Esiste un motto che è alla base di molta parte delle civiltà occidentale, come la conosciamo. Un motto che assorbiamo fin da bambini, a scuola (o nella vita, senza bisogno nemmeno che ce lo dicano) ed è qualcosa di così semplice, che non ci sogniamo nemmeno di metterlo in discussione. Ci pare, infatti, assolutamente autoevidente. Cogito Ergo sum, in altre parole penso, dunque esisto.
Per l’appunto, sembra qualcosa di semplice, di assodato. Come potrebbe venire in mente di dubitarne? Se penso vuol dire che ci sono. Eccomi qui. Una testa pensante. L’ha detta Cartesio (insigne filosofo e matematico francese, vissuto tra il 1596 ed il 1650) e noi ancora la prendiamo per buona, senza pensarci.
Nemmeno io ci ragiono, usualmente. Di recente, però, mi è capitato di imbattermi – in un arco di tempo ridotto – sia nella frase in sé stessa (collocata in un nuovo contesto), sia in una argomentazioni che, sostanzialmente, la confutano. E quindi mi sono messo a riflettere sulla faccenda, inevitabilmente. D’accordo, a pensare, ma non per questo a dare ragione a Cartesio.
Andiamo con ordine. La frase famosissima chiude una canzone del nuovo album degli Jethro Tull (sì, pare incredibile parlare del nuovo album di una band di rock progressivo che ha fatto la storia), chiamato Curious Ruminant, un bel disco uscito proprio quest’anno (esatto, un disco dei Jethro Tull nel 2025, posso comprendere il vostro stupore). La canzone è proprio quella che dà il titolo all’album, e finisce con i versi…
Dead gone, detached from your reality Pray, think of me kindly anyway In wee hours you peer midst the gath’ring gloom My ghostly whisper, “Cogito, ergo sum”
E’ appena un sussurro, my ghostly wisper, con cui l’io narrante chiude la canzone. Un sussurro angosciato, perché detached from your reality ovvero distaccato dalla tua realtà. Già, ma è proprio questo il punto. Che ci si può rendere conto, ad un certo momento, che la frase di Cartesio sancisce solennemente una terribile solitudine. Quasi, una solitudine cosmica. Ho infatti certezza di esistenza solamente di me stesso, giusto perché mi ritrovo a pensare. Tutto il resto – persone animali mondi pianeti universi – è fuori, è esterno, non mi tocca davvero. Insieme appare una pia aspirazione, in questo schema, in questo quadro. Un sogno, niente di più.
Bisogna dirlo chiaro: questo quadro è cosmologicamente datato, anche se purtroppo ricircola ancora in noi, nelle nostre percezioni, nel nostro usuale sentirsi nel mondo. Questo quadro ha fatto anche molti danni. E’ davvero tempo di lavorare per cambiarlo. Come infatti scrive Claudia Fanti nel suo recente libro, assai interessante, appena uscito per i tipi di Gabrielli Editori, A casa nel cosmo,
è nell’interrelazione, nell’interdipendenza, nella cooperazione (la quale non nega la competizione ma la oltrepassa) che va cercata la realtà costitutiva dell’Universo.
Questo ce lo dice a chiare lettere praticamente tutta la fisica moderna (ecco perché è utile ed interessante occuparsi di fisica, anche se non si è scienziati). Come scrive Carlo Rovelli in Helgoland
Invece di entità indipendenti con proprietà definite, ci sono entità che hanno proprietà e caratteristiche solo rispetto ad altre, e solo quando interagiscono
Che è – capite? – l’esatto contrario di Cartesio! E’ Cartesio rovesciato! Questa formulazione “inversa” mi affascina davvero: qualcosa che non interagisce con altro, non ha proprietà definite. In un certo senso, è come se svanisse, svaporasse. Altro che affermarsi da soli! Da solo, io scompaio, i miei colori si salvano, non esisto. Ecco, da solo non esisto. Ma non è nemmeno necessaria la fisica contemporanea per poterlo affermare. Anche gli autori di canzoni, per dire, lo sanno bene. Lo sà benissimo ad esempio il grande Francesco Guccini, che nella dolcissima e poetica Vorrei (risalente alla fine del secolo scorso) ad un certo punto lo confessa esplicitamente
Perché non sono quando non ci sei
Ecco, di nuovo, Cartesio rovesciato. Perché io “ci sia” è necessario che tu esista. E di più ancora, è necessaria una relazione tra me e te. Cartesio – volente o nolente – pone le basi teoriche per un solipsismo assoluto: la consistenza del reale sono io stesso dunque tutto il resto, alla fine, è fantasia. O se esiste, non coinvolge il livello ontologico, non pertiene alle cose più cogenti. Il filone estremo di questa angosciante linea di pensiero, lo ritrovo espresso magistralmente in una altra canzone (questa, risalente addirittura agli anni Ottanta del secolo passato), stavolta di Franco Battiato, New Frontiers
Le pareti del cervello non hanno più finestre
La frase di Cartesio, detta oggi, ci isola infatti in una miriade di mondi, tra loro lontanissimi (tanto per rimanere nelle suggestioni di Battiato, Mondi Lontanissimi essendo un’altra bella sua canzone). Non è che ce l’ho con Cartesio – anche se, lo ammetto, non mi è particolarmente simpatico – poiché il vero problema è cosa vogliamo sostenere oggi, non quando lui la frase, la formulò. Prima poteva avere un senso, per tante ragioni, come tappa per lo sviluppo storico della coscienza umana. Oggi, reiterarla irriflessivamente è solo pericolosa, velenosa, portatrice di una visione errata. E le visioni errate, in qualche modo, si pagano.
Questa immagine, e quella di copertina, sono state generate tramite Bing Image Creator
Mi pare interessante che la stessa canzone di Battiato, in altro punto, dica che
Uomini innocenti Dagli istinti un po’ bestiali Cercano l’amore dentro i parchi E lungo i viali
Fotografando così impietosamente la fame di relazione che soltanto può crescere, diventare destabilizzante, se ne neghiamo la verità, la ragion d’essere, se facciamo violenza a noi stessi, insistendo a pensarci come individui isolati. Luigi Giussani la definiva la angosciante illusione dell’autonomia, con una felicissima scelta di termini, perché è sia angosciante (come abbiamo ben visto) che anche illusione (non è vera, ma sono portato a crederci, sono tentato di crederci, anche se mi faccio del male).
e caro Mango, che mi combini? Cartesio dice che se penso esisto, e tu pensi… ma ad altro da te? Desideri essere in relazione, anzi dici che è tutto. Si arrabbierebbe il filosofo, non ti pare?
Eppure cavolo, hai ragione, hai ragione tu.
Salto ancora di registro, riprendendo un brano del già citato Luigi Giussani, dal volume – appena edito – Una rivoluzione di sé,
Se io sono in comunione […] il formarsi del giudizio che è all’origine di tutte le mie decisioni ha come humus, come terreno, la comunione stessa. Un giudizio si forma in base a criteri e a sensibilità. Il luogo dei criteri e della sensibilità, dentro cui io formulo il mio giudizio sulle cose, sulla problematica che la vita mi oppone, è la comunione. Si può anche dire che il mio giudizio sulle cose e quindi le mie decisioni nasco-no e si formulano in dialogo con la comunione.
Ovvero, sempre secondo Giussani, la comunione informa la stessa modalità percettiva con la quale mi affaccio alla realtà, al cosmo. Criteri e sensibilità non esistono da sé, non mi sono dati in astratto insieme con il pensiero, ma li derivo se sono in comunione. Rilancia Francesco Cassese (il testo è nel libretto Prendi parte alla gioia del tuo padrone)
Esiste una percezione di sé, una coscienza di sé che non è mai isolata, ma implica l’altro, portandomi a vivere la vita come vocazione. In questa prospettiva, la mia esistenza è intrecciata con quella degli altri, così come la loro è intrecciata con la mia. Tanto che, di fronte a una scelta – un’azione, un cambiamento, persino un trasfe- rimento – anche se non ne ho una percezione immediata, mi trovo a domandarmi: «Cosa direbbe questa persona?» oppure «Questo passo ha a che fare con l’amicizia che stiamo costruendo?». Ecco perché una prima dimensione dell’autocoscienza riguarda profondamente il tema della comunione.
Ora non sviluppo il tema qui accennato della vocazione, che pure sarebbe conseguente (ma ci porterebbe lontano). Dico solo questo: se sono in relazione posso essere, in virtù di questo legame, invitato o chiamato ad un’azione, ad un cammino, ad un destino. Tutte cose che non hanno senso per un individuo isolato la cui unica presunta certezza (che paradossalmente svapora presto nel nulla, come abbiamo visto) è la esistenza di sé stesso.
E se l’uomo non è relazione, allora cos’è? Se lo chiede in un recente (stupendo) articolo sul Corriere della Sera, la scrittrice Susanna Tamaro. E le sue risposte sono tanto perentorie quanto formidabili.
Se l’uomo non è relazione, che cos’è? È disperazione e autodistruzione. Disperazione e autodistruzione su cui i blandi moralismi che vengono sventolati dai media hanno al massimo l’effetto di un panno caldo. È della consolazione che l’uomo ha bisogno, è dell’ascolto, dell’assenza di giudizio, dell’accettazione della propria fragilità, della possibilità di piangere sapendo che qualcuno accoglierà le sue lacrime perché solo queste lacrime possono trasformarsi in un’acqua vivificante.
Ma questo, tutti i mistici – di ogni religione e fuori da ogni religione – l’hanno sempre saputo molto bene. Thich Nhat Hanh, monaco buddista (scomparso nel 2022), scrittore di diversi libri di ampissima diffusione, lo dice assai bene: prendo la seguente citazione dal bellissimo testo di Beatrice Iacopini,Etty Hillesum. Vivere e respirare con l’anima, (Gabrielli editori, 2025). Per inciso, un libro veramente importante, di cui si dovrà certo parlare ancora.
All’occhio di un poeta, non sfugge certo che in questo foglio di carta c’è una nuvola. Senza la nuvola, non c’è pioggia; senza pioggia, gli alberi non crescono; e senza alberi, non si può fare la carta. La nuvola è indispensabile all’esistenza della carta. Se non ci fosse la nuvola, non ci sarebbe nemmeno il foglio di carta. Quindi possiamo dire che la nuvola e la carta inter-sono. Il verbo “inter-essere” non è ancora riportato dal dizionario; ma unendo il prefisso “inter” e il verbo “essere” otteniamo una parola nuova: inter-essere. Se spingiamo più a fondo il nostro sguardo, vedremo nel foglio di carta anche la luce del sole. Senza luce del sole le foreste non crescono. In realtà, senza luce del sole non cresce nulla. Ecco perché in questo foglio di carta splende il sole. La carta e il sole inter-sono. Continuiamo a guardare: ecco il taglialegna che ha abbattuto l’albero e l’ha portato alla cartiera dove lo trasformano in carta. E c’è anche il grano. Sappiamo che il taglialegna deve la sua esistenza al suo pane quotidiano, quindi in questo foglio di carta c’è anche il grano con cui è fatto il pane del taglialegna. E ci sono pure il padre e la madre del taglialegna. Questo modo di guardare ci fa capire che senza tutte queste cose il foglio di carta non esisterebbe. Se andiamo ancora più a fondo, vedremo che nel foglio ci siamo anche noi. Non è difficile capire perché: il foglio di carta, quando lo guardiamo, è un elemento della nostra percezione. La vostra mente è lì dentro, e anche la mia. Quindi si può dire che in questo foglio di carta c’è tutto. Non manca nulla: tempo, spazio, terra, pioggia, minerali, luce del sole, nuvola, fiume, calore. Tutto coesiste in questo foglio. Ecco perché “inter-essere” dovrebbe comparire nei dizionari. “Essere” è inter-essere. Non possiamo essere da soli, per conto nostro. Dobbiamo “inter-essere” con tutto il resto. Questo foglio di carta è perché è tutto il resto […] Questo foglio così sottile racchiude in sé tutto l’universo.
Se una parte contiene il tutto, nessun gioco a dividere, ad isolare, è più possibile. Nessuna particella fondamentale si potrà trovare (e infatti non si trova), ma ci si dovrà arrendere davanti al fatto – testardo come i fatti sanno essere – che la relazione è ciò che di più fondamentale si trova nel mondo fisico. Ma dirlo, appena, è solo l’inizio. Convincersene davvero, farlo entrare sotto pelle, capirlo con il cuore, con il corpo, è un cammino che possiamo fare, volendo (ringraziando Cartesio per quanto di valido ci ha dato ma anche, finalmente, prendendo commiato dalla sua visione del mondo).
Un tal cammino – per quanto non cessi di riservare belle sorprese ad ogni passo – ci appare ancora, realisticamente, molto lungo.