Guest post di Andrea Castellani
Nel novembre del 2002 si è verificata una curiosa coincidenza: una signora novantenne ha regalato  alla famosa rivista “Poetry” cento milioni di dollari per superare le difficoltà finanziarie di questa nuova epoca, soldi che ha ereditato insieme alla casa farmaceutica produttrice del Prozac. “E’ un segno del destino che il denaro speso per antidepressivi sia andato a finanziare la più antica e ignorata delle medicine”, scrive Gramellini su La Stampa (“I versi della nonna”, 20/11/2002). Ma sa anche che, in fondo, la verità è un’altra, come dimostra l’età della fortunata ereditiera: sono sempre loro, gli anziani, a cercare consolazione per una vita che ormai sfugge dal loro controllo. Emblematica la sua conclusione: “Rimane la gioia di vedere tanti vecchi rifugiarsi nella poesia […]. E la rabbia di saperli quasi costretti a scrivere, dal momento che il mondo non li ascolta più.”
Poesia
“Ovunque io vada,vedrò una poesia abbracciarmi” (Adonis)

Già, perché nel mondo del terzo millennio non c’è più spazio per loro, come non ce n’è per la loro poesia…Essi, come la poesia, sono ormai vestigia di un epoca passata, e non possono certo trovare un proprio posto nella società dell’attuale, tanto presa dal presente da dimenticare il passato, e gettarsi senza scrupoli in un futuro che non comprende. Già nel 1975 Montale aveva avvertito le conseguenze di una società in cui i mass media hanno tentato di “annientare ogni possibilità di solitudine e riflessione” (“E’ ancora possibile la poesia?”, Discorso tenuto all’Accademia di Svezia in occasione del Premio Nobel per la poesia), una società ormai dominata da un “esibizionismo isterico” (o.cit.) che poi è l’apparire, non importa il come e il perché, l’illudersi di essere protagonisti dell’interminabile corsa verso un “attuale” in costante mutamento, quindi irraggiungibile. Da allora, credo di poterlo dire con sicurezza, tale processo non ha fatto che accelerare: i conflitti, i governi, le idee e le mode vanno e vengono con la stessa velocità di una hit dell’estate.

In una società così votata all’apparenza della felicità nel nuovo, che ruolo potrà mai avere la poesia? Per lei non c’è più spazio tra le pagine delle maggiori pubblicazioni, né sui principali canali radio-televisivi, né tantomeno nei famosi caffé di una volta, e neppure nelle parole dei nostri idoli, della nostra classe dirigente. Se questa popolarità, questo indiscusso e riconosciuto ruolo di guida sociale è ciò a cui aspira la poesia, allora sì, è morta, forse per sempre. E a poco servirebbe condannarne gli assassini, perché ne saremmo tutti complici, di questo pubblico delitto… e non la farebbe comunque tornare in vita.

Ma forse la poesia non è davvero questo, forse è altro: una “possibilità infinitamente sospesa” (G. Raboni, “La poesia? Si vende ma non si dice”, sul Corriere della Sera, 18/01/2003), un sentimento unico, sfuggente, sorprendente, che alberga in tutti noi, nel profondo. Se la poesia fosse davvero morta, nota giustamente G. Conte (“Ma la poesia non sempre deve essere popolare”, su Il Corriere della Sera, 15/01/2003), “non sarebbe un capitolo della storia umana a chiudersi, ma sarebbe l’umanità stessa a cambiare”. O, per meglio dire, a scomparire: la poesia, a mio avviso, è molto più che forma, molto più che un paio di pagine scritte in versi… è nella musica, vecchia e nuova, nell’arte, nei romanzi, nel cinema, anche nei videogiochi, purchè tutto ciò sia ispirato da veri sentimenti, piuttosto che da analisi di mercato; è insomma nel nostro linguaggio, nelle nostre idee, nei nostri pensieri, è nella vita di tutti i giorni. Senza di essa, non saremmo che macchine. 
Se è questa la poesia, allora non morirà mai. E fa poca differenza il fatto che, rispetto alle epoche passate, abbia perso un suo preciso riconoscimento sociale all’interno di limiti e convenzioni prestabilite, al punto che oggi  l’occasionale evento mediatico “inquina senza scampo quelle privatissime risonanze” (C. Fruttero, “L’indice di Borges”, Tuttolibri, 11 gennaio 2003) che essa produce…anzi, oserei dire, è un bene: di fronte al conformismo sempre più diffuso della società,  forse essa è davvero l’unica cosa che ci resta di inimitabile, insostituibile, personalissimo, e proprio per questo, quindi, universale.

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