Blog di Marco Castellani

Categoria: corsa

La città di Londra (e il parco)

Lo sai che più si invecchia / più affiorano ricordi lontanissimi canta Franco Battiato nella stupenda Mesopotamia (qualche anno fa, per l’appunto). E chissà, chissà se è questo il motivo, od altro. Comunque nel godermi i miei quindici giorni di prova di Deezer (no grazie, penso che rimarrò su Rdio, soprattutto perché, cari miei, non avete lo stupendo catalogo di musica classica Naxos, una autentica delizia), dopo il quasi obbligatorio (per me) Man on the Rocks, mi sono scaricato per l’ascolto offline, anche London Town. Così, cercando cosa mettere sull’iPhone, mi è venuto da scegliere quello.

Lo so, lo capisco. I più giovani tra voi non avranno assolutamente idea di cosa stia parlando. Ebbene, London Town è un disco dei Wings, la formazione di Paul McCartney post-Beatles. McCartney, un tipo che occhio e croce ha fatto un buon pezzo di storia della musica popolare nel secolo scorso.

MarzoLondra

Non era proprio ben tempo, quei giorni di marzo dell’anno scorso, a Londra…

Ora, è evidente, c’è qualcosa davanti alla quale dobbiamo fermarci. Tutti.

C’è il fatto che dopo i Beatles non ci sono state opere così assolutamente magnifiche, coeve, meravigliose, brutali e compiute come quelle, da parte dei componenti del quartetto. Palesemente, non c’è stato un altro Abbey Road. Pur realizzando cose interessanti, belle, fighe, nessuno degli ex Beatles vi si è nemmeno avvicinato.

Non state ad eccepire. Sono abbastanza sicuro che sia così, oggettivamente.

Ma non sarebbe stato comunque facile avvicinarsi di nuovo ad un assoluto di tale meraviglia.. Penso, sono cose che ti vengono concesse una volta nella vita, forse.. quando tutti gli ingredienti – momento storico, momento personale, creatività, frustrazioni, situazione sociale, favore del cielo – congiura perché si arrivi a questo. Ad impastare il banale per farne il sublime. 

Che poi, in ogni caso, le registrazioni di London Town iniziano proprio ad Abbey Road. Guarda tu.

London Town non sarà un capolavoro. D’accordo. La parola la riserviamo ad altre cose, a ben altre opere. Epperò si deve almeno dire che pesca nella bellezza melodica e ci pesca a piene mani, senza lesinare. Me ne accorgo, come sempre, quando corro. Allora la percezione della musica è più vivida, meno velata. L’altro giorno correvo con la città di Londra nelle orecchie ed ero in mezzo al Parco di Aguzzano immerso nel verde preprimaverile, con tutte le sue seduzioni, ma ero anche – potenza della musica – catapultato a respirare gli odori e gli umori di Londra. Di una Londra che ancora mi parla, rivista pochi mesi fa, pur se di sfuggita, assaporata proprio… di corsa. 

Ora, sarà banale dire che ogni luogo è un luogo del cuore, è come una categoria. Nasconde un assoluto. Un modo specialissimo ed unico e fragrante di intendere le cose e i rapporti. Come se tutte le cose, tutti i significati, vengano segretamente rinegoziati in ogni specifica posizione del globo. Sì, ovvio, i nomi delle cose son gli stessi. Ma l’essenza delle cose prende un tono, un colorito, diverso, specifico. Ecco perché viaggiando si impara sempre molto. 

Corro nel parco ma anche su una banchina del porto di Londra (la sinistra, per la precisione). Complice il lavoro che in pieno accordo con il titolo, presenta in apertura una coppia di canzoni squisitamente geografiche, e musicalmente magnifiche, come appunto London Town, la title track, e Cafe on the Left Bank. Non conosco molte canzoni geografiche riuscite, ma queste senz’altro lo sono. Del resto il baronetto McCartney è inglese fino al midollo, e il suo gruppo è perfettamente credibile nel dipanare questo materiale verso le mie orecchie. 

E allora sei nel clima di Londra, puoi sentire la pioggia d’argento cadere sul  selciato sporco di Londra, oppure ti trovi di botto in un Cafè sulla Left Bank, sorseggi un vino comune, “toccando con gli occhi tutte le ragazze” (a volte capita, eccome se capita, siamo fatti di carne, dopotutto). Curioso, il senso di Londra mi arriva anche se non comprendo tutte le parole: è la musica, il tono di voce, gli attacchi e i ritornelli, è l’insieme che me lo porta. 

E’ nel mezzo di I’m Carrying (come Yesterday, come certo Battisti, ha bisogno di una chitarra e basta per rivelare la sua innervatura di semplice meraviglia) che mi prende come una folgorazione. Correndo mi si appiccica addosso una frase, che non avevo mai ascoltato bene

And if my reappearance lacks a send of style…

e invece stavolta mi colpisce come un’ombra poetica, come quando le parole si incastrano bene per evocare il mistero che sempre c’è dietro e che spesso la banalità del parlare uccide. Quello davanti al quale il cuore si calma e si meraviglia insieme.

Continuo a correre, alternando corsa vera e propria a passeggiata. Di solito nelle canzoni più belle riesco a correre di più, non sento la fatica.

London Town scorre e Children Children è un piccolo incanto che mi porge, una favola delicata cantata dal miglior affabulatore: dice che c’è spazio, c’è ancora spazio per la magia, per l’imprevisto, per la dolcezza trasversale nelle cose.

Girlfriend è easy listening di alta fattura (intanto sono arrivato al bordo del parco, dalla parte di San Gelasio, giro e torno giù), elegante e patinato anche se non pesca molto in basso, si accontenta di una navigazione di superficie. Si può anche ascoltare, con un sorriso.

Dopodiché le cose cambiano, improvvisamente. Attenzione, se siete arrivati fin qui, ecco il meglio. 

Qui le cose cambiano.

Famous Groupies e subito dopo Deliver Your Children sono un brivido continuo, una condizione estatica prolungata su diversi minuti. Grandissima arte, mestiere, perizia. Gioia delle note, gioia di fare musica. Li percorro correndo, bevendomi la musica che entra dagli auricolari, viene processata, va subito in circolo, allenta la tensione dei pensieri, scende nei muscoli, scioglie l’indecisione e contrasta il dubbio che avvelena, riporta energia negli arti. 

E’ pazzesco, a pensarci, che dopo le vette di Deliver Your Children arrivi un puro divertissement – esilissimo e divertito – come Name And Address. Non è certo ricco di sfaccettate profondità, il testo.. 

If you want my love, leave your name and address

Ma va bene, è un viaggio non solo dentro Londra, ma tra il sublime e il banale. Come in un vero viaggio, devi essere disposto ad incontrare tutto. Anche canzoni come queste sono comunque riscattate dal fatto che senti che si divertono, questi suonano e si divertono – e questo divertimento arriva fino a te, è contagioso.

Don’t Let it Bring You Down è una ballata dolce e suadente, quasi accorata nella sua dolce, insistente perorazione…

When the price you have to pay is high

Don’t let it bring you down

Ecco a questo punto accetto tutto, anche Morse Moose And The Grey Goose che chiude il disco, per dire. Beh se vogliono fare un pezzo così, vorrei dire, ne hanno facoltà. 

Io intanto smetto di correre, è ora di rientrare a casa. Lascio il parco dietro le spalle. Il parco che oggi era collegato con Londra, per questi misteriosi canali spaziotemporali che si aprono e chiudono continuamente.

Bizzarrie di un universo, come il nostro, ordinario solo in apparenza.

 

 



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Posso grattarvi la schiena?

Oggi è stata la volta di And I’ll Scratch Yours. Che sarebbe, insomma, Vi gratterò la schiena. Ultimo disco di Peter Gabriel, appena uscito.
Cioè.
Come mi faceva notare mio figlio, non è proprio un disco di Peter Gabriel. Il fatto è questo: lui se ne esce con una serie di canzoni nelle quali… non avrebbe proprio fatto nulla! Niente altro che raccogliere e selezionare delle cover per i suoi brani più famosi. Non è da tutti uscire con un album… senza dover avere la preoccupazioni di scrivere una nota.
“Inquietante” fin dalla copertina… 😉
Così anche sul web leggo commenti di gente (giustamente?) un po’ indignata, del resto come accadeva con la prima parte del progetto, quell’iniziale Scratch my Back, quella sbarazzina proposta Grattami la Schiena in cui Peter si esercitava in cover di altri artisti. Gente che diceva e dice (giustamente?) ma quand’è che ti metti a fare nuove canzoni, Peter?
Diciamolo subito. Per me Peter Gabriel è uno che la musica la sa scrivere. E la sa scrivere molto bene. E soprattutto, scrive quella musica che io voglio ascoltare (il resto della musica non mi interessa). E’ uno che mi riesce ad inviare dei segnali davanti ai quali posso andare oltre la semplice percezione estetica di un bello: sono segnali che il mio cuore riconosce e interpreta come particolarmente appropriati e favorevoli a quella comprensione (direi) metafisica del cosmo così sfuggente a parole, così esulante da ogni articolazione verbale, e tuttavia così necessaria. Insomma, il potere dell’arte, possiamo dire. Quelle cose per cui uno – non si sa come – si sente più amico del mondo e di se stesso.
Con tutto ciò ero perplesso anch’io. Ennesima operazione commerciale? Furba trovata di un artista che vive della sua pur meritata fama senza però proporre qualcosa di suo?
L’ascolto dei preview in iTunes mi ha comunque convinto ad acquistarlo. C’era qualcosa… Stamattina l’ho portato alla prova del fuoco, l’ho fatto fluire negli auricolari dell’iPhone mentre correvo al parco. E mi sono deciso. Io amo questo disco. 
Intanto vi sono artisti del calibro di David Birne, Brian Eno, Lou Red, Paul Simon. Ma fosse solo questo, non sarebbe ancora abbastanza. 

La prima impressione è di sorpresa. Le canzoni sono molto diverse dall’originale, sono tutte molto ripensate. Eppure si sente una sorta di rispetto, non sono stravolte. Solo, assumono come un altro colore, risuonano secondo altri rapporti, altre suggestioni. Così pensavo, Peter è come i Beatles (affermazione importante, della quale mi assumo la responsabilità). In qualsiasi salsa lo presenti, è sempre bello. Ne evinco una cosa: il nucleo pulsante, il centro di interesse, è nascosto nella parte più intima della musica, non nell’arrangiamento. Come tale, viene preservato dalle nuove interpretazioni. Brilla, e continua a brillare.
Anzi queste nuove interpretazioni mi destano nuovo interesse. Come se lo stesso nucleo pulsante, illuminato da una luce nuova, potesse finalmente mostrare aspetti diversi, esporre zone finora rimaste in ombra. Facendomi capire che c’è di più, c’è più sugo da estrarre di quanto si poteva pensare nell’ascolto dell’originale.
Come sempre, è correndo che riesco ad ascoltare la musica con maggiore attenzione. Sospetto che sia per quello, che mettendo l’ego da parte – distraendolo con la fatica – io sia libero di attingere con più apertura ad ogni proposta artistica.
C’è come una dominante, nel disco. Mi sembra straordinariamente unitario, come clima musicale, considerato il fatto che è stato realizzato da artisti diversi. I suoni degli strumenti mi arrivano spesso come sgraziati, impastati nei rumori – eppure parlano, parlano di più che se fossero lisci e smussati. Mi fa pensare a com’è la pasta casareccia. E’ ruvida e imperfetta al tatto, ma raccoglie più sugo.
Poi c’è questo. Che dobbiamo entrare nel merito. Lo sappiamo: le canzoni di Peter parlano spesso di una disarmonia, di una distanza, di una estraneità. Come se molte volte dica, beh ragazzi qui c’è qualcosa che non va (perdonate la drastica semplificazione). E il suono di queste canzoni aderisce a questo, fino dalla scelta timbrica. Così ogni aspetto è in relazione all’altro.
Però è quel tipo di attitudine che invece di gravarmi addosso, mi libera. Come uno che abbia l’onestà di dire il suo imbarazzo nella percezione del mondo e dell’uomo così come ce la restituisce l’evo attuale – e fa quello che un artista deve fare: lo esprime.
Ed è per me più liberante più di un disco perfettamente impacchettato e superficialmente sereno (proiezione perfetta dei discorsi da nichilismo divertito di cui parlavo nel post su Lampedusa). Perché pesca nell’ambito delle cose ultime, le più importanti: musica bruckneriana, direi. Non cerca di di-vertirmi, di farmi evadere da me stesso. 
Così è il mistero dell’arte, la vera arte. Il disagio, l’estraneità, la stessa disperazione, vengono innervate di senso e restituite perché noi le si possa meglio elaborare. Consapevoli che ogni percorso di liberazione personale richiede un lavoro, una discesa verso il basso, una accettazione di ogni parte d’ombra.
E l’arte può essere funzionale a questo lavoro. Anzi, la vera arte, lo è sempre stata.

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La corsa e la croce

No. Non ce la faccio nemmeno io a non scrivere, a non scrivere sul blog. Non raccontare i fatti miei, in un certo senso. Perché così raccontando, mettendo i pensieri in fila secondo le regole ordinate del linguaggio scritto, anche le cose nella mia mente si mettono a posto, si ordinano. Anche se magari non riesco a metterle in relazione in maniera soddisfacente, averle fatte passare per la scrittura crea un filo rosso che segue paziente anche le curve più ardite, le deviazioni più ostiche. Smussa anche un po’ gli spigoli, diciamo la verità.

Per inciso, non riesco a trovare motivazione per scrivere più pregnante di questa.

Allora, domenica scorsa, prima che piovesse (e anche durante la pioggia, a dire il vero) sono andato a correre al parco sotto casa. Finalmente ho capito come funziona il cardiofrequenzimentro, sopratutto come si mette la fascia per rilevare le pulsazioni (non sulla panza come una cintura di pantalone – come mi hanno fatto capire – ma ben più alta sul petto) e debitamente accessoriato, sono sceso per l’avventura.
Debitamente accessoriato, stavo dicendo. Infatti. Ormai per me il fatto di correre è stato raggiunto e divorato dalla tecnica moderna, a scapito probabilmente della intrinseca semplicità del gesto (appunto, mettersi a correre). Ecco qui tutto l’apparato:  cardiofrequenzimentro con orologio/rilevatore al polso, poi iPhone ed auricolari per la musica e ovviamente per monitorare percorso e tempi con Endomondo
Eh no, non sono io. Non ancora, almeno …
Comunque, questo è. A volte penso che qualche anno fa era tutto più semplice. Non c’erano applicazioni da aggiornare, stati facebook da inviare, foto da scattare e mandare su Instagram. Non c’era il telefonino, ma un telefono per famiglia, a casa. Insomma non c’eran tante di queste cose. C’era semplicemente da vivere.

Per il resto (scansando discorsi complessi), il fatto di correre è come inserirsi in uno specifico microcosmo, qualcosa di apparentemente lineare e semplice che però – come ci si accorge presto – mappa efficacemente le posizioni e gli atteggiamenti che assumo durante le normali giornate. E – spero – mi può aiutare a correggermi, quando serve. E serve spesso.
Intanto, la motivazione. Correndo lo vedo subito, me ne accorgo istantaneamente. Il penso positivo agisce in maniera diretta ed immediata. Se cedo ad un treno di pensieri negativi, di sconforto, la spinta viene meno, la fatica aumenta. Ecco qua: rallento, non riesco a progredire. Se invece afferro un pensiero di speranza, lo tengo stretto, lo riguardo da varie angolazioni, lo faccio brillare, ne estraggo il succo, mi sento rientrare addosso l’energia, riprendo gusto all’allenamento. Sono anche più attento a quanto succede in me ed intorno a me. E poi magari va così, accarezzo l’idea di fare un po’ di strada in più, magari prendo una pausa camminando per poi fare un’altro tratto. Insomma ci prendo gusto, mi metto un po’ alla prova. Se però, di nuovo, un pensiero di irritazione o di insoddisfazione o una valutazione sconfortata di un problema mi prende, eccomi di nuovo al palo, ecco che perdo la voglia, la motivazione.
E’ vero. E’ verissimo. A parità di circostanze, i pensieri sono determinanti, decidono della qualità del mio allenamento. Decidono della qualità della mia vita. Se acchiappo un’idea interessante, un progetto, qualcosa su cui lavorare astraendomi dalla ruminazione dei miei crucci, riesco letteralmente a fare chilometri in più. Riesco ad affrontare meglio ogni situazione.
Insomma è inutile andare a correre tristi. Tanto dopo cento metri si rientra a casa.

Poi, per me l’altra cosa importante è guardare.Voglio dire, correre va bene, ma dove guardare? Avanti, onde evitare incidenti. Ovvio. Ma come guardare avanti? La cosa non è risolta. Eh no, perché c’è modo e modo. Vi dico subito la cosa migliore per me: guardare alto, in avanti, all’inizio. Per capire la scena, avere un quadro complessivo. 
Però poi no: poi, correndo, no.

Certo mantenere il controllo della zona, ma concentrarsi su quanto vedo vicino a me. Sì vicino. Se mi fisso sul punto di orizzonte mi sconforto perché – ancora – sembra che io non mi muova. Vince la lontananza, la sproporzione. Il senso di distanza. Chi sono io per avere l’ardire di mettermi a correre? Che progressi faccio? Vedi, sono ancora qui, vedi (con treno di pensieri sconfortanti a seguire).

Se però correndo mi concentro su quello che avviene intorno a me, se scendo nell’istante presente, allora tutto cambia. Vedo che i miei piedi si muovono, che nonostante tutto le zolle d’erba si avvicendano, il sentiero scorre sotto di me, il micropanorama cambia di continuo. Che sto andando avanti, sto facendo il lavoro. Questo mi consola, mi conforta.

Insomma, come al solito, sono davanti alla mia impazienza: se cerco di evadere dalla situazione presente, dal qui e ora, non c’è niente da fare, mi ammalo. Se mi calo nell’istante, invece, mi permetto di vedere che sono in cammino, che mi modifico. Che posso pian piano convertire il mio modo rigido di pensare, che non devo più tentare di schiacciarmi in un orizzonte ipotetico freddo ed uguale per tutti- Posso allentare la presa, posso concedermi di essere me stesso con il mio specifico modo di correre, di affrontare le cose… posso guarire.

Perché nessuno è come me. Nessuno. Quando mi rilasso su questo punto, sto meglio. Capisco un po’ meglio cosa ci sto a fare qui. Mi permetto, mi dò il permesso, di non essere già come vorrei essere, mi permetto di avere paure, insicurezze, sensi di colpa. Paradossalmente, accettando tutto questo, accettandomi come sono adesso, sto subito meglio. E corro più sereno. E vivo più sereno.
Mi colpisce ogni volta che sento questo, mi accorgo che riscopro qualcosa che la saggezza delle filosofie e delle religioni conosce bene da millenni. E che il cristianesimo dice molto bene (se noi lo vogliamo ascoltare). Così fatemelo dire in termini scopertamente  cristiani, senza giri di parole, senza traduzioni nel linguaggio psicologico (pure se ha una portata psicologica poderosa):  accettando la croce si arriva alla gioia – quella profonda, la gioia profonda e tranquilla, la più bella e interessante.

Non cercando di scansarla. Accettandola, la croce.

Questo mi dice anche tutta la mia esperienza maturata fino ad ora. Non che io non sia testardo e normalmente agisca in maniera diversa, tentando di evitare ogni fatica, ogni difficoltà. Soprattutto, sognando circostanze magiche che mi permettano di evitare di lavorare su me stesso.

Quindi?

Questo posso fare. Adesso. Ora. Accettare la mia croce.

E’ una lotta, mi viene per nulla facile.

Quello che però posso dire, è che tutte le volte che mi sono piegato, ho domato la mia rigidità, ho accettato la croce, non ho mai – dico mai – avuto a pentirmene.

E sì, ho anche corso molto meglio… 

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La musica è una

L’ho detto, per me uno dei modi più efficaci per allargare la percezione della musica, è ascoltarla mentre faccio uno sforzo fisico. Capisco perché un sacco di gente corre con gli auricolari nelle orecchie. E’ che si crea come un circuito virtuoso: la musica mi distoglie dal concentrarmi troppo sulla fatica (che la amplificherebbe senza costrutto) e nello stesso medesimo tempo, la fatica mi permette di ascoltare la musica più libero dallo strato fastidioso di pensieri che spesso – troppo spesso – si mettono di mezzo tra me e  le esperienze sensibili, tra me e la vita.
In casi simili, sembra non valgano le usuali leggi di conservazione: c’è un guadagno globale e non c’è nessuna perdita. In effetti, succede anche per un sacco di altre cose, ma spesso non me ne voglio accorgere. C’è un guadagno totale e nessuna perdita a seguire il proprio cuore (anche se ho paura di farlo), ad accettare ed accogliere tutto quello che accade (idem), a renderci docili al progetto che il Destino ha predisposto per noi (idem, paura fortissima: mobilitazione guerresca dell’ego con tutte le sue armate). 
music
Foto By craigCloutier
Tornando al correre con la musica. Ieri mattina, sceso al parco, ho lanciato il player musicale del mio Xperia Ray e l’ho lasciato sulla selezione casuale di brani. Va detto, di norma non sono un grande fanatico delle selezioni casuali: semplicemente mi sembrano abbiano poco senso, almeno nel mio caso. Nella scheda SD dello smartphone ho musica classica, jazz, pop/rock, e una selezione casuale di brani porta invariabilmente ad una eccentrica sequenza di cose tipo Pat Metheny seguito da un pezzo di chitarra classica seguito da un brano strumentale di Mike Oldfield seguito da una canzone live di Paul Simon seguito da un pezzo di pianoforte di Chopin seguito… avete capito.
E proprio qui sta il bello.

La cosa che mi ha fatto cambiare idea, rovesciare la prospettiva.

Che correndo mi sono accorto con cristallina nitidezza, che la musica è una. Non ci sono distinzioni di genere, non vi sono steccati che funzionino veramente. Ecco, in un certo senso, potrei essere tacciato di scoprire l’acqua calda (che è sempre e comunque una gran bella invenzione, soprattutto l’inverno). Probabilmente i più avveduti se ne accorgono anche stando fermi, lo concedo. A me però succede quando faccio muovere le gambe. Così mi accorgo che la modalità di attenzione che metto nel comprendere un brano di Chopin non è troppo diversa da quella che impiego per godere veramente di un brano di Bill Evans. O anche, di una canzone di Norah Jones. Insomma la musica è una. 

Anzi, come diceva qualcuno, vi sono due tipi di musica. Quella bella e quella brutta.

Qual è la musica bella? Secondo me, è quella che insieme (a) veicola una sensazione estetica positiva, cioè che dice implicitamente che tutto ha un senso e una armonia (che poi è proprio la funzione dell’arte, a mio avviso) e che (b) lo dice regalandoci un certo grado di complessità, una articolata imprevedibilità – cioè esponendo un flusso di informazioni denso e non banale, almeno parzialmente decriptabile dal cervello (a volte, previo ‘allenamento’, ‘studio’). Che tutto questo sia affidato a basso/chitarra/batteria oppure ad un pianoforte solo oppure ad un ensemble jazz oppure ancora ad una orchestra di mille elementi oppure ad un tappeto di sintetizzatori, oppure ancora ad una cantante celtica o ad un cantautore californiano, non fa la vera differenza.
Certo, c’è un certo grado di soggettività in tale definizione. Perché ognuno è stato creato in modo diverso, con una sensibilità differente. Ognuno ha una sua strada attraverso la quale comprendere, attraverso la quale affacciarsi alla percezione del bello. Ecco perché imporre una data visione musicale o una gerarchia codificata di valori forse non ha proprio tanto senso. Perché c’è gente che stravede per Gustav Mahler (per esempio io) e gente che lo detesta. Gente che parteggia per Verdi oppure per Puccini (io scelgo il secondo). Gente che ama i Beatles (ancora io) oppure i Rolling Stones.

Così al di là degli steccati artificiali e anche al di sopra delle costruzioni mentali di molta gente (sopratutto di quella ‘di cultura’), spesso uno si ritrova a procedere (e a correre) con universi musicali ricchi ma estremamente eterogenei. Dalla nona di Beethoven ad Amarok di Mike Oldfield, da Mark Knopfler ai Pink Floyd, e poi attraversando Mahler, Bruckner, Mozart, Brahms, Keith Jarret, Brian Eno…

La luce si diffrange in tanti colori ma è una sola.
Pure la musica, si articola in mille modalità espressive, ma è una sola, in fondo.

Ricomporre lo spettro, risalire dalla differenza all’unicità.
Dalla superficie contingente all’essenza più nascosta.
Ecco l’avventura dell’ascolto. 

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Correre tra luci ed ombre…

Quanto si apprezza di più la musica quando si corre. Quando la fatica ti allenta un momento la maglia fitta dei pensieri, quel lavoro incessante della mente che di solito ti scherma dalla meraviglia, fa come una rete di protezione dietro la quale non vedi più, non ti riesci a meravigliare più. Qualche giorno fa sono andato a correre, macinando sentieri di montagna abruzzese con Light & Shade di Mike Oldfield nelle orecchie. Un doppio disco con cui ci ho spesso litigato. Diciamola tutta: inizialmente è stata proprio una delusione, temperata solo dalla mia inossidabile stima per questo straordinario musicista.

Insomma, hai questi ottantadue minuti… ascolti, un po’ impaziente, cerchi il succo, le parti decisive. E dopo un pochino ti chiedi, ok, quale è il punto? Dove è che si comincia a fare sul serio? Dove sta un vero climax? Dove mi porta questa musica? Il fatto che mi spiazzava era questo, che la musica non mi portava da nessuna parte. Volevo farmi condurre, ma rimanevo al palo. Allora mi annoiavo.

Ogni tanto lo risentivo. E rimanevo in questo stato di perplessità, gli davo un garbato credito, più per il nome del musicista che per l’impatto dell’opera su di me. 

Ricordo invero anche qualche occasione in cui mi è parso particolarmente significativo, direi nutriente. Erano occasioni d’ascolto in cui non davo mai piena attenzione alla musica: di solito stavo anche facendo altro. Così permettevo che le note, le sonorità mi scivolassero addosso, senza difese. E funzionava. Incredibilmente, funzionava.

Fino a che sono andato a correre. Lì sì, lì ha funzionato veramente bene. Correvo e osservavo la natura, e le note con i percorsi indefiniti, o candidamente ripetuti, non erano più un problema. Affatto. Era come una patina dorata che si appoggiava delicatamente sulle cose, specialmente sugli alberi, le piante, sul tramonto stesso. E la ripetizione non era monotonia, ma era funzionale all’avvicinamento graduale alla sostanza delle cose. Un avvicinamento delicato, uno svelarsi progressivo e rispettoso. Finalmente qualcuno che suggerisce, e non cerca di riempire a tutti i costi.

Infatti il vuoto si avverte, a volte (e non è una sensazione piacevole). Tutti corrono a cercare di riempirlo, ma c’è, capita di trovarlo, di sentirlo. Anche tanta musica cerca di riempirlo: troppa. Non questa, comunque. E la cosa va bene, perché l’armonia nascosta delle cose, non più contrastata, può venire alla luce. Quello che prima sembrava semplicità eccessiva nella mia corsa si tramuta in finissima delicatezza. Le impressioni possono allora rimanere aggrappate alla musica, alle sue maglie larghe.
C’è il vuoto, ti prende il cuore come un messaggio che va ascoltato:  coprirlo di forza non è una buona idea, non funziona. Cioè funziona, ma solo per poco. Poi tanto lui torna a galla. E invece lasciarlo venir su, esser disposti a soffrire e a farselo passare addosso, questo può essere una strategia migliore per superarlo, per continuare il cammino. Essere dolci con il vuoto, anche. Faticoso, certo. Vorremmo scappare, non vederlo. Non vedere dentro noi stessi, coprirlo. Far finta che non ci sia. Sarebbe più comodo, da un certo punto di vista. Ma non risolverebbe molto.

Anzi, non risolverebbe nulla. Rimarremmo sempre in superficie. Passeremmo la vita alla superficie delle cose: ben più tragico che sentire la morsa del vuoto, a pensarci.

Allora sei dentro, ci sei dentro. E devi camminare. Anzi, talvolta, anche correre. E allora corri, in questa situazione. Corri con le gambe e il tuo animo cammina. E camminando, anche lentamente, già respiri ed ogni cosa è più illuminata. Mi pare che alla fine conti questo, la disponibilità a camminare, più che tante altre cose e di tanti bei propositi.
E vedi appunto il tramonto e la vegetazione nella sera, e la musica aderisce così bene, così bene a tutto quanto, a tutta lo stupore per il tramonto del sole – un prodigio quotidiano a cui solo la mia abitudine e la mia  distrazione ha potuto rubare la perpetua meraviglia.
Arrivare a vedere tutto come un prodigio, risvegliarsi dall’abitudine, sarebbe straordinario. Se ci mettiamo all’opera, accettiamo di fare un lavoro su noi stessi, pian piano possiamo, sì. Possiamo recuperare questa dimensione della meraviglia, possiamo allargare una epifania sperimentata durante una corsa, portandola nella vita ordinaria. Dismettere la istintiva diffidenza verso il mondo, per aprire davvero gli occhi, e scoprire che niente è mai uguale, in fondo niente è già visto.

Ditemi se non è cosa che valga la fatica delle nostre giornate…

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