto che due scienziati siano finiti sulla panchina, insieme a delle belle opere pittoriche, non penso sia casuale.

Perché ai miei tempi – la dico così, semplice come mi viene, rinunciando per ora a più sofisticate analisi – c’erano tante cose, c’era una sensazione di rivoluzione imminente, di un grosso cambiamento dietro l’angolo. Elettrizzante, devo dire. Non c’era questa attenzione verso il cosmo, non era ancora arrivata nella percezione comune.

Il cielo era misterioso e lontano, soprattutto. E purtroppo inessenziale, per una certa cultura rivoluzionaria a quei tempi così presente (e parimenti inessenziale, nonostante i proclami d’ordinanza, per la cultura che vi si opponeva, in curiosa complicità tra apparenti avversari).

Ora queste due panchine, più di tanti discorsi, mi fanno capire che le cose sono già cambiate. Non c’è stata (ancora?) la rivoluzione – quella classicamente intesa – ma forse si sta preparando il terreno, io spero, per una rivoluzione diversa e più radicale. Più aperta verso il cielo di ogni modello precedente, e per questo – magari – più capace di riuscire davvero, perché coinvolge necessariamente il cuore e non appena la mente razionale – così spesso dominata dall’ego – con i suoi usurati criteri di giusto e sbagliato. Con la sua endemica mancanza di tenerezza, di comprensione e di perdono, verso sé e verso gli altri.

Forse questa rivoluzione – quieta, allegra, pacifica – è già iniziata e non si vede, per ora. Mi dico adesso, forse installare queste panchine è un piccolo atto rivoluzionario. Sicuramente è un atto bello e la bellezza vera (al contrario delle ideologie) è sempre contro lo status quo, è un assaggio di rivoluzione.

C’è anche una terza panchina (l’immagine di apertura di questo post, con una frase di Daniel Pennac). Che unisce la scienza alla letteratura, così che il cerchio si chiude. O meglio, si apre all’infinito, in una serie illimitata di rimandi. Lo spazio è tra le pagine, mi verrebbe da dire, ritornando al gioco di parole che informa la rubrica su Edu INAF.

Così incontro Chiara – sorriso confortante, sguardo luminoso ed attento, modi di chi è presente – e si parla di astronomia e di istruzione, mentre prendiamo il caffè. Così, appena dopo, di spazio si parla per due ore con le ragazze ed i ragazzi di terza. Di magnitudini, colori, stelle lontane e stelle vicine. Di missioni spaziali recenti e di come abbiamo iniziato a capire come funzionano le stelle. Loro prendono appunti, fanno domande. Chi più chi meno, vogliono sapere, del cielo.

Nell’infinito di stelle qualcosa stanotte brilla anche per me
E tutto ha senso, c’è bellezza, spazio
Amore, aria di tenerezza intorno
Forse è un sogno, di quelli che non si perdono
Di quelli a cui la gente crede

Così cantano Mina e Fossati, in una stupenda canzone. Perché le stelle sono per noi, oppure – all’atto pratico – per noi non esistono. E senza stelle, via tutta l’astronomia, via tutto lo studio della meraviglia del cielo. Ed è proprio questo sogno che non si perde, probabilmente, quello che noi tutti stiamo cercando.

Se io stesso ho attraversato i miei anni al Volterra, devo confessarlo, ben poco attento alle questioni delle stelle, forse per loro può essere diverso.

Per queste collaborazioni tra scuola ed Osservatorio, certamente. Per docenti appassionati che non rinunciano a scommettere sui loro allievi, certo. Ma anche, io penso, per qualche panchina colorata, che attende quietamente vicino al bar, che qualcuno si sieda.

Pensando, magari, alle sue stelle. E alle cose che possono cambiare, qui sulla sua – sulla nostra – Terra.

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