Blog di Marco Castellani

Categoria: bellezza

Terrorismo (e ortofrutta)

Devo dirlo, devo ammetterlo. Sono (quasi) stato un terrorista.
E non una. Ma tante, tante volte.
Non nel senso punibile dalla legge, probabilmente. Ma certamente nel senso di ammalato di terrore, nel senso di un incredibile impoverimento interno che poi porta comunque a questo: ad aspettarsi che la vita (tua, o degli altri) cambi non per un lento e fiducioso lavoro, ma per un gesto, un avvenimento eclatante, roboante.
Mi direte magari che non è terrorismo, in senso proprio. Eppure è già qualcosa di vicino, è già un avvicinamento ad un certo ordine di idee.
Quello opposto, esattamente opposto, alla bellezza, alla poesia.
Così in questa alternanza di governi che si contendono la mia anima, molte volte ho fatto il favore della parte sbagliata. Tutte le volte che ho smesso di stupirmi per il fiorire di evidenze e di piccola ma tenace poesia del quotidiano che accadeva intorno.
Per rimanere nel concreto, nella vita quotidiana: tutte le volte che sono passato vicino ad un banco di ortofrutta, e ho rinunciato a stupirmi per la panoplìa di colori e profumi che mi era liberamente posta davanti, scegliendo magari di seguire qualche filo di pensieri — certamente più grigio e meno imprevedibile.
Insomma, avete capito. Tutte le volte che ho smesso di guardare.
Di mantenere un contatto aperto con la stupenda non linearità del mondo e mi sono lasciato sedurre dalla linearità malata del pensiero interno (malata sempre, quando non guarda).
Certo non la sto facendo semplice. Non auspico una maggiore frequentazione di banchi ortofrutticoli come soluzione al regime del terrore, che quest’onda di nichilismo efferato (mascherato da guerre tra religioni) sta tentando di imporre al mondo e prima ancora alle nostre coscienze, no.
Il problema è complesso e va affrontato in modo completo, di certo.
Dico solo questo, dico appena che nella lotta ad ogni regime del terrore, ad ogni impalcatura organizzata di violenza, l’educazione alla bellezza non può essere lasciata da parte. Mai.
Perché i demoni non odiano semplicemente il bello — di più: non lo sopportano.
Perché è la via di accesso ad un altro ordine mondiale.
Quello della vita.

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Take five (Lucio sei grande)

Di solito uno non ci pensa. Fa le sue cose e non ci pensa. Se gli dici, ma hai presente che ci sono gli ultimi cinque album di Lucio Battisti? Hai presente la bellezza? Quello magari ti guarda strano, non è che capisca bene. Ti dice, ho le bollette da pagare, devo passare dal commercialista o – peggio ancora – devo andare dal dentista. Devo accudire un mio parente anziano, ho la macchina in panne. Mia moglie non mi capisce. Cosa mi importa degli ultimi cinque album di Battisti adesso?

Io pure risponderei così, a prima botta (o qualcosa di simile, ci siamo capiti).

E’ proprio questo il guaio.

Che la gente non si accorge che c’è la bellezza, in giro. Non vi attinge, nei momenti di difficoltà. C’è questa dannatissima idea che uno per attingere alla bellezza deve aver sistemato tutto, deve star bene e a posto, rilassato e ben nutrito, deve aver messo a posto tutti i desideri e gli istinti. Poi pensiamo alla bellezza. Devastante, devastante.

No, è che anch’io in fondo sono così, è per questo che è devastante. Altrimenti erano problemi vostri, e pace. 

Prendiamo Lucio. Gli ultimi anni sono quelli della collaborazione con Panella, e della sperimentazione sonora. Don Giovanni, L’apparenza, La sposa occidentale, Cosa succederà alla ragazza, Hegel. Dal 1986 al 1994. Posto che sono dei capolavori ancora in larga parte non assimilati (dopo tutti questi anni!), ecco che si pone il problema. 

600px Lucio Battisti Hegel svg

L’ultimo lavoro. “E” sta forse per End. La fine. O forse un inizio nuovo…

Per me questi lavori trasudano bellezza. Anche a distanza di anni, quasi dieci dall’ultimo lavoro (che stavo riascoltando in questi giorni), c’è qualcosa di coraggioso e di sublime che attraversa anche i brani meno riusciti. Ma chi glielo ha fatto fare? Chi? Prendiamo il Battisti di Una giornata uggiosa (1980). Fama, riconoscimenti, soldi. Un percorso collaudato. Con un paroliere d’eccezione come Mogol, tra l’altro. E che ti succede? 

Che si cambia. E già (che – detto tra noi – non ho ancora ascoltato, ma confido che questo non indebolisca la mia tesi)  è il manifesto del cambiamento.

Scrivi il tuo nome su qualcosa che vale, mostra a te stesso che non sei un vegetale. E per dimostrare che si può cambiare, sposta il confine di ciò che è normale. Bella giornata è questa qua, l’aria più fresca ti esalta già, il momento migliore per cominciare un’altra vita, un altro stile (Scrivi il tuo nome)

Così cambia tutto. Si prendono nuovi rischi, si fanno nuove scelte. Nuove collaborazioni, nuove sonorità. Nuovi testi: poetici, preziosi. E inizia l’avventura straordinaria. Ora mi permetto una digressione: la musica attuale è così tristemente immediata nella melodia e nelle parole. Soddisfazione immediata, o cambi pezzo (o stazione radio, o file mp3). Al primo ascolto hai capito tutto. Non c’è un rapporto da approfondire, se non va cambi. Poi ti stufi, e cambi. Un dongiovannesco sfrenato. Un libertinaggio forzoso (neanche deliberatamente scelto). 

Qui c’è di entusiasmante che al primo ascolto non capisci nulla. Nemmeno riesci ad arrivare alla fine del disco (quasi come con Amarok, ma questa è un’altra storia). Poi riparti, e ti inizia ad entrare in testa un passaggio, una sequenza di parole. Vorrei segnalare questo fatto, vorrei avvisare: le sequenze di parole di uno qualsiasi di questi album ti possono ricorcolare in testa a distanza di settimane, mesi. Anni. Ok, non le riesci a spremere tutte subito. Non come le altre canzoni, scarti, mangi, digerisci e ciao. Una botta e via, amici come prima, non mi ti filo più, chi si è visto si è visto.

Qui invece ti ricircolano dentro, ci pensi quando meno te lo aspetti. E estrai nuovo succo, quando meno te lo aspetti.  E’ più un matrimonio che una avventura occasionale. E’ il rapporto con una sposa non con una amante. Del resto,. non è una cosa nuova, non è invenzione di  Lucio (meglio, della somma arte Panella, il paroliere). Si chiama in termini semplici, si chiama poesia.

La sposa occidentale che sembra quasi ridere / e invece lei respira, / quasi piangere, ma gira / dall’altra parte il viso, ma ritorna / portando sue notizie inaspettate; / amando tutto ciò che adora, / chiama con nomi fittizi le cose: /così, semmai, le rose / son spasimi, per ora. (La sposa occidentale)

Poi l’ultima canzone dell’ultimo discoLa voce del viso. La bocca.  E’ come se riassumesse tutta la poetica dei cinque dischi, ma in fondo di tutto Battisti. L’elogio commosso e stupefatto della bellezza. Più che elogio: il tributo. La bellezza che addolcisce il mondo, la vita quotidiana. La bellezza che nelle canzoni prende le sembianze dolci della donna, della ragazza. Seguita e indagata con una sorta di divertita tenerezza, e insieme di sbigottimento davanti al mistero. Al mistero di qualcosa che non si può spiegare compiutamente, in parole umane. 

Quest’opera sensibile: 

il tuo volto che si manifesta ed è 

oltre l’ordine della natura.

Il primato del principio del piacere sulla fredda razionalità. E’ paradossale perché spesso l’ultimo Battisti viene etichettato frettolosamente come cerebrale e invece secondo me non c’è niente di più passionale, di più sanguigno ed insieme di più teneramente appassionato. 

Ti spadroneggia allora il tuo godio, 

disincantato in quanto, 

più è restio al racconto lenitivo, 

al riassunto giulivo. E non è riso appunto 

e non è pianto il tuo perché il racconto è il riso e pianto il suo riassunto. 

Sul viso la sintassi non ha imperio, non ha nessun comando. 

Vado in visibilio qui, non riesco più ad essere distaccato, nemmeno un po’. Ma vi rendete conto? Sul viso la sintassi non ha imperio non ha nessun comando. Vince la bellezza sul razionalismo! Ecco cosa canta Lucio come ultima cosa, cosa ci regala prima di partire.  Vince una Bellezza su tutte le nostre preoccupazioni.

E tanti altri esempi…. per esaurire l’argomento ci vorrebbe un libro. O due. Ma qui illumino per schegge, momenti, impressioni. Epifanie. 

Comunque torno al punto, perdonate la divagazione. Il punto è che uno non ci pensa. Non  ci pensa agli ultimi cinque dischi di Battisti. Dite la verità, quante volte ci avete pensato? Sono tempi dure, dite. Ci sono altri problemi.

E io dico che è proprio il tempo di pensare agli ultimi dischi di Battisti, proprio perché sono tempi duri.

Proprio perché sono tempi duri, ci vuole la bellezza. Ci vuole la poesia.

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La quinta di Mahler, al Parco della Musica

Graditissimo regalo, quello della mamma. Due biglietti per andare a sentire la Quinta sinfonia di Gustav Mahler, al Parco della Musica, diretta da Valery Gergiev. No, dico: la quinta di Mahler! E poi la prima volta che vado all’auditorum, sono curioso… 
Arriviamo ampiamente per tempo: la “nonna Giuliana” non solo ci ha comprato due costosi biglietti di platea, ma ha completato il meraviglioso regalo con l’offerta di un pomeriggio a casa nostra a guardare la prole, mentre siamo via… Impagabile. Io e Paola gironzoliamo dentro il negozio di libri e dischi (per me non c’è quasi niente di più appagante…), mi prendo l’ultimo libro di Andrea De Carlo (ma non sarà mai bello come “Durante”, temo) poi ci permettiamo pure un piccolo aperitivo al bar davanti all’auditorium.

Ma guarda, si sta avvicinando l’ora di entrare, manca poco alle sei.

Le sedie sono di un bel rosso vivo, spiccano nell’ambiente grande ma accogliente, tutto in legno. Sembra in legno anche il soffitto. E’ grande ma non ti senti sperso; il legno dà calore. E bravo Renzo Piano. Seduti aspettiamo l’inizio. Sono molto curioso. La quinta di Mahler, insomma! 
Si abbassano le luci. Entra l’orchestra, poi finalmente il direttore. Parlo a Paola dell’inserto meraviglioso che ci attende prima della metà del primo tempo, lo descrivo come una cosa modernissima quasi da Pink Floyd, tutti i motivi che si intersecano e si sovrappongono, sfasati: in pratica, un frammento di un paio di minuti di meravigliosa complessità (ascoltando mi viene un paralelleo tra la Quinta e Atom Heart Mother dei Pink.. sì, secondo me si potrebbe sviluppare l’idea…).
Grazie anche a te caro Gustav, per questo bel pomeriggio… 
Arrivano le note. Belle, precise, rotonde. Una valanga di sentimenti tra l’antico e il nuovo, tra la nostalgia per una tradizione grandissima e le irrequietezze sperimentali di nuove forme. Il secolo ventesimo appena cominciato, un linguaggio nuovo. Ogni motivo tematico viene enunciato e immediatamente straniato, stirato, contrapposto ad un altro, in un tappeto di suoni geniale e modernamente inquieto. Ma a differenza di tanta “modernità” altrove ostentata, qui la bellezza c’è. C’è una bellezza e un desiderio di infinito, che cerca e sperimenta forme nuove. La senti, questa bellezza che si veste di abiti nuovi, ti rimane addosso quando anche le note – dopo un’ora e un quarto – finiscono, dopo gli applausi al bravissimo direttore, agli orchestrali (alcuni dei quali – buffo pensarlo ora – abbiamo visto arrivare con i loro strumenti, vestiti “casual”, in moto, in autobus…).
Paola che non è “mahleriana” doc (ovvero, malata persa come me, nda), regge bene il concerto. Facciamo dei commenti su dei passaggi “curiosi”, la percussione delle bacchette, il pizzicato dei violini, il primo tempo che ci piace di più a tutti e due. Altro che l’ultrafamoso adagetto…
Un bel pomeriggio. Prima di tornare ci permettiamo un’altre breve sosta al bar. Andiamo via piano, guardando i locali.  Tornando parliamo della gente che abbiamo visto al concerto; dai più giovani ai più “maturi”, tanta gente diversa unita dalla passione per la bellezza. 
E la sete di bellezza è tale, mi accorgo, che il cuore sempre gioisce, quando poco poco si prova a soddisfarla… 

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