Blog di Marco Castellani

Categoria: Arte

Tutte le galassie di Gianfranco Bianchi

Gianfranco Bianchi è nato a Massa nel 1962, abita a Pistoia e dipinge, da diversi anni.

gbianchiProviene da un passato artistico musicale evolutosi dal 2003 con la pittura nella realizzazione di “Veri Falsi d’Autore”. Ho cominciato a dipingere opere originali nel 2009. La principale tecnica usata è il Dripping e le sue opere appartengono alla Corrente Artistica denominata “Espressionismo Astratto”.

Dal 2013 fa parte del Movimento Artistico e Culturale del Metateismo. Gianfranco Bianchi farà una Mostra Personale a Padova dal titolo a noi molto caro: Le Galassie (ecco perché trova il suo spazio qui). Nella mostra “Le Galassie” esporrà 15 opere. L’evento si terrà alla Galleria Maison d’Art di Padova (Via Battisti 77) dal 24 Gennaio al 24 Febbraio 2015.

Per l’interesse che il nostro sito rivolge ai territori di confine tra scienza ed arte, ben volentieri diamo risalto al suo lavoro.  Vi anticipo già che Gianfranco ha accettato di tornare qui di tanto in tanto per presentare alcuni suoi lavori di interesse prettamente astronomico.

GalassiAndromeda

la galassia di Andromeda

Pubblico di seguito degli stralci, rimaneggiati in modo un po’ libero (mi perdoni l’artista!), dalla interessante introduzione al suo catalogo, perché mi pare un bell’esempio di come la sensibilità più nuova ed attenta ormai non possa più trincerarsi dietro una sola tecnica, dietro una sola espressività culturale, ma ricerchi una sua speculare fecondità proprio indulgendo nel territorio  di confine, sperimentando una ibridazione che – seppure ormai non totalmente inedita – ancora aspetta di dispiegare le sue complete potenzialità espressive ed evocative.

Come dice bene in chiusura, l’arte deve comunicare e far pensare. L’immagine artistica di una galassia – ad esempio – è una convoluzione tra il mero dato tecnologico/scientifico con la sensibilità e la interpretazione umana. Ben si presta, pertanto, ad una assimilazione sintetica, laddove la grezza immagine scientifica è ovviamente strumento indispensabile per l’accorta analisi del dato, prezioso tesoro offerto al lavoro paziente dello scienziato. Ma lascio parlare l’artista, adesso:

Se riuscissimo a viaggiare alla velocità della luce impiegheremmo 86 mila anni per arrivare alla Galassia più vicina, 2 milioni e mezzo per arrivare su Andromeda e 13 miliardi per “toccare” la più lontana (ammesso che alla fine del viaggio cosmico essa esista ancora). Questa enorme distanza fra noi e loro ci fa capire bene quanto grande, enorme sia l’Universo (quello conosciuto) e che la Terra è solo un microscopico insignificante puntino visto da lassù (ammesso che  lassù abbiano dei potentissimi telescopi).

PilastriCreazione

I Pilastri della Creazione

Per modellare il cosmo la Natura, attraverso l’esplosione nota come Big Bang, ha distribuito in maniera apparentemente caotica gli ammassi interstellari, creando le condizioni per la vita (non solo nel nostro pianeta ma probabilmente in tanti altri, lontanissimi e irraggiungibili).

Esiste una logica in tutto ciò? E’ stato un evento casuale o un intervento Divino?

Tante sono le domande che la mente si pone, al cospetto dell’infinitamente grande, e ognuno di noi, guardando l’infinito, può cercare di trovare una risposta.

Possiamo anche non porci domande, e semplicemente ammirare la bellezza di queste Galassie, con i loro colori e le loro forme (che spesso assomigliano ad oggetti o animali terrestri).

Tutto questo grazie alle foto fatte dal telescopio spaziale Hubble, che mi sono servite come riferimento per dipingere la mia serie.

TestaDiCavallo

Le nebulosa Testa di Cavallo

Riproducendo su tela queste gigantesche meraviglie ho provato un’emozione intensa: dipingendo ero consapevole che nella realtà non avrei mai potuto vederle da vicino ma contemporaneamente ero lì, a due passi da loro. 

Schizzando il colore sulla tela mi sono sentito come fossi io il Big Bang, come se avessi la capacità di creare l’universo dal nulla. Una sensazione di potenza e di magnificenza.

Vorrei vedere questa  stessa  mia emozione nei volti di chi guarda.

Vorrei far nascere delle discussioni su come è nato l’Universo, sul perché siamo al mondo, su cosa ci riserba il futuro. L’Arte deve saper comunicare e far pensare….

Piccola nota a margine. Non posso trattenermi dal pensare che – sia pure partendo da un altro punto, dal territorio della ricerca – è proprio l’anelito che ci muove qui a GruppoLocale. Al di là del mero dato tecnico – a volte esso stesso portatore di meraviglia e stupore – alla scienza è ormai richiesto di non sottrarsi al suo ruolo di vettore culturale, tanto più valido quanto più la scienza stessa si apre ad un pensiero nuovo, quello dell’incontro oltreconfine (anche perché i confini sono retaggi di un antico modo di pensare e di dividere il mondo) che prelude ad una necessaria e ancora inedita riunificazione culturale.

E’ un sogno, ancora, ma io penso che l’uomo nascente si muoverà in un territorio in cui arte e scienza, filosofia e metafisica, si accorderanno in un unico sapere. Queste opere sono, da come la vedo io, il tentativo importante di segnare un cammino possibile.

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Ripartire dalle emozioni

Sogno un mondo dove
arte e scienza
non sono nemiche o
indifferenti
un mondo dove la poesia
è compagna della fisica
e dell’astronomia
e la biologia e l’arte
vanno a braccetto
e ogni cultura ogni
curiosità e voglia
di sapere 
e di sapersi
è di nuovo unica
di nuovo unita
e pacificata
e l’uomo
è al centro –
le sue emozioni
sono al centro
sono il fulcro
il punto focale
la base e sempre
il ritorno.
Sogno di dedicare
la vita a questo
di vivere
da ora in poi
di vivere
per questo.



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Fare più arte

C’e proprio poco da fare, nei diagrammi a blocchi. Sei abbastanza vincolato, una volta che imbocchi una strada devi percorrerla valutando logicamente le varie domande, regolandoti di conseguenza. Lo vedi bene se sei un po’ in mezzo alla faccenda dei linguaggi di programmazione, ad esempio. Lì spesso la prima cosa da fare, prima di scrivere anche solo una riga di codice (insegnano) è quella di stendere un diagrammi a blocchi.

E questo aiuta. Eh sì, perché la mente tende ad utilizzare un approggio fin troppo analogico, vagando da una all’altra possibilità, inventandosi stadi intermedi, possibilità di decisioni ibride, di non decisioni. La mente è specializzata nel ragionamento dove si spalmano insieme tutte le varie ipotesi; spazia in uno stadio di soluzioni intermedie dove a volte la catena virtuosa che dall’evidenza di uno stato di fatto porta ad una azione, viene drammaticamente depotenziata.

Così anche nell’ambito dell’arte, questo non è certamente meno vero. C’è il rischio di rimanere impastati a dar credito a quella insidiosa vocina che ti dice ma lascia perdere, ma cosa vuoi scrivere tu, proprio tu… (chi conosce la trasmissione radiofonica 610 con Lillo e Greg, potrà ricordare il riuscitissimo schetch del demotivatore, al proposito).

Tutto questo per dire che quando ho visto il diagramma pubblicato da Jeff Goins, nella sua splendida semplicità, mi sono sentito immediatamente colpito. Ho sentito che smascherava tante (mie) strategie procrastinatorie, tanti collaudati apparati generativi di scuse e pretesti.

Non c’è ragione per non fare più arte, ecco il messaggio rivoluzionario (perché non bisogna essere così originali per riconoscere che l’arte è comunque rivoluzionaria, combatte una efficacissima battaglia contro le consuetudini e la vita di superficie, così cara ad ogni potere, di ogni tipo e natura).

MakeMoreArt

Sei un artista se produci arte, a prescindere dalla valutazione che ne puoi dare. Chi è uno scrittore? Uno che vende libri? Che guadagna dalla scrittura? No, è uno che scrive. Semplice. Ma essenziale.

E se non trovo alcun errore logico, devo convenire che la risposta è solo una: fai più arte.

Sii più rivoluzionario. Sii un artista. 

Troppo bello per essere vero? No, affatto. Piuttosto, tanto bello che non può che essere vero.

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Posso grattarvi la schiena?

Oggi è stata la volta di And I’ll Scratch Yours. Che sarebbe, insomma, Vi gratterò la schiena. Ultimo disco di Peter Gabriel, appena uscito.
Cioè.
Come mi faceva notare mio figlio, non è proprio un disco di Peter Gabriel. Il fatto è questo: lui se ne esce con una serie di canzoni nelle quali… non avrebbe proprio fatto nulla! Niente altro che raccogliere e selezionare delle cover per i suoi brani più famosi. Non è da tutti uscire con un album… senza dover avere la preoccupazioni di scrivere una nota.
“Inquietante” fin dalla copertina… 😉
Così anche sul web leggo commenti di gente (giustamente?) un po’ indignata, del resto come accadeva con la prima parte del progetto, quell’iniziale Scratch my Back, quella sbarazzina proposta Grattami la Schiena in cui Peter si esercitava in cover di altri artisti. Gente che diceva e dice (giustamente?) ma quand’è che ti metti a fare nuove canzoni, Peter?
Diciamolo subito. Per me Peter Gabriel è uno che la musica la sa scrivere. E la sa scrivere molto bene. E soprattutto, scrive quella musica che io voglio ascoltare (il resto della musica non mi interessa). E’ uno che mi riesce ad inviare dei segnali davanti ai quali posso andare oltre la semplice percezione estetica di un bello: sono segnali che il mio cuore riconosce e interpreta come particolarmente appropriati e favorevoli a quella comprensione (direi) metafisica del cosmo così sfuggente a parole, così esulante da ogni articolazione verbale, e tuttavia così necessaria. Insomma, il potere dell’arte, possiamo dire. Quelle cose per cui uno – non si sa come – si sente più amico del mondo e di se stesso.
Con tutto ciò ero perplesso anch’io. Ennesima operazione commerciale? Furba trovata di un artista che vive della sua pur meritata fama senza però proporre qualcosa di suo?
L’ascolto dei preview in iTunes mi ha comunque convinto ad acquistarlo. C’era qualcosa… Stamattina l’ho portato alla prova del fuoco, l’ho fatto fluire negli auricolari dell’iPhone mentre correvo al parco. E mi sono deciso. Io amo questo disco. 
Intanto vi sono artisti del calibro di David Birne, Brian Eno, Lou Red, Paul Simon. Ma fosse solo questo, non sarebbe ancora abbastanza. 

La prima impressione è di sorpresa. Le canzoni sono molto diverse dall’originale, sono tutte molto ripensate. Eppure si sente una sorta di rispetto, non sono stravolte. Solo, assumono come un altro colore, risuonano secondo altri rapporti, altre suggestioni. Così pensavo, Peter è come i Beatles (affermazione importante, della quale mi assumo la responsabilità). In qualsiasi salsa lo presenti, è sempre bello. Ne evinco una cosa: il nucleo pulsante, il centro di interesse, è nascosto nella parte più intima della musica, non nell’arrangiamento. Come tale, viene preservato dalle nuove interpretazioni. Brilla, e continua a brillare.
Anzi queste nuove interpretazioni mi destano nuovo interesse. Come se lo stesso nucleo pulsante, illuminato da una luce nuova, potesse finalmente mostrare aspetti diversi, esporre zone finora rimaste in ombra. Facendomi capire che c’è di più, c’è più sugo da estrarre di quanto si poteva pensare nell’ascolto dell’originale.
Come sempre, è correndo che riesco ad ascoltare la musica con maggiore attenzione. Sospetto che sia per quello, che mettendo l’ego da parte – distraendolo con la fatica – io sia libero di attingere con più apertura ad ogni proposta artistica.
C’è come una dominante, nel disco. Mi sembra straordinariamente unitario, come clima musicale, considerato il fatto che è stato realizzato da artisti diversi. I suoni degli strumenti mi arrivano spesso come sgraziati, impastati nei rumori – eppure parlano, parlano di più che se fossero lisci e smussati. Mi fa pensare a com’è la pasta casareccia. E’ ruvida e imperfetta al tatto, ma raccoglie più sugo.
Poi c’è questo. Che dobbiamo entrare nel merito. Lo sappiamo: le canzoni di Peter parlano spesso di una disarmonia, di una distanza, di una estraneità. Come se molte volte dica, beh ragazzi qui c’è qualcosa che non va (perdonate la drastica semplificazione). E il suono di queste canzoni aderisce a questo, fino dalla scelta timbrica. Così ogni aspetto è in relazione all’altro.
Però è quel tipo di attitudine che invece di gravarmi addosso, mi libera. Come uno che abbia l’onestà di dire il suo imbarazzo nella percezione del mondo e dell’uomo così come ce la restituisce l’evo attuale – e fa quello che un artista deve fare: lo esprime.
Ed è per me più liberante più di un disco perfettamente impacchettato e superficialmente sereno (proiezione perfetta dei discorsi da nichilismo divertito di cui parlavo nel post su Lampedusa). Perché pesca nell’ambito delle cose ultime, le più importanti: musica bruckneriana, direi. Non cerca di di-vertirmi, di farmi evadere da me stesso. 
Così è il mistero dell’arte, la vera arte. Il disagio, l’estraneità, la stessa disperazione, vengono innervate di senso e restituite perché noi le si possa meglio elaborare. Consapevoli che ogni percorso di liberazione personale richiede un lavoro, una discesa verso il basso, una accettazione di ogni parte d’ombra.
E l’arte può essere funzionale a questo lavoro. Anzi, la vera arte, lo è sempre stata.

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Arte

Va così, lo sappiamo. Che ti chiedono come va e tu per non dire una bugia, metti la testa di taglio e rispondi così. Lasciando all’interlocutore il compito di immaginare qualcosa tra spazi grigi della tua risposta. Va così.

Poi prendi in mano un libro, un romanzo, o delle poesie e ti ci metti dentro per un po’. O nemmeno serve. Già basta che pensi di poterlo fare. E tiri sù il naso dal libro (davvero, o col pensiero) e già ti senti un po’ meno all’angolo, un po’ meno costretto, un po’ meno grigio, un po’ meno sballottato dagli eventi. Anche se intorno non è cambiato niente. O forse sì, è cambiato tutto perché vedi tutto con un po’ più di speranza (con buona pace di chi dice che la letteratura è evasione).

Embrace Art | 078/365
Mike Hiatt, su Flickr, licenza CC
Così ti accorgi che la letteratura è qualcosa di speciale. Che tutta l’arte lo è. E’ quando sei stretto dalle circostanze, dopotutto, che vieni più vicino a quello che conta. Che non ti puoi permettere di girare largo, di stare giorni o settimane a soppesare: devi prendere forza da quello che capisci sia più vero, e devi farlo presto. Così capisci che la letteratura, la poesia, non sono cose da aggiungere, da mettere sopra a qualcos’altro di essenziale. Non sono sforzi di conoscenze da esibire al momento giusto. Tipo, qualcosa che uno mette lì come orpello culturale. No, niente affatto. Almeno per te non è così. E’ una cosa necessaria, indispensabile. Dunque rozza e semplice e nuda, come ogni cosa necessaria. Necessaria al cammino per la ricerca di senso.

Così come lo scrittore può aver sudato sangue, aver studiato come un matto, per riuscire a rompere i formalismi e arrivare all’arte e alla sua semplicità. Per arrivare a m’illumino d’immenso di Ungaretti. Che tu capisci come un lampo tutto quello che c’è dietro, ma che non pesa più, non ostacola. Così ti arriva addosso come una cosa semplice, immediata. Che ti dice qualcosa, che ti parla in un modo che dici, soltanto dici, finalmente.

Semplice. L’arte vera sembra aver rimosso ogni cosa inutilmente complessa, per guadagnare un linguaggio e una modalità espressiva che semplicemente parla un linguaggio che coinvolge pensieri e sentimenti, umori e sensazioni. La complessità rimane allora, sospetti, un luogo privilegiato soltanto della pseudoarte. L’arte è semplice. La quarta sinfonia di Brahm è giocata su questi gruppi di quattro note, semplici semplici (vi sono canzonette, penso, anche più complicate). Ed è straordinaria, lo sappiamo. Ma gli esempi sono infiniti.

Il punto è questo. C’è come una nebbia che finalmente si alza, quando trovi un romanzo che ti aggancia, quando ti imbatti in un parlare poetico che risuona nelle tue corde, che si fa spazio dentro di te. Quando ascolti una musica che scende direttamente al cuore. Quando ammiri un dipinto che d’improvviso, ti taglia il fiato. Ti guardi intorno ed il reale, ecco, ti sembra finalmente più comprensibile, più decifrabile. La bellezza ha questo mistero in sè, che non ti fa mai fuggire dal mondo. Al contrario, ti aiuta a mettere radici più forti e robuste, nel mondo. Perché accade così, tutto ti scivola via se ti sei dimenticato che esista la bellezza, che possa essere cercata, spiata, domandata, implorata. Desiderata.

Ci sono sensazioni e sfumature di sensazioni e sensazioni articolate e complesse, che tu sai. Nascoste dentro di te. Che pensi che siano tue in maniera strana e quasi imbarazzante. Fino a qui. Fino a quando trovi un brano, una strofa, una immagine, una descrizione in un romanzo… un qualcosa che ricrea questa tua sensazione, che aderisce all’involucro di essa, si congiunge alla tua necessità espressiva, in maniera totale, imprevista, indicibilmente precisa. Così adesso questa tua sensazione non è solo tua, è come se si fosse allargato uno spazio sociale, dove sei in condivisione con altre persone, dove sei meno solo in questo sentire. Dove questo sentire acquista dignità e sicurezza, e tu rientri in gioco come attore di questo stupore sottotraccia alle cose, che le cose hanno più di quanto sembra, di quanto si misura.

L’arte ti fa riconcilare con l’idea di una compiutezza totale, sopra e oltre la frammentarietà che percepisci dolorosamente ogni giorno. L’idea di tale compiutezza appaga il cuore e alimenta la speranza. Così grande, così spaventosamente necessario, il compito dell’arte. E dell’artista.

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Creare qualcosa

Ragionavo nel post precedente sul fatto che cercare di comprimere la musica dentro degli steccati, delle articolazioni di genere, ha una rilevanza limitata. D’altra parte, la musica è così. L’arte è così. Si fa una gerarchia di valori, ma è soltanto per comodità. Poi ti imbatti in quel pezzo di quel compositore minore e ti sorprendi di come ti si avvolge addosso, sembra fatto per te. Potresti averlo fatto tu. Anzi, vorresti. 

Ed eccoci arrivati a toccare un tasto importante. Il motivo per cui creare qualcosa, per cui osare creare qualcosa ha molto a che vedere con questo, da come la vedo io. Prendiamo lo scrivere, ad esempio. Scrivi perché vorresti leggere una certa cosa e non la trovi. Certo, ne trovi a milioni, di cose, a miliardi. Ma non esattamente quella: con quel bilancio di colori, sensazioni, con quella esatta visione del mondo, con quell’impasto di attitudini, distanze, relazioni, esitazioni, che ti senti in fondo al cuore. 
Così scrivi e provi a portare a galla il tuo mondo. E la prima impressione può essere devastante. Il tuo mondo vien fuori ma ecco, è molto meno screziato, articolato, complesso, ambivalente, di come   pensi che debba essere, di come sai che deve essere. 

writing like the wind
Writing like the wind, foto di snigl3t

Il punto è questo. Pensavi di essere arrivato ed invece sei appena partito. Sei partito per una meravigliosa e drammatica avventura. Perché devi acquisire gli strumenti tecnici, devi fidarti, devi capire che a scrivere si può imparare. Che quello che hai dentro è un tesoro, ma per esprimerlo devi applicarti, devi lavorare. Il lavoro è quello di continuare a pescare dentro di sè, ascoltarsi, allevare la propria voce. E intanto acquisire gli strumenti per esprimerla. Quindi è un allargamento: verso l’interno (ricettività) e verso l’esterno (la tecnica, il mestiere). 
Mi viene da pensare, come una traiettoria spirituale. Lo spalancarsi di una ricerca, che diventa sempre più vasta e intrigante quando ti accorgi dell’incontro con una corrispondenza.

L’importante non è arrivare subito, ma rimanere in viaggio.

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Ciò che rende uomo l’uomo

Lo dico. Mi sembra a volte di giocare in posizione di difesa. Giocare troppo corto, anche quando non ce ne sarebbe bisogno. Quando la partita non è messa male, non ci sarebbe necessità di arroccarsi. Catenaccio completamente inutile, direbbe il cronista. Perché mettere i gomiti davanti? Ricadere nel pensare gli altri come soluzione dei propri problemi? Pretenderla dagli altri, la soluzione?
Non mi è concesso più, di relegarti i miei casini
Mi butto dentro, vada come vada
(Lorenzo Cherubini, Mezzogiorno)
Dice bene Lorenzo. C’è come un’aria velenosa di rinuncia preventiva, un’idea di rimanere sul solito percorso, magari giudicandolo insoddisfacente ma non facendo davvero nulla per cambiarlo.

S’è avvolto nelle tenebre il mondo, non temere.
Non credere durevole tutto ciò ch’è oscuro.
Sei vicino ai piaceri, amico, alle valli, ai fiori:
osa, non ti fermare. Ecco, già sorge l’alba!

(Costantino Kavafis)

Ecco, la vita è lì, variegata ed imprevedibile in ogni istante. Colorata e multiforme. Sono i pensieri a bassa energia che ci trattengono. Sono tutto questo. Ecco. I pensieri a bassa energia, i pensieri stinti, sono la vera volgarità: sono tutto il contrario dell’arte.

Che c’entra ora l’arte?

Secondo me c’entra, eccome. L’arte è come la testimonianza impudica che una felicità concreta esiste e si allarga nel tempo. Io penso che il mondo abbia sempre avuto una grande necessità dell’espressione artistica. 

Sei qui. Io smaniavo, ti volevo.
Sei ventata d’aria fresca sul cervello incendio di passione.

Sembrano versi moderni, più moderni anche di Kavafis. Io li vedo così, vi passa attraverso tutta la tensione del contemporaneo, innervata d’impazienza – ci leggi l’impulsività, la forza della passione. Li vedo passare bene nell’aria di oggi, attraverso le strade, i palazzi, i negozi. La gente che si incrocia, si rincorre, si evita, si cerca.
Sei qui. Io smaniavo, ti volevo.

C’è tutta la rapidità quasi informatica del tratto, la forza che nasce dell’aver assorbito e superato ogni accademia, ogni forma retorica. Il contenuto che detta la forma stessa, l’urgenza espressiva che regna. Il sentimento, così esplicito. Insomma, niente di più attuale. Non dice avrei piacere della tua gentil presenza, oppure come la lontananza tua il cor mi ferisce, no no. Dice  proprio smaniavo, ti volevo.

Come quella incredibile canzone che chiude il primo lato di Abbey Road.

I want you,
I want you so bad.
It’s driving me mad,
It’s driving me mad.

(The Beatles, I Want You)

Insomma, siamo nella modernità. Tu pensi, finalmente l’espressività moderna ha superato ogni convenzione, si è affrancata dalle sovrastrutture formali. Pensi finalmente insomma.

Poi scopri che questi versi proprio modernissimi no, non lo sono. Sono di Saffo, una poetessa greca che scriveva circa seicento anni prima di Cristo. 
Allora questi versi, che si agganciano così bene agli scenari di palazzi, strade, automobili? Non c’è qualcosa di eterno nell’arte, qualcosa che ci ricorda che noi siamo più di un conglomerato di atomi e molecole sapientemente combinati? Per me è così. 
E’ perché Saffo ha scritto questi versi, in un attimo magari, un impulso di un istante, ha voluto fermare una sensazione. E dopo migliaia di anni, migliaia, queste poche parole mi parlano e si allargano nel cuore. Trovano un significato; una corrispondenza. 
La poetessa Saffo
Perché questo riverbero positivo? Azzardo un’idea. La faccio breve, ci sarebbe da scrivere molto di più, arrivarci per gradi. Invece vengo al punto. Perché il positivo? Perché queste persone, scrivendo questi versi, testimoniano – in ogni epoca – di prendere sul serio la propria umanità, di volerle bene. Di volersi bene. 
Hanno cioè mostrato in atto, con l’atto stesso di scrivere, quella che Luigi Giussani chiama una coscienza tenera e appassionata di sè. Tutto il contrario rispetto alla tentazione della trascuratezza, di cui si parlava all’inizio del post.
Prendere sul serio la propria umanità è la chiave per aprirsi, mettersi in gioco, lanciarsi finalmente alla ricerca del significato. Di una Presenza innamorata di noi.

“Non sarebbe possibile rendersi conto pienamente di che cosa voglia dire Gesù Cristo se prima non ci si rendesse ben conto della natura di quel dinamismo che rende uomo l’uomo. Cristo infatti si pone come risposta a ciò che sono “io” e solo una presa di coscienza attenta e anche tenera e appassionata di me stesso mi può spalancare e disporre a riconoscere, ad ammirare, a ringraziare, a vivere Cristo.”

(L. Giussani, All’origine della pretesa cristiana, citato qui)
Penso sia impossibile essere artisti senza aprirsi, mettersi in gioco, assecondare la natura di questo dinamismo. Non sto parlando di artisti cristiani, sto parlando di artisti. Del movimento primigenio fondamentale che mette in gioco l’arte, questa incredibile connessione tra i millenni. Figlio di quel dinamismo che rende uomo l’uomo. 
Così la vita entra nelle parole. E le parole trattengono la vita e tu ne vieni a contatto, anche dopo migliaia di anni.
Perché la vita entra nelle parole
come il mare in una nave…
(Luis Garcìa Montero)
Ciò che fa sì che mi possa rivestire dei versi dei poeti come uno strato intermedio tra me e l’esterno, come una possibilità più morbida di vivere il reale. Per essere più umano. Più vicino al cuore.

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Un quadro, del settantatré

Domenica pomeriggio, mettiamo su i quadri. Sono appoggiati in camera da letto da una vita, ormai. Su quel carrello ormai vecchio e rovinato, che dobbiamo buttare. Scomoda, come sistemazione. Anche perché c’è il fatto che se ti alzi di notte per andare in bagno ci puoi sbattere contro (succede, succede…).   A dire la verità, niente come l’iPod Touch – o roba simile –  per muoversi a mò di felino a notte alta con un minimo di luce (se poi non ti riviene sonno, puoi leggere qualcosa o controllare la posta… anche se, chi ti scrive a quell’ora di notte?)
Ma sto divagando…Torniamo ai quadri. E’ incredibile come cambia l’aspetto della casa mettendo due o tre quadri appena. Io e Paola li prendiamo uno alla volta, li puliamo, cerchiamo di capire dove stanno meglio. Ne giro uno, fatto da mio nonno materno (dipingeva per hobby, ma dipingeva bene, secondo me). Vedo la firma e la data. Aldo Poli. Settembre 1973. 

Faccio un rapido conto, e mi colpisce una coincidenza. Mio nonno lo dipinse quando io avevo l’età di Agnese, la nostra bimba più piccola. Quante ne ha viste passare quel quadro! E ancora è lì, ancora svolge la sua funzione. E’ ancora bello. Ancora mi trasporta indietro, mi fa pensare all’infanzia, al nonno. E’ un bel quadro. Ma anche se non lo fosse, sarebbe lo stesso importante, per me. Per la mia famiglia.
Dipingere
Il fatto di creare ha qualcosa dentro, un mistero che non puoi esaurire, comprendere. Spesso ragiono – nel giudicare i miei tentativi letterari-  per categorie semplificate; o una cosa è pienamente riuscita, è un’opera d’arte, diciamo, o non lo è. E se non lo è quasi non si capisce perché uno abbia perso tempo, magari molto tempo, per realizzarla. 
Però questo ragionamento semplificato manca diversi punti. Uno è che creare di per sè è un’attività terapeutica d’eccellenza. Seguendo la spinta interiore a creare capisco meglio il mondo e me stesso, mi muovo verso un equilibrio, affermo la positività ultima del reale (anche se scrivo una tragedia… se sto scrivendo di per sè è come se dicessi vale la pena). Reprimere un impulso a creare non fa mai bene alla salute. A prescindere dal “valore” di quello che riesci a creare. Il secondo punto è che – sappiamo bene – tra il capolavoro e il tentativo da buttare esiste uno spettro larghissimo di possibilità; il mondo è sempre più vario e sorprendente di come riusciamo ad immaginarlo. 
Inoltre dimentichiamo spesso che dietro tantissimo capolavori c’è il lavoro paziente e tenace, ci sono tanti tentativi parzialmente riusciti, che dunque acquistano un loro specifico valore, come può essere la strada che conduce (in un tempo e in un modo non deciso da noi) alla realizzazione di sè.
Assecondare la propria vocazione, mi sembra analogo ad accettare di stare su una strada, di rimanere in un cammino, di cui magari vedi appena pochi metri avanti. Ci sono tante curve, non vedi oltre la prima. A volte ci può essere nebbia. O ti trovi a percorrere una selva oscura, magari. Sei inquieto o triste o insoddisfatto, forse non sai nemmeno perché. Non per questo, devi smettere di camminare: “Guarda che dopo splende il sole; sei dentro l’onda, ma poi sbuchi fuori e c’è il sole” (Luigi Giussani). 
Non per le difficoltà, il tuo diventa meno ragionevole. 

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