Il risveglio dell’umano

E’ uscito venerdì scorso (per ora soltanto in formato ebook) il nuovo libro di Julián Carrón, Il risveglio dell’umano (BUR Rizzoli). Il testo è una conversazione del teologo spagnolo con il giornalista Alberto Savorana. A tema, come ci si potrebbe attendere, la presente emergenza sanitaria e le sfide che questa comporta nelle vite personali di ognuno.
Una lettura semplice (ma non banale) che finalmente, al di là delle cifre sui guariti e sui deceduti che ci viene fornita quotidianamente con precisione esasperante, aiuta nel cammino di trovare un senso a quello che sta accadendo. Cosa ancora più importante, un senso personale. Un significato non “precotto” o fornito intellettualmente, peraltro.
E’ piuttosto un significato che richiede, in ogni persona che accolga la sfida, una postura attiva e non meramente recettiva.

In accordo con la “scuola” dell’Autore (che è alla guida del movimento ecclesiale di Comunione e Liberazione), infatti, il libro è un invito gentile a mettersi all’opera, a mettersi al lavoro nel cammino di scoperta di come questo periodo apparentemente “sospeso” possa essere usato per incamminarsi con più decisione verso la verità di sé.
Niente astratte dottrine, niente regole disincarnate, ma l’attenzione cordiale verso testimoni di una possibile pienezza, verso ogni “segnaletica” di un modo più vero di stare nel reale. Un testo che procede in un dialogo fitto e costante con quanto è stato detto e scritto sulla presente emergenza relativa al Coronavirus (al proposito si apprezza decisamente non solo l’ampiezza ma anche la freschezza dei riferimenti proposti, alcuni così recenti da arrivare alla data del 5 aprile di quest’anno).

L’uomo che si risveglia, si comprende dalla lettura, è l’uomo che riscopre, o meglio ricostruisce con questo lavoro di cesello quotidiano, la propria identità. E torna bene una frase che estrapolo dal libro di Marco Guzzi, Dizionario della lingua inaudita, laddove egli avverte che

Dobbiamo ricostruire la nostra identità, 
capire chi siamo in quanto occidentali,
europei, cristiani e nichilisti. E per fare questo
dobbiamo confrontarci, anche solo culturalmente
e a prescindere da qualunque adesione di fede,
con la novità assoluta della rivelazione cristiana,
su ciò che fa dell’evento di Cristo
l’inizio di una storia nuova sul pianeta.

Non è un libro che cambia la vita, questo di Carrón: è un libro che semmai aiuta a porsi in una strada per cui la vita può cambiare. O meglio, può cambiare la percezione che ne abbiamo, rinegoziando nel profondo le cose che crediamo di sapere. Ed anche – ed è forse il suo valore più denso – può aiutare a scoprire una utilità anche in questo periodo apparentemente “sospeso”. 

Per tutti, non solo per chi lotta in corsia, ma anche per chi deve “semplicemente” rimanere in casa.

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Senza vergogna (grazie al cielo)

Così scrive don Julian Carron nella bella lettera pubblicata sul Corriere di oggi.

“Dio non ha vergogna di noi, della nostra fragilità, delle nostre ferite, del nostro essere sballottati da tutte le parti”

Un Dio così è veramente interessante, è veramente “amabile”. Vale la pena, mi dico, lavorare per togliere dalla mente le altre immagini di Dio e tutte le paure, lasciando entrare questa, risanante e tranquillizzante.

Lasciando che questa “nasca” in noi, trovi dimora, riparo.

Una immagine di Dio che ci può fare compagnia, che se impariamo a fare nostra, a farla entrare dentro di noi, può aiutarci e sostenerci. Nella vita normale, intendo. Ci vuole qualcosa proprio per la vita normale, la vita che viviamo fuori dalle festività. Ci vuole una ripartenza, una diversa esistenza, proprio per quello. Ci vuole un mondo nuovo, esattamente per il mondo ordinario. Mentre camminiamo, ci fermiamo, mangiamo, leggiamo, mentre siamo in un negozio, in un bar, mentre scorre la vita, ecco, ci vuole l’idea di una prospettiva diversa, fragrante, morbida. Su cui fermarsi a pensare e a volte, anche, fermarsi per gioire.

Gioire da fermi, pensando. Pensare in modo morbido e aperto, se da qualche parte c’è una gioia, diventa in qualche modo possibile, ritorna possibile in diversi modi, per l’alba di diversi mondi. Di pianeti che sono lo stesso nostro pianeta ma diversi, anche, e dove c’è vita ma più vita di qui, anche se siamo qui.

Ci vuole un’altra vita, come cantava Franco Battiato tanti anni fa. E così si dicono Anita e la sua mamma, questi giorni, sotto un cielo di stelle di puntini piccoli piccoli luminosi invadenti impertinenti. Lievemente, giocosi.

Lo sappiamo che ci vuole un’altra vita, lo sentiamo tutti che questa, per molti versi, ci sta stretta. Il fatto è che niente, a volte non lo riteniamo possibile. E questo c’entra con le immagini del divino, secondo me, c’entra parecchio, ci si professi credenti o no. Insomma una immagine così di un Dio amico e vicino e che “non ha vergogna” fa piazza pulita di tante incrostazioni mentali, e ci fa ripartire.

Certo la mente è quello che è e le incrostazioni mentali tornano, amano tornare, a volte si trova una via luminosa e viene voglia di dire ma ecco è così! Ci siamo, ci siamo è così! e la vita ordinaria aspetta e vuole riprenderci nelle sue dinamiche e così i pensieri, nei soliti collaudati e un po’ esauriti pensieri.

Ecco perché penso che queste buone notizie sono, possono essere, l’inizio (o la ripresa) di un lavoro, su di sé, e quindi ipso facto  sul mondo, sul cosmo (fin fino alle lontane stelle,sì). Ci si può applicare, siamo lavorabili dice il poeta e filosofo Marco Guzzi, e il fatto che siamo lavorabili è una gran buona notizia, una notizia che spesso ci dimentichiamo. Il lavoro ha alti e bassi e siamo spesso “sballottati da tutte le parti” (almeno io, lo sono), e il fatto che c’è Chi non ha vergogna di questo, ci aiuta e ci intriga,ci incolla di più in questo lavoro, della vita.

Buon Natale!

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L’urto del tempo (ovvero, mai dire mai)

L’argomento è tra i più seri. Forse il più serio, mano mano che uno va avanti con le stagioni, prosegue avanti il suo tragitto, nel trascorrere (comunque) ricco degli anni. E’ così serio (come la religione, il sesso) che si preferisce spesso non parlarne, si riconosce il composto equilibrio di non parlarne proprio. 

Come si fa, insomma, per le cose di cui nessuno ritiene davvero che esista una soluzione, o comunque un modo produttivo per poterle affrontare. Come si fa per le cose che ci piovono addosso e ci lasciano confusi, perplessi, interdetti. Indifesi, anche. Per le quali ognuno mette in campo, personalmente, privatamente, le difese che può, che trova, che gli sembra di trovare al momento. Provvisorie e parziali e discutibili che possano essere, ma intanto (parzialmente) tamponano. Cantava infatti Roberto Vecchioni molti molti anni fa (e lo capisco certamente più adesso che al tempo),

“salvarla con le figurine /salvarla con le patatine / con il rimorso di arrivare / soltanto quando la nave è partita / però salvarsela la vita.”

Insomma, ci sono cose che non riusciamo proprio ad affrontare di petto, dove ci arrabattiamo come si riesce. E del resto, come possiamo biasimarci? Insomma, già è demanding il fatto stesso di vivere, di intessere relazioni, di lavorare (chi può). Figuriamoci a chiedersi una cosa come questa. Figuriamoci.

Chiedersi cosa regge l’urto del tempo è cosa leggera solo per chi sia ancora molto giovane (e non è neanche detto, se la persona in questione è sensibile). Altrimenti è qualcosa, appunto, su cui non si può scherzare. Come detto, non conviene. Se ci penso, quindi, capisco meglio che il titolo di questi che chiamerò brevemente Esercizi (qui tutte le informazioni per capire cosa sono e come entrarvi in contatto), Che cosa regge l’urto del tempo,  è veramente una sfida. E’ proprio qualcosa su cui non sopportiamo risposte retoriche o inconcludenti, su cui non tolleriamo perdite di tempo, giri di belle parole.


La posizione predominante (psichicamente dentro di noi, e statisticamente tra noi) è quella espressa in modo geniale e disincantato da Francesco Guccini nella canzone Farewell, non a caso richiamata esplicitamente da Juliàm Carron durante gli Esercizi. Non si può scavallare rapidamente questa posizione, dobbiamo farci i conti ogni mattina invece. Di più, io diffiderei profondamente di chi la scavalla troppo facilmente, magari con quel meccanismo di spiritual bypassing che purtroppo non porta mai ad una vera crescita dell’individuo.


Possiamo dirlo, possiamo ammetterlo. E’ tremendamente persuasiva la frase di Guccini

Ma ogni storia ha la stessa illusione, sua conclusione, e il peccato fu creder speciale una storia normale…

Qui non c’è più da barare. E’ vero, si esce da questa percezione, se ne può uscire, lo sappiamo tutti. Abbiamo tutti sperimentato momenti in cui questa percezione era vista come falsa. Momenti, dico. Perché certo, viviamo abitualmente così, con una specie di asserzione interiore che gira in background, che avverte “niente può reggere l’urto del tempo”. Cantava anni fa, il Boss, che everybody dies baby it’s a fact. Sembrerebbe una parola tristemente definitiva. Eppure abbiamo tutti sperimentato momenti illuminati in cui sentivamo che questa non è l’ultima parola. Non è il framework conclusivo, quello che comprende tutto.

Ma qui si innesta il cambio, secondo me. Per andare oltre va effettuato un cambio di paradigma. Non basta più elencare concetti, srotolare asserzioni. Non vale più il fatto, capisco una cosa, la faccio mia, procedo oltre. Non è qualcosa che va capito. E’ piuttosto roba che va domandata, che richiede un cambio di atteggiamento. Una nuova attitudine. Qualcosa che ci viene addosso, ci cambia polarizzazione, ma non possiamo afferrarla. Non è questione di circoscriverla in un nostro ambito. E’ una cosa che non possediamo, ma in un certo senso ci possiede.

Insomma, non è a forza di ragionamenti sull’universo, che arriviamo a poter assentire con quella bella, antica canzone di Angelo Branduardi, sentendo anche noi che niente mai perduto va, al centro tornerà. Soprattutto perché si insinui l’idea, l’ipotesi pazzesca (e tremendamente interessante, per chiunque), che quel che c’è di buono in me non andrà perduto. Ecco, questa sarebbe davvero la rivoluzione perpetua, del nostro modo di pensare.

Mi fermo sulla soglia. Ma capisco che è cosa per cui può essere giustificato perfino un lavoro spirituale, nella misura in cui può favorire questa diversa percezione dell’ordine delle cose, dell’ordine del tempo. Qualcosa che ci porti a sussurrare, come trionfo della categoria della possibilità, quel mai dire mai che è anche il titolo di una bella canzone di Ligabue (nota, vi erano tempi in cui non avrei mai pensato di dire la frase intera “una bella canzone di Ligabue”, ma tant’è), che lascia intravedere un modo di vedere le cose, diverso.

Proprio perché l’argomento è oggetto di un lavoro, sempre da rinnovare, non è che me la posso cavare convincendovi (e convincendomi) in maniera dialogica. Sarebbe un inganno. Mi basta di portarci (e portarmi) a dire (quasi vergognandosi, ma dirlo) beh sì, può esserci questa possibilità, sembra pazzesco il più delle volte, ma può esserci. 

E’ anche un lavoro di cesello. Rinunciare alle interpretazioni all’ingrosso dell’universo, la vita, il cosmo, il Mistero, la fede… e abbassarsi a cercare quella struttura fine, quella trama di luce sottile, che a volte abbiamo intravisto tra le cose, negli spazi tra le cose. Come, sottratto al vuoto che fa paura, e consegnata ad un ordine pacifico, benevolo, bello e rassicurante.

Ed anche, come suggeriscono gli Esercizi, in modo cordiale ma preciso, ritrovare dentro sé stessi quel nucleo di valore, quel momento di incontro con qualcosa di luminoso ed armonioso, di qualcosa che vale e che ha incrociato la nostra vita, in un momento, un segmento di tempo. O che può passare o ripassare, in qualunque condizione ci troviamo.

Per questo, non dobbiamo fare nulla. A far da noi su questo, infatti, non siamo buoni.
Possiamo aspettare di intravedere, forse, una soluzione.

Dire che è impossibile, è certo lecito. Ma non sembra ragionevole.

Le sorprese, in fondo, accadono ancora.

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    Senza condizioni?

    Andiamo subito subito al dunque, senza girarci intorno. 

    “Lui mi ama / senza condizioni.”

    Leggo questa frase in una poesia di Marco Guzzi, riproposta proprio in occasione di questa Settimana Santa, e mi rimane addosso. Ci rimango addosso. 
    Il significato che trasporta è dirompente, scardina ogni logica a cui il mio sistema di pensiero si è abituato. Questa frase presa sul serio, forse solo questa (o qualche frase che comunque esprima lo stesso equivalente concetto), può bucare la retorica dei discorsi d’occasione, solo il rilancio di questo perpetuo scandalo di ogni porzione benpensante in noi, questa ingiustizia bellissima. Questo svincolo soave dall’ansia di prestazione, dalle logiche di marcato, dal dare per avere. Avere gratis, furfanti come siamo. Questo è veramente qualcosa che interessa, che ancora desta curiosità.

    Nella radicale delicatezza di una promessa di amore, si salvano le sfumature…
    Avverte Don Giussani, nella frase che è stata posta nel volantone di Pasqua di quest’anno, che io resto quel povero cristo che sono, ma con Cristo sono certo, ricco.
    Se ascolto il mio cuore, sento che è il suo desiderio più grande, più bello e più grande: essere amato senza condizioni. Le cinque parole più belle del mondo. Fatemi una frase più bella di così. Se ci riuscite. Io non riesco. Riprendo la poesia di Marco, perché mi fa respirare, e mi allargo, espando e riprendo le parole antecedenti, anteriori di quella bellissima frase…

    “… posso amarlo senza paura,
    abbandonarmi a Lui, alla Vita,
    con tutto il cuore colmo di speranza,
    perché Lui mi ama
    senza condizioni.”

    Questo è estremamente liberante, a pensarci già zampilla un inizio di gioia, già zampilla una nascosta Pasqua, può zampillare perfino tra le pieghe dolorose di un Venerdì Santo, dei tanti venerdì santi della mia inadeguatezza congenita ( e santa, in qualche modo, perché amata). Già c’è, lo sento. Perbacco! Essere amati senza condizioni è la buona novella, la più buona novella immaginabile. L’unica buona novella che ancora possa sorprenderci, l’unica buona novella in assoluto. L’unica novità perpetuamente più moderna del nostro sentirci moderni.
    Ormai non abbiamo voglia di sentirci dire null’altro. Meno che mai ammonimenti morali. Ma per carità! 
    Non abbiamo che voglia di persone (qualsiasi cosa credano) che ci ricordano  – prima ancora che con le parole, con il volto – la scommessa più alta in gioco, qui ed ora: la scommessa di un amore eterno e invincibile, inarrestabile ed immutabile.

    Questo mette in salvo la mia vita, se ci credo, ammorbidisce le asperità, quando ci credo, e mi apre sempre, quando mi affido, un riposo di mille sfumature tutte da esplorare, da guardare, da accogliere. 

    Come dice Santa Teresina,  tanto amata da Don Giacomo,

    Che importa, mio Gesù, se cado ogni istante, in questo modo vedo la mia fragilità ed è per me un grande guadagno… Voi, in questo modo, vedete ciò che posso fare e sarete così più tentato di prendermi in braccio.

    Essere presi in braccio. Essere amati, sempre e comunque. 
    Custodisco questo pensiero, provo a giocarci un attimo, a nutrirmene.
    No no attento, una parte di me dice no, c’è il trucco, si pretenderà pur qualcosa.
    Devo essere all’altezza, devo cambiare.
    E’ dura questa parte, è incattivita e rabbiosa. Va bene, la lascio essere, non devo essere cattivo con lei, chissà cosa ha sofferto. Che poi lo so, cosa ha sofferto, cosa ho sofferto. Decenni di separazione, di angoscia, di richiesta disperata d’amore, in me. Il vuoto addosso, e un grido d’amore, perfavore amami, ti prego, perfavore salvami.
    Decenni, in me. Millenni, dietro di me, ancora dentro di me.
    Va bene, ci lavoriamo. Dovrò amare anche il mio bisogno d’amore.
    O piuttosto, lo dovrà amare Lui, io non posso. Non riesco, non capisco.
    Capisco che Lui può, è la prova gustosa dell’Onnipotenza.
    Che bello che Lui possa, amare ciò che io non riesco. Dà gusto.
    Così io intanto riposo, avendo affidato a Lui il compito di amarmi.

    Certo. C’è tutto un lavoro che dovrò fare,  che devo fare, di emersione dalla paura, di guarigione. Per capire, per lasciarmi insegnare, per lasciarmi guidare dai maestri, per ambientarmi, mettere casa nell’idea che niente, che non c’è da aver paura, non c’è troppo da aver paura. Ma capirlo con delicatezza, con limpida precisione. Già e non ancora, esattamente.

    Riprendo il pensiero, lo guardo, come un dono.

    Davvero, senza condizioni? Ma come può esserci qualcosa più bello, più bello di così? Quel senza condizioni allora è un proiettile, è un moto di rivoluzione (personale e sociale), è una alleanza mistica di parole, è un soffio, un’idea pazza, santamente pazza, che sgretola millenni di sensi di colpa e inadeguatezza. Ogni volta, ogni giorno, li sgretola di nuovo.
    Se lui mi ama senza condizioni, quando io lo sento,
    io sono il furfante, il brigante più leggero di tutti:
    il più contento.
    Auguri.
    (Questo testo è la rielaborazione di un commento su un post del blog Darsi Pace)

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    Sporcarsi le mani

    Che non si possa vivere senza sporcarsi le mani, è una cosa abbastanza evidente — se non si è troppo prigionieri di schemi ideologici di qualsiasi natura — ed è tuttavia qualcosa che, al tempo stesso, così facile da dimenticare, che (almeno per me) ogni accenno ad una maggiore consapevolezza, è benvenuto e salutare.
    E’ dunque con gratitudine che leggo un accenno all’omelia del 28 marzo di papa Francesco. Perché colpisce nel punto giusto, risana esattamente dove c’è da farlo.

    “Il Signore a ognuno di noi dice: ‘Alzati, prendi la tua vita come sia, bella, brutta come sia, prendila e vai avanti. Non avere paura, vai avanti con la tua barella’. Ma vai avanti! Con quella barella, anche se brutta, ma vai avanti! E’ la tua vita, è la tua gioia. ‘Vuoi guarire?’, prima domanda che oggi ci fa il Signore? ‘Sì, Signore’ — ‘Alzati’”.

    Così è molto bello, davvero molto bello e liberante, questo far piazza pulita di quel pantano melmoso di obiezioni parziali, mezze dette mezze pensate (quasi mai teorizzate compiutamente), tipo ma non sono bravo abbastanza, non sono in grado, oppure sì , ma con calma, devo prima sistemare questa cosa, limare quel difetto, arrivare a quel punto di perfezione, poi certo…

    No, non è così che vanno le cose. Insomma, non è così che funziona l’universo. Così ci dice Francesco, che dell’argomento ne sa più di qualcosa (e credo che dica una cosa qui così importante, in maniera così semplice, da interessare ogni uomo, a prescindere da quel che crede di credere):

    Non avere paura, vai avanti con la tua barella.

    Mi fa bene rileggerlo. Ecco, siamo tutti impastati da questi pensieri, questi propositi di perfezione, che in realtà sono niente altro che erbe infestanti, scorie tossiche per la nostra creatività e la nostra gioia di vivere. Ma ne siamo davvero così impastati che a volte non ce ne rendiamo conto: ci vuole davvero un percorso di liberazione. Concreto, quotidiano.
    Diceva Don Giussani che non bisogna coltivare progetti di perfezione ma guardare in faccia Cristo. Ovvero non guardare sé ma guardare altrove, un Altro, la sorgente del bello e del vero. Comunque guardare fuori da sé, alzare lo sguardo.
    Diceva anche, in Certi di alcune grandi cose,

    Sono diverso da come dovrei essere, ho vergogna, le Sue parole sono ben lontano da quel che faccio io. Lo scarto. Questa è la prima cosa tremenda, che bisogna che avvenga; anzi, prima di qualunque tentativo di coerenza, questa è la suprema coerenza. Qual è la suprema coerenza con Cristo, nel riconoscere Cristo? Che anche se tu sei un mucchio di letame, Cristo è più grande del tuo mucchio di letame…

    Credo che siano parole che investono chiunque, qualsiasi cosa pensi dell’uomo Gesù Cristo, vissuto duemila anni fa in Palestina. Perché non si scappa dalla partita: si creda o no, comunque siamo soggetti a certe dinamiche di vita, che sono sempre quelle. Conoscerle, approfondirle, è parte importante di quel lavoro di ogni giorno, che accomuna uomini di ogni fede e ogni credo.
    Mi dimentico facilmente questa verità elementare. Ogni bilancio che faccio su di me è incompleto, errato, deformato, alienante. Se prescinde da una Sorgente di irradiazione di bene e di gioia, che per la sua stessa esistenza permette una continua (e felice) rinegoziazione del reale, per come lo percepiamo.
    E’ poi quello che si riverbera nella bella canzone di Samuele Bersani, La fortuna che abbiamo. Questo invito a vivere si appoggia alla bella musica e mi ricircola felicemente nelle vene, alleggerendomi di pesi non necessari.


    Le parole sono importanti, diceva Nanni Moretti. Sono tutto. E ogni rivoluzione è anche linguistica.

    Voglio spremere il tubetto fino in fondo
    La fortuna che abbiamo
    Ridipingere con un colore più intenso, meno opaco
    E finalmente indelebile

    Non è ipotizzabile, non è fisico, spremere il tubetto fino in fondo (cosa che in fondo tutti vorremmo) senza sporcarsi le mani (cosa che non vorremmo mai). E’ la dinamica della vita, né più né meno.
    Annotava già Cesare Pavese nel suo diario, “No, non sono pazzi questa gente che si diverte, che gode, che viaggia, che fotte, che combatte — non sono pazzi, tanto è vero che vorremmo farlo anche noi.”

    Il punto è che (solo) se c’è una Presenza amica, se dietro ai miei tentativi parziali e perfettibili esiste uno scenario di benevolenza, di amore incondizionato a me stesso e alla mia povertà creaturale, io posso sempre ricominciare. Posso riprovare, imparare dagli scarti di strada. Che spesso servono per crescere.
    Il punto in fondo è vivere. Come mi ricorda Don Juliàn Carron (Appunti della “Scuola di Comunità” del 22 marzo)

    Il segno è se noi siamo sempre di più coinvolti, se siamo sempre più intensamente implicati nel reale, se abbiamo la voglia di mettere la mani in pasta, senza pretendere che un altro ci dia la soluzione. È questo che potrà veramente far crescere la persona, farla partecipare di quella pienezza che Cristo vuole comunicare all’uomo nella storia. E questo, invece di svilire il cammino, fa sperimentare una tale energia da consentire di entrare nelle pieghe della storia, nella concretezza dei problemi.

    La questione di urgente attualità, per chi crede, è anche redimersi da un concetto sbagliato di cristianesimo, da un modo errato di intenderlo, per il quale la cosa giusta sia porsi fuori dal mondo, o perlomeno contaminarsi il meno possibile.
    Invece io credo che sia esattamente l’opposto. Dobbiamo entrare sempre più nella storia, non cercare di uscirne. Per tornare a Giussani, l’unica condizione per essere sempre e veramente religiosi è vivere sempre intensamente il reale.
    Sporchiamoci le mani. Possiamo farlo, se c’è un destino buono che ci attende. Lì, tra le stelle. Scrive Marco Guzzi in una sua poesia,

    Chiara, te lo prometto, risorgeremo ./ Io, te, mamma, e Gloria e Gabriele/ Rideremo in eterno e un nuovo gioco / Impareremo a vivere tra Sirio / E l’Orsa Maggiore.

    Abbiamo questa barella, sì? Ebbene, portiamocela appresso.
    Camminiamo. Anche zoppicando, saltellando. Le stelle ci aspettano.

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    Vivere, davvero

    A prescindere da tante fredde “battaglie per i diritti”, non so se c’è chi può davvero sentirsi sollevato, da come si è tragicamente conclusa questa triste vicenda del Dj Fabo. Di come una società civile non abbia di meglio da proporre che una uscita anticipata dal gioco a chi soffre un disagio, sia pure un disagio enorme. Credo sia piuttosto un caso in cui perdiamo tutti, a prescindere dalle nostre idee sul fine vita, o sulla vita in generale.
    E in momenti come questi, non ritengo utile dare giudizi, tranciare sentenze. Sarebbe comunque ingannevolmente facile, vivendo in una condizione diversa. No. Non è questo il mio punto.

    Il dolore umano è “sacro”. Ed è una domanda aperta, per tutti.
    Il fatto non è, ancora una volta, quello dividersi per nuovi e vecchi diritti, facendo baccano per giunta in un momento in cui si dovrebbe riflettere, tacere, pregare. Non è ancora cedere alla lusinga della dialettica, dare spago alla nostra inesausta voglia di dividerci, di polemizzare. Di affermare un punto.
    C’è infatti qualcosa di molto più profondo, di una limatura alla legislazione, in un senso o nell’altro. Di più cogente, del fatto che lo stato dica cosa puoi o non puoi fare.
    Il fatto che mi sembra chiaro, è che abbiamo — come società secolarizzata — un fortissimo problema nella comprensione del dolore. Che il dolore abbia un senso, un significato, per la nostra comunanza umana, è quasi come una bestemmia laica, è una cosa che semplicemente non sta in piedi. La vita è sensata se e solo se si vive su un certo standard, altrimenti (detto alla spiccia) è soltanto una fregatura. Questo è il pensiero comune, dietro tantissimi discorsi elaborati o tante speculazioni sui nuovi diritti o sulla autodeterminazione e sulla libertà.

    Paradossalmente, che il dolore abbia senso è una esigenza profonda per tutti, anche di chi in questo momento non soffre, o non soffre a questo livello.

    Io però ho questo problema, che non riesco ad essere felice se non immagino, ipotizzo, se non mendico questo senso del dolore. E una sua misteriosa fecondità, per cui sia utile agli altri, al mondo, alle stelle, all’universo.
    Beninteso, non sto dicendo se io sia o non sia in grado di viverlo, questo senso, in certe condizioni estreme. Non è un discorso di capacità, di bravura. Tanto meno di santità. Sto dicendo che comunque ci sono persone che lo hanno vissuto, e lo vivono, un dolore tremendo, dentro un orizzonte di significato, di senso. E di (misteriosa) fecondità.
    La società che invece si ritrae davanti alla sofferenza, che commercializza perfino l’uscita dalla vita (perché c’è anche, tristemente, questo aspetto di monetizzazione), una società per cui in fondo tutto è mercato, non mi corrisponde — semplicemente, non corrisponde al mio cuore.
    Non giudico, non inveisco contro la secolarizzazione, o la mancanza di ideali, o di spiritualità, o di un qualche generico afflato metafisico (anzi semmai dovrei giudicare me stesso, per quanto così spesso non riesco a trasmettere una speranza che mi è stata trasmessa). Dico solo che non è l’orizzonte che mi fa contento, che mi può far lieto.
    Anche se non sto vivendo un dolore grande, sento asfittico questo clima. Pesa sul mio cuore, mi pesa. Mi duole.
    Io per primo ho bisogno. Ho bisogno di maestri che mi insegnino. Mi insegnino, mi confermino nell’intuizione che la vita è misteriosamente feconda, per ogni Sì che uno pronuncia, che riesce a pronunciare, o a pensare di poter pronunciare.
    Che la libertà (anche verso il proprio destino) non si gioca nell’assenza di legami, ma nel cercare qualcosa cui valga la pena agganciarsi: “col tempo abbiamo scoperto che non basta non avere legami per essere liberi. Oggi noi ci siamo sbarazzati di tutti i vincoli, ma non per questo le persone sono più soddisfatte. Le persone cominciano a rendersi conto che per essere liberi non basta non avere legami. Occorre qualcosa per cui valga la pena usare la libertà. Si tratta di trovare un motivo per il quale valga la pena muoversi, coinvolgersi con qualcuno o con qualcosa” (J. Carron, Intervista a Jotdown)
    Non c’è in fondo cosa più bella e desiderabile (e ricercabile) di questa: che vi sia un senso profondo a tutto.
    Anche — e soprattutto — alla sofferenza.

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    Silenzio (qualcosa riprende a respirare)

    Forse la cosa che più è decisiva, per le nostre sorti e per quelle del mondo, è il silenzio. Dopo fatti come questo, dovrebbe esserlo. E’ sconfortante in un certo modo vedere come i social network si animino nei confronti tra teorie avverse e speculari su come sconfiggere il terrorismo, una volta per tutte. 
    Se allora scrivo qui è soltanto per approfondire questo silenzio, benché appaia paradossale. Cerco parole che non aggrediscano questo silenzio necessario, ma possano accomodarvisi dentro, trovare spazio nella riflessione. Trovare un nido.
    Sgombro il campo da equivoci. Non voglio dire cosa fare. Veramente, il lunedì ci svegliamo tutti allenatori. Questa volta ci siamo destati nientemeno che come esperti di politica internazionale. 
    Quello che so come uomo, quello che sperimento, è l’esigenza di un senso più profondo, di una appartenenza più radicale. Per sconfiggere la paura, esattamente. La paura io la riesco a sconfiggere, a mitigare, soltanto in una relazione. Le forze non le trovo da me stesso: le mie sempre emergenti pretese di autonomia mi lasciano appena sensazioni di impotenza e strascichi di angoscia. La relazione con l’altro (affettiva, terapeutica, spirituale) mi rimette in pista, benché acciaccato. Ancora e di nuovo in corsa per una ipotesi di senso, di significato.

    Cercare una risposta adeguata alla domanda sul significato della nostra vita è l’unico antidoto alla paura che ci assale guardando la televisione in queste ore, è il fondamento che nessun terrore può distruggere

    In questa frase di Juliàn Carròn sento emergere una verità che preme perché io la riconosca. Che io la accolga come ipotesi di lavoro. Nella confusione totale, che ci fa tutti un po’ più infelici e rischia di farci anche diventare più cinici, è quello che sento contenga un punto di partenza reale. Di ripartenza
    Da Parigi, Maddalena scrive “Ho bisogno di capire come stare di fronte a questa realtà che mi è data adesso, in questo momento in cui la mia priorità era riposare. Di una cosa sono certa, che questi fatti mi sono dati da guardare ora, proprio a me che pensavo di starmene tranquilla” 

    Ecco, più che di analisi geopolitiche, ho prima di tutto lo stesso bisogno di questa ragazza, di capire come stare di fronte a questa realtà.
    Riconoscere questo bisogno, riconoscere il mio immenso bisogno di tutto, può essere il mio primo passo, perché il senso si riaffacci sull’orizzonte terso delle cose, nella purezza di un desiderio su cui appoggia il mio cuore. Perché io possa tornare a prendermi cura (di me stesso, delle cose nel mondo, delle cose del mondo)La cura è anche riconoscere che il pensiero ragionante che si concepisce autonomo da tutto (quindi solo) non è palcoscenico neutrale, ma è forse già una scelta di campo, come diceva bene un certo Eugenio Montale già nel 1975:
    Terminare la vita
    tra le stragi e l’orrore 
    è potuto accadere per l’abnorme sviluppo del pensiero
    poiché il pensiero non è mai buono in sé.
    Il pensiero è aberrante per natura. 
    Era frenato un tempo da invisibili Numi, 
    ora gli idoli sono in carne ed ossa
    e hanno appetito.
    Noi siamo il loro cibo. 
    Il peggio dell’orrore è il suo ridicolo.
    Noi crediamo di assistervi imparziali
    o plaudenti e ne siamo la materia stessa.
    La nostra tomba non sarà certo un’ara
    ma il water di chi ha fame ma non testa.

    Non si tratta qui certo di darsi croci addosso, ma di capire cosa possiamo fare per essere più felici. Così Marco Guzzi può scrivere quello che noi tutti spesso dolorosamente avvertiamo, nella vita ordinaria…

    Siamo una civiltà che non ha più la testa. E da tempo ormai. Sballottata tra orrore e pubblicità..

    E vi ritrovo pienamente abitante in queste parole il grido di senso di Maddalena, la domanda accorata di capire come stare di fronte a questa realtà.
    E’ qualcosa di sommesso, a cui fare appello ora. E’ un silenzio che ritorna, che può tornare. Perché questo sangue non sia stato versato per nulla – ora lo dico – dobbiamo essere molto fermi e decisi: dobbiamo riprendere la poesia del mondo. E’ una ipotesi di un ritorno ad un modo diverso di guardare, di respirare. Di vivere, di dormire, di amare.
    Qualcosa è già in opera, per questo, forse. Non si tratta allora di inventare qualcosa, ma di riconoscerlo già operante. Non dobbiamo essere cinici, ma aprici a qualcosa che forse già si muove. Qualcosa che deve essere poetico e risanante insieme. Risanante perché poetico. Chiude sempre Marco il suo intervento su Darsi Pace, con una frase che mi risuona dentro piacevole e delicata come un verso, un anticipo di questa poesia che deve venire, per la quale posso – forse – lavorare…

    Altrove qualcosa di vivo riprende di notte a respirare… 

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    Dopo Parigi…

    A volte nella confusione della grande quantità di rumori, di innumerevoli strategie interpretative di ogni cosa, emergono segnali in fase, segnali concordanti. Che si rinforzano in una sintonia virtuosa, per cui inizi a maturare degli indizi di una possibile certezza. A covare questo senso caldo e inconfessabile di comprensibilità del reale. 

    Può accadere per le piccole cose, per gli affetti personali, e anzi quando accade è un conforto grande. E può accadere per avvenimenti “esterni”, che comunque  si presentano alla coscienza e la interrogano. Chiedono uno schema interpretativo (ultimamente) positivo, aperto e lavorabile.

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    Ecco, ritrovo una confortante unità di accenti, qualcosa che mi rassicura e mi fa pensare di essere sulla strada giusta. Di essere, appena, sulla strada. E’ quello che penso leggendo l’intervento di Julian Carron, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, che interviene sui fatti di Parigi. Sì, perché leggendo non posso fare a meno di ritornare a quello che scrisse “a caldo” Marco Guzzi, proprio all’indomani della strage. Ed è come se leggessi la stessa cosa, appena incarnata in una sensibilità diversa. Come lo stesso oggetto, descritto attraverso due vocabolari, due sistemi di riferimento, differenti solo all’apparenza. Non conflittuali, peraltro: anzi, felicemente complementari.

    E’ quello che mi conforta di più. Prendo dallo scritto di Juliàn Carron,

    Questa situazione storica è un’opportunità eccezionale per tutti: anche per i cristiani. L’Europa può costituire un grande spazio per noi, lo spazio per la testimonianza di una vita cambiata, piena di significato, capace di abbracciare il diverso e di destare la sua umanità con gesti pieni di gratuità. 

    Ritorno allo scritto di Marco, e leggo

    Questo è il tempo della nostra conversione, della conversione dell’Occidente ai propri stessi principi, altrimenti anche libertà, fraternità, e uguaglianza, saranno morte parole, che già infinite volte sono state utilizzate per schiavizzare popoli interi e imporre ingiustizie e stragi in tutto il pianeta, a partire proprio dalla rivoluzione francese e dall’arroganza della sua ragione totalitaria.

    In entrambi gli interventi ricavo questo senso di opportunità, questo leggere attraverso eventi anche dolorosi, tragici, per vedere cosa di positivo possiamo trarre. Perché allo sbigottimento, del tutto comprensibile, non segua l’inattività del cinismo e del freddo disincanto, ma ci si possa mettere in cammino, con una prospettiva buona.

    Apro una parentesi personale. Quando ho iniziato il cammino di Darsi Pace, nell’ottobre dello scorso anno, ho allo stesso tempo dato – inevitabilmente – inizio anche un lavoro di raccolta di evidenze, di concordanze, ho insomma esteso la mia richiesta di unità delle cose e dei punti di vista a tutto ciò che adesso interessa la mia vita. Non è certo una indagine accademica: è piuttosto un lavoro di portata esistenziale, pregnante per la vita quotidiana, per la coscienza di me stesso, al quale non posso sottrarmi. Fa parte del mio lavoro di essere uomo. 

    Questo non so se interessi davvero il lettore, ma è  quanto mi riguarda più da vicino. Del resto, l’osservatore è parte del fenomeno osservato, ci insegna la fisica moderna. E’ inseparabile da esso.  Così che per parlare di come vedo il mondo (in fondo è l’unico argomento valido di un blog) bisogna che parli anche un po’ di come sono io. Oltre a tutto questo, che potrebbe sembrare ovvio, se ne scrivo qui è perché credo che qualche semino di concordanza possa interessare chi non è direttamente implicato in questi cammini, ma sia semplicemente mosso da un desiderio onesto di comprendere, e di stima verso posizioni che – pur con registri espressivi diversi – esprimono pacatamente una interessante sensazione di urgenza.

    C’è qualcosa che ben travalica il senso di appartenenza a questo o quel movimento, la nostra prossimità a questo o quell’ordine di idee.  Che ben si presta ad un confronto in campo aperto, da uomini liberi (libertà che, detto di passaggio, non è in alternativa ad appartenenza, anzi…). Come ben dice Luca Doninelli in un pezzo di pochi giorni fa, “Le prime due volte – una da solo e una in compagnia – l’ho letto perché l’aveva scritto Carrón. La terza volta l’ho letto e basta, e solo in quel momento mi sono accorto della sua importanza.”  

    Il pezzo di Luca è bello, perché schiva lesto le posizioni ideologiche ed astratte, e va piuttosto a cercare l’odore della realtà, con esempi vivi di questa umanità nuova che fa del dialogo il suo strumento espressivo privilegiato e direi quasi irresistibile.

    Leggetelo.

    Così, non dovrei aggiungere altro, se non che scommettere su questa umanità del dialogo, su questa nuova umanità mi pare la prima cosa e comunque la più urgente. Ed è, come dice il sottotitolo del testo di Marco, un progetto politico e spirituale. Ogni progetto ormai è politico e spirituale insieme, ovvero vede come indispensabile premessa ad un lavoro tra gli uomini il lavoro dentro gli uomini, dentro se stessi, nel farsi docili, nel farsi pane, al fremito di uomo nuovo che vuole sbocciare anche in noi.

    Un uomo nuovo, che non si riconosce più negli steccati e negli schieramenti ideologici elaborati nello scorso millennio. Elaborati per separare, per dividere. In ossequio al nostro io belligerante, che si riconosce quando si ritrova in opposizione a qualcuno.

    Sembra assurdo dirlo a ridosso di questi avvenimenti, ma forse possiamo ormai fare un passo in avanti.

    E’ stato detto autorevolmente molti anni fa. E’ stato gettato un seme… “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna…” (Galati 3,28). E’ una prospettiva ancora da far nostra, ancora da far sbocciare, in senso compiuto. Ci viene più facile distinguerci in persone di destra, di sinistra, credenti, atei… così che l’uomo in relazione – che è definito appunto dalla relazione e non dalla separazione – deve ancora sbocciare. 

    Ma i tempi sono prossimi, ormai: le doglie del parto le avvertiamo già.

    Possiamo fare una cosa, intanto. Da subito.

    Possiamo lavorarci.

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