Molto bello ed importante il convegno che si è tenuto sabato scorso a Bari, “Vibrazione: colore, luce dell’anima” a cura del gruppo di ricerca e studio Scienza Spiritualità. Una singola giornata, ma davvero piena di occasioni di incontro, confronto e di relazione.

Ho avvertito subito, quasi con gioia, ciò che ho sentito già in altre occasioni. E che mi sembra importante, mi sembra il segno di un’epoca. Un segno da osservare, da rispettare. Lo voglio dire subito, perché è stato come un quieto sottofondo di tutto l’evento, come un telo colorato teso a generare uno spazio amico, libero per tutti: c’è una fame di senso, anche di senso del sacro (cioè, di ciò che conta davvero) che esonda dalla religiosità tradizionale, a volte ne prende le distanze (spesso con molte ragioni, bisogna dire) ma non può e non deve essere emarginata. Anzi è necessario dire le cose eterne in forma nuova, smettere di “adorare le ceneri” (per rubare una frase usata anche dal Papa, del compositore Gustav Mahler, rivoluzionario vero) e osare il nuovo.

Lì finalmente scienza e mistica si abbracciano e si parlano, dialogano amabilmente, come mi è capitato di dialogare amabilmente con persone come Antonella Lumini. Antonella l’avevo incontrata nel convegno di Prato dell’anno scorso, ma qui ci ho potuto parlare a lungo. Ed è stata una occasione molto bella.
Mi dicono gli organizzatori di questo breve convegno, che i posti disponibili si sono riempiti con straordinaria rapidità. E ci credo. Questi laboratori attirano molte persone anche diversamente credenti e diversamente praticanti, affamati di quel senso del sacro e del mistero, che spesso non trovano in una parrocchia. Tutto ciò va custodito e vissuto ed insieme va cercato il nuovo, che comunque dovrà avere robuste radici nella Tradizione, ma vissuta in modo vivo e mai più subita.
Per me in particolare, parlare di luci e colori nel cosmo (come mi era stato chiesto dagli organizzatori) è stato ben più di quanto pensavo, è stata la sorpresa di scoprire come le mie parole e le stesse immagini del cielo, che portavo con me, risuonavano negli altri relatori i quali me le rilanciavano potenziate e più limpide, in un gioco di rimandi che sembra sempre appena iniziato, per quanto è fresco.

E questo è stato reso più facile, più bello, dal fatto che ognuno dei relatori ha portato se stesso e la sua umanità, proiettandola ben oltre le diapositive e le informazioni tecniche, mettendola inevitabilmente – e spesso coraggiosamente – in primo piano. Questo è più semplice, mi dico, in incontri di questo tipo, dove l’intreccio di varie discipline congiura piacevolmente verso un confronto reale, dove l’astrofisico (per menzionare un profilo che un poco conosco…) non può (più) mimetizzarsi tra un nugolo di colleghi – gente che fa la sua stessa cosa con piccole sfumature diverse – ma è l’unico nell’ambiente e si deve mettere in gioco come tale: deve mettere in gioco quello che conosce, nel confronto con gli altri.
E non è tutto qui. Prima ancora, ad essere messa in ballo infatti è la sua concezione del mondo, ciò che crede vero, ciò a cui si aggrappa. Deve verificare e superare le sue barriere, aprendosi a conoscenze diverse dalle proprie e facendo la fatica intellettuale ed emotiva di riconoscerle importanti, di riconoscerne la piena dignità di esistenza. Per me, è stato un viaggio multidimensionale, che dai biofotoni passava a Rudolf Steiner, dalla musica delle piante al canto mistico ebraico, all’effetto delle emozioni sullo stato psicofisico dell’individuo, giusto per fare alcuni esempi. Un viaggio che continua anche ora, perché simili tragitti, una volta iniziati, non si interrompono.
In tale occasioni vivo il paradosso di una fertile incompletezza: quello che io conosco è allo stesso tempo, importante e quasi nullo, rispetto alle conoscenze di altri. Ma questa nullità è feconda, si supera, si stempera con la disponibilità a capire, a imparare. A scambiarsi la conoscenza. A tener per vero che esistono altri modi e altri mondi, oltre il mio modo ed il mio mondo, mondo dentro il quale spesso mi rinchiudo per la volontà malposta di un riparo, di un gioco ristretto. Ma per l’incontro, il piccolo cabotaggio non funziona. O ci si incontra in mare aperto, o non ci si trova affatto. Nel porto, ognuno sta al posto suo, solo al largo le rotte si possono intersecare.
Proprio il non conosciuto, per me quel 95% di cui è fatto l’universo di cui ancora non si sa nulla, è lo svincolo appropriato ed insieme il volano per un incontro dove non ci si difende dietro quello che si crede di sapere, ma si naviga in quel vuoto apparente, in quella zona sospesa, in quella apparente mancanza di colore, che è invece solo lo svuotamento preliminare e necessario perché nuovi giochi si inneschino, perché nuovi saperi fioriscano e nuove connessioni si possano stabilire tra poli apparentemente distanti (ma nulla è distante da nulla, in questo universo morbido che conosce mille modi per coniugare zone che solo per la geometria euclidea, potrebbero apparire lontane).
Così che questo mare, finalmente navigato insieme, appare di mille diversi colori. Colori che hanno fatto da contorno all’evento, nelle meravigliose antiche bocce delle polveri per pittura – salvate (grazie a Miguel) da un antico negozio e ora esposte nella Chiesa – fino ai giochi di rifrangenze e colori delle opere di valenti artisti posti lungo le pareti, che hanno discretamente accompagnato la giornata.

Grazie Elisabetta Pace per l’organizzazione, grazie Enrico Pierangeli, Luigia Pignatelli, Maurizio Benfatto, Miguel Gomez, Fra Mariano Bubbico (ad Enrico e Luigia, un grazie ancora più sentito, per la delicata ma premurosa ospitalità). E gli altri, davvero. Michele Addante, Sergio Molinari, Ferdinando Andò, Piero Fabris, Marialuisa Sabato, Vincenza Spiridione. Siete stati, ognuno nel suo specifico modo, occasioni per me, per imparare e per crescere.
E Bari – bisogna dirlo – Bari è proprio bella.
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