Ormai va così. Da tempo. Ma solo con l’emergenza COVID è diventato veramente chiaro, si è palesato con trasparenza sconvolgente. Adesso è davvero sotto i nostri occhi.
Le architetture informatiche ci permettono qualcosa che ci è sempre stato impossibile, a questo livello. Possiamo ormai soggiornare nella nostra “bolla” e compiacerci in essa, trovare quella risonanza che ci è necessaria quasi come una droga, uno stimolante quotidiano. Quella, esattamente, che tampona la nostra essenziale, costitutiva insicurezza. Ci blindiamo progressivamente in un ambito dove non abbiamo più sorprese, dove dimoriamo al riparo dalle contraddizioni, dove otteniamo solo conferme.
Uscire dalla bolla, almeno ogni tanto? Più gli algoritmi si perfezionano, più diventa difficile… |
Che io stia dimorando dentro una realtà modificata lo comprendo ancora facilmente se sbuco fuori un attimo dalla mia bolla: sì, quella che ho costituito pian piano, scegliendo chi seguire e abbandonando senza troppi problemi, chi la pensa in modo diverso da me. Molto praticamente, se cerco un argomento e leggo i messaggi relativi (cioè non solo quelli di chi seguo) mi ritrovo di colpo dentro un panorama parecchio diverso. Un botto di gente che la pensa diversamente da me, spunta fuori all’improvviso. Ma come, non eravamo tutti d’accordo su una serie di temi fondamentali comprendenti la vita, l’universo e tutto quanto? E questi qui da dove spuntano, adesso? No, adesso capisco. Il fatto è che ho messo il naso fuori dalla mia bolla. E là fuori c’è tutto un mondo di gente che ha opinioni diverse, a vario grado. Potrei dire elegantemente che questo mi fa piacere, che posso crescere e confrontarmi, educarmi nel rispetto, e cose di questo genere (avete capito il filone narrativo).Queste sono le bolle informatiche (o anche dette più pomposamente bolle di filtraggio) così tipiche della nostra epoca. Ma è chiaro, fa piacere a tutti. Io vi sono dentro, con tutte le scarpe. Prendiamo Twitter, ad esempio. Più lo uso e più mi compiaccio di quanto le mie idee siano condivise, siano anche degli altri, di come si sia praticamente tutti d’accordo. Ma tutti chi? Istintivamente risponderei, tutti quelli che hanno capito.
Ma chi prendo in giro? Non è affatto così.
A me, a livello immediato, incontrare opinioni differenti reca solo fastidio. Come fa questo a non avere ancora capito? Le cose stanno in ben altro modo! Così mi viene da pensare. Morale, non è per niente facile apprezzare davvero le differenze. Anzi. E tantomeno riuscire davvero a goderne.
Pensiamo solo a tutte le polemiche sul Green Pass, fiorite in queste settimane. Non barate: non vi siete polarizzati sempre di più anche voi, in misura proporzionale al tempo passato sui social? E del resto, avete tutte le ragioni, per comportarvi così (e io pure, ovviamente). Il fatto è che questi qui non vogliono proprio capire, allora devo dirlo ancora più chiaro, devo abbandonare le sfumature per cantargliela chiaro e tondo, capiranno finalmente che questo Green Pass è.. (a questo punto potete mettere, a seconda del vostro orientamento, frasi come “una misura totalmente anticostituzionale e liberticida” oppure “l’unico sistema per uscire da questa pandemia, evitando altre chiusure” e variazioni su questi due temi).
Ed ecco tutta la scomoda verità. Ci piace scontrarci, definirci per opposizione, denigrare quelli che non la pensano come noi. E non basta dirlo, non basta accorgersene, per uscirne fuori. Lo vedo su me stesso. Anche io che adesso scrivo queste righe, se poi rientro su Facebook, mi polarizzo subito. Ah ma come fa questo qui a sostenere queste assurdità sul Green Pass? Non vuole proprio capire o è in malafede, ora glielo spiego bene io, lo asfalto con in bel commento così lo lascio senza parole…
Io sono così. Non so voi. E se a volte non lo scrivo, quel commento, è perché sono anche permaloso e mi innervosisco se mi rispondono (di solito infatti non accade che l’antagonista rimanga senza parole o rinunci alla possibilità di usarle), non certo perché nel frattempo io sia salito ad un livello di conoscenza superiore.
Insomma tutto tranne che godere delle differenze. Ma poi, goderne davvero, ma come si può sostenere? Chi lo dice? Le differenze al massimo si possono tollerare (e per un tempo limitato), che altro di più?
Il fatto è che non siamo, fatemi dire così, “abbastanza buddisti”. Nel senso di aver assimilato certi concetti benefici, cari alla tradizione orientale. Non gestiamo bene l’incertezza, ad esempio. Dice Pema Chodron, nel suo Vivi nella bellezza, che
la causa della nostra sofferenza non è l’impermanenza in sé, e neppure la consapevolezza che siamo destinati a morire: è invece la resistenza che opponiamo alla fondamentale incertezza della nostra situazione.
E per contrasto, diventiamo interiormente fondamentalisti (evidentissimo nelle discussioni su Facebook, come sanno i monaci più tecnologici).
La radice di queste tendenze fondamentaliste e dogmatiche è il fatto di avere un’identità fissa, il concetto fisso che abbiamo di noi stessi come buoni o cattivi, degni o indegni, questo o quello. Un’identità fissa ci costringe a darci da fare per cercare di risistemare la realtà, che naturalmente non può essere sempre conforme alla nostra visione.
Tanati, eh? E la monaca buddista poi rincara la dose, poco più avanti (i monaci buddisti – ed anche quelli cattolici – essendo gente che perlopiù prende la vita molto sul serio, sanno anche dirti le cose in faccia se serve)
Spesso consideriamo le persone che non ci piacciono come nemici, ma di fatto costoro sono estremamente importanti per noi: sono i nostri più grandi maestri, messaggeri speciali che appaiono proprio nel momento in cui ne abbiamo bisogno per mettere in discussione la nostra identità fissa.
Dobbiamo avere una idea su tutto, non sopportiamo di non sapere, e di ammetterlo (sia chiaro, se dico queste cose con grande facilità, è solo perché mi basta dare uno sguardo veloce dentro me stesso).
Dovremmo fare come gli alberi, per esempio. O come un cane, un gatto. Imparare da loro. Che non fanno – anche se cani e gatti sono pur sempre animali – i leoni da tastiera, impelagandosi in discussioni eterne sul Green Pass, riverberando così nella polemica più rutilante il proprio vuoto interiore. Dice Chandra Candiani, nel suo ultimo (bellissimo) libro Questo immenso non sapere, che
gli animali e gli alberi insegnano a non sapere, a tollerare di stare al mondo senza l’ossessione di capire. La loro assenza di controllo mi pare renda il loro mondo non più minuscolo, ma anzi vastissimo, misterioso.
E non è che tutta questa saggezza la portiamo con noi quando ci sfoghiamo su Facebook o quando prendiamo in giro qualcuno su Twitter (io almeno, non proprio).
Ma arrivare a godere delle differenze? Dicevo, chi usa temerariamente questo termine, godere, alquanto impegnativo?
Leggevo sulla rivista Tracce di settembre, una bella intervista a Timothy Radcliffe, scrittore e teologo domenicano. Ad un certo punto lui dice, testualmente (i grassetti sono miei)
La nostra società ha generalmente paura della differenza. Gli algoritmi di Google ci indirizzano verso persone con cui concordiamo, e questo può rinchiuderci in silos, in bolle. Godere della differenza è l’essenza del cattolicesimo. Abbiamo quattro Vangeli nel Nuovo Testamento, e non coincidono su tutto! Il dialogo tra loro ci spinge verso una maggiore comprensione. Di fronte alle differenze nella società e nella Chiesa non si rimane neutrali, né si accettano alla pari tutti i punti di vista. Sarebbe una posizione noiosa e vuota. Al contrario io credo che coloro con cui sono in disaccordo abbiano qualche verità da insegnarmi che potrebbe spalancare la mia mente.
Da qui ho preso il termine godere che ho messo fin nel titolo di questo post. Mi colpisce molto l’ardire che ha, nel non fermarsi al sopportare o apprezzare le differenze, ma si butta sul godere.
Quindi, è una cosa anche cattolica, diciamo. Possiamo allora tranquillamente affermare che non solo non siamo “abbastanza buddisti”, ma nemmeno “abbastanza cattolici”.
Insomma le grandi tradizioni – quelle che sopravvivono ai secoli – ce lo dicono molto chiaramente, ce lo dicono in faccia. Ora sta a noi operare per usare ciò che accade per ammorbidirci (che non vuol dire affatto sbiadirsi in un buonismo insapore e sempre a buon mercato, ma fare un lavoro su di sé) o per radicalizzarci.
Chiariamo. Non è questione di essere migliori o – per carità! – più saggi (mai più saggezza, mai più, cantava lucidamente Ivano Fossati), ma della possibilità di diventare un poco più felici e consapevoli. Una cosa – questa – che ci può interessare davvero. E che rimane interessante anche per loro, per le persone fuori dalla nostra bolla.
Cioè, tradotto, per quelli che sbagliano, state pensando, vero? Eh sì, bisogna anche avere pazienza. Prima di tutto verso sé stessi. D’altronde, godere delle differenze non è,credo, un tutto e subito. Ma un lavoro da artigiani, in cui perfezionarsi poco a poco.