Blog di Marco Castellani

Categoria: creatività

Creare qualcosa

Ragionavo nel post precedente sul fatto che cercare di comprimere la musica dentro degli steccati, delle articolazioni di genere, ha una rilevanza limitata. D’altra parte, la musica è così. L’arte è così. Si fa una gerarchia di valori, ma è soltanto per comodità. Poi ti imbatti in quel pezzo di quel compositore minore e ti sorprendi di come ti si avvolge addosso, sembra fatto per te. Potresti averlo fatto tu. Anzi, vorresti. 

Ed eccoci arrivati a toccare un tasto importante. Il motivo per cui creare qualcosa, per cui osare creare qualcosa ha molto a che vedere con questo, da come la vedo io. Prendiamo lo scrivere, ad esempio. Scrivi perché vorresti leggere una certa cosa e non la trovi. Certo, ne trovi a milioni, di cose, a miliardi. Ma non esattamente quella: con quel bilancio di colori, sensazioni, con quella esatta visione del mondo, con quell’impasto di attitudini, distanze, relazioni, esitazioni, che ti senti in fondo al cuore. 
Così scrivi e provi a portare a galla il tuo mondo. E la prima impressione può essere devastante. Il tuo mondo vien fuori ma ecco, è molto meno screziato, articolato, complesso, ambivalente, di come   pensi che debba essere, di come sai che deve essere. 

writing like the wind
Writing like the wind, foto di snigl3t

Il punto è questo. Pensavi di essere arrivato ed invece sei appena partito. Sei partito per una meravigliosa e drammatica avventura. Perché devi acquisire gli strumenti tecnici, devi fidarti, devi capire che a scrivere si può imparare. Che quello che hai dentro è un tesoro, ma per esprimerlo devi applicarti, devi lavorare. Il lavoro è quello di continuare a pescare dentro di sè, ascoltarsi, allevare la propria voce. E intanto acquisire gli strumenti per esprimerla. Quindi è un allargamento: verso l’interno (ricettività) e verso l’esterno (la tecnica, il mestiere). 
Mi viene da pensare, come una traiettoria spirituale. Lo spalancarsi di una ricerca, che diventa sempre più vasta e intrigante quando ti accorgi dell’incontro con una corrispondenza.

L’importante non è arrivare subito, ma rimanere in viaggio.

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Giù in verticale, nella creatività

Il mondo si muove sempre più in orizzontale, se volete sapere come la penso. La dimensione orizzontale ci è nota, d’altra parte. E’ decisamente moderna. E’ quella della continua novità, della navigazione da un riferimento ad un altro (Internet permette e in certa misura favorisce questo) da un incontro ad un altro. Senza approfondire. Tutto rimane espresso e fruito come su uno schermo, dove la parte di mistero e di imponderabile che fa da collante tra le situazioni e le cose, che ammorbidisce tutto, non viene tenuta in considerazione, in conto. 
D’altra parte, come si fa a tener conto del mistero imponderabile che è dentro ciascun uomo nel notiziario del mattino, ad esempio? Non è possibile, non c’è il tempo, non farebbe audience. Non vende nulla, perché non serve nessun prodotto. La dimensione verticale è quella del viaggio dentro se stessi. E’ il viaggio che dà senso e lenisce il disagio, la sofferenza. Del resto, ogni croce è ben piantata a terra, il senso di ogni dolore non è compreso a fondo e non fiorisce, non è fecondo, finché rimaniamo in orizzontale, in superficie.

Mi sono convinto, per letture e soprattutto per esperienza, che il prezzo che si paga vivendo scollegati dalla propria profondità, dalla comprensione della propria intimità, è assai caro.

La stada per
C’è un viaggio che fa respirare davvero…
La comprensione profonda della propria intimità porta alla vera essenza dell’intera umanità, dove risultano inutili, indifferenti, segni esteriori come il denaro, il sesso, il successo, il potere, se non vissuti come cifre, attraverso la cui lettura si ritorna alla conoscenza di se stessi. La paura, la disperazione, la violenza, la depressione, le manie, le ossessioni, attraverso la psicospiritualità vengono capite, comprese, reinscritte in un nuovo codice dove hanno perso forza, carica, e sono state diluite nella vita, nell’anima. Con la conoscenza di sè, con il desiderio di capire la condizione umana, di dare senso all’esistenza, si dà senso alla solitudine. (Valerio Albisetti)

Così non sorprende come la creatività si nutra profondamente del movimento verticale, dell’andare dentro di noi portandoci inevitabilmente dietro la parte del mondo con cui siamo a contatto, le nostre circostanze. Tuffando l’orizzontale dentro il verticale. Il contingente nell’eterno, la molteplicità nel significato. Dentro c’è la linfa vitale, l’ingradiente necessario a far reagire tutto quello che abbiamo trattenuto della realtà, perché generi un visione nuova, una visione creativa. L’anima viene da Dio, ovvero è agganciata all’eternità, al senso.

Mi pare di aver capito questo. Non è possibile essere creativi se si accetta supinamente di rimanere prigionieri nei nostri pensieri. Non avviene la reazione necessaria, manca qualcosa. Di estremamente importante, di nascosto ma eterno. Se si lascia spazio al vuoto tra le parole, alla pausa tra i pensieri, invece, può accadere qualcosa.

Accettare l’invito al viaggio verso se stessi è immettersi ipso facto in un percorso di creatività. Anche se non si è artisti, in senso stretto. Una persona che accetta il lavoro di andare a sè è comunque un artista, secondo me. E’ la persona adatta per scoprire la verità enunciata da Chesterton, La vita è la più bella delle avventure ma solo l’avventuriero lo scopre.

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Scrivi se la realtà è positiva

Una delle cose belle dell’attività di scrivere è che è richiede una disciplina. Che per scrivere bene e con profitto devi entrare in una sorta di disciplina dello scrivere, che è poi esattamente quella del vivere. Così che una cosa aiuta l’altra.


Anche perché se hai la vocazione di scrivere e la censuri, per certo non vivi bene. 


Una prima  cosa che si deve imparare riguarda l’atteggiamento. Essere positivi. Questa è una cosa su cui  faccio abbastanza fatica, per carattere. Sono soggetto tanto ad entusiasmi quando a repentine discese. Facilissimo allo scoraggiamento, a perdermi nel classico bicchiere d’acqua. 

… e` uno dei miei limiti
io per un niente
vado giu`

se ci penso mi da’ i
brividi

(Samuele Bersani, Spaccacuore)
Anche io ho i brividi per quanto basta poco a mandarmi giù. Pazzesco.

Writing

Però questo non aiuta la scrittura. Se lo vuoi fare davvero, se vuoi seguire seriamente la tua passione, devi farlo in modo professionale. Consideralo pure un lavoro. Se ne hai un altro, di lavoro, meglio per te, ma questo devi trattarlo altrettanto seriamente.
Come nel lavoro, l’atteggiamento è tutto. Un atteggiamento positivo permette di passare agevolmente anche nei momenti no, in cui tutto ti sembra contro, tutto sembra andare storto. Ritengo che l’ostacolo più grande sia – dopo i momenti di entusiasmo (Sì scriverò per tutta la mia vita!), la palude insidiosa dello scoraggiamento. Hai presente, quando guardi quello che hai scritto e… 
… no, non ti piace.  (Inutile girarci intorno)
Manca qualcosa, non va bene, è lento, è scritto male, è ampolloso, è pieno di te, non è scorrevole. E lì che scivola in testa la frase più pericolosa, non riuscirò mai a scrivere bene. Che errore! Cacciala via, immediatamente.
E’ una scusa, una scusa orribile per non abbracciare completamente la meravigliosa rivoluzione che può attenderti: vedere il mondo con occhi nuovi. Vedere tutto con gli occhi di uno scrittore. 

Questo mi ha sempre affascinato. L’occhio di uno scrittore è lanciato avanti, non vede semplicemente le cose, ma cerca le connessioni tra loro. Vuole mettere in ordine delle parole, delle parole vive, così cerca un ordine nel mondo. Cerca sotto le cose per arrivare alla sostanza.

Un atteggiamento intrinsecamente positivo, spalancato sulla realtà. 

Anche se fosse una realtà dolorosissima.

Un atteggiamento positivo, per non essere preda del sentimento (e delle sue fluttuazioni), si deve basare su un fatto di ragione. Riconoscere che la realtà stessa è positiva. Questa è la scommessa di chi scrive, di chi ha il coraggio di creare. 

Se sei nel nulla non scrivi, di solito. Se crei stai combattendo il nulla, hai scelto di combatterlo: stai seguendo la tua vocazione e in forza di questo riconoscimento, lotti ipso facto per un mondo migliore, più luminoso, più umano. 

Un riconoscimento magari timido, imperfetto, timoroso. Un inizio di riconoscimento. O l’inizio dell’inizio di un riconoscimento.
Che è già una roba completamente diversa dal nulla. 

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Un quadro, del settantatré

Domenica pomeriggio, mettiamo su i quadri. Sono appoggiati in camera da letto da una vita, ormai. Su quel carrello ormai vecchio e rovinato, che dobbiamo buttare. Scomoda, come sistemazione. Anche perché c’è il fatto che se ti alzi di notte per andare in bagno ci puoi sbattere contro (succede, succede…).   A dire la verità, niente come l’iPod Touch – o roba simile –  per muoversi a mò di felino a notte alta con un minimo di luce (se poi non ti riviene sonno, puoi leggere qualcosa o controllare la posta… anche se, chi ti scrive a quell’ora di notte?)
Ma sto divagando…Torniamo ai quadri. E’ incredibile come cambia l’aspetto della casa mettendo due o tre quadri appena. Io e Paola li prendiamo uno alla volta, li puliamo, cerchiamo di capire dove stanno meglio. Ne giro uno, fatto da mio nonno materno (dipingeva per hobby, ma dipingeva bene, secondo me). Vedo la firma e la data. Aldo Poli. Settembre 1973. 

Faccio un rapido conto, e mi colpisce una coincidenza. Mio nonno lo dipinse quando io avevo l’età di Agnese, la nostra bimba più piccola. Quante ne ha viste passare quel quadro! E ancora è lì, ancora svolge la sua funzione. E’ ancora bello. Ancora mi trasporta indietro, mi fa pensare all’infanzia, al nonno. E’ un bel quadro. Ma anche se non lo fosse, sarebbe lo stesso importante, per me. Per la mia famiglia.
Dipingere
Il fatto di creare ha qualcosa dentro, un mistero che non puoi esaurire, comprendere. Spesso ragiono – nel giudicare i miei tentativi letterari-  per categorie semplificate; o una cosa è pienamente riuscita, è un’opera d’arte, diciamo, o non lo è. E se non lo è quasi non si capisce perché uno abbia perso tempo, magari molto tempo, per realizzarla. 
Però questo ragionamento semplificato manca diversi punti. Uno è che creare di per sè è un’attività terapeutica d’eccellenza. Seguendo la spinta interiore a creare capisco meglio il mondo e me stesso, mi muovo verso un equilibrio, affermo la positività ultima del reale (anche se scrivo una tragedia… se sto scrivendo di per sè è come se dicessi vale la pena). Reprimere un impulso a creare non fa mai bene alla salute. A prescindere dal “valore” di quello che riesci a creare. Il secondo punto è che – sappiamo bene – tra il capolavoro e il tentativo da buttare esiste uno spettro larghissimo di possibilità; il mondo è sempre più vario e sorprendente di come riusciamo ad immaginarlo. 
Inoltre dimentichiamo spesso che dietro tantissimo capolavori c’è il lavoro paziente e tenace, ci sono tanti tentativi parzialmente riusciti, che dunque acquistano un loro specifico valore, come può essere la strada che conduce (in un tempo e in un modo non deciso da noi) alla realizzazione di sè.
Assecondare la propria vocazione, mi sembra analogo ad accettare di stare su una strada, di rimanere in un cammino, di cui magari vedi appena pochi metri avanti. Ci sono tante curve, non vedi oltre la prima. A volte ci può essere nebbia. O ti trovi a percorrere una selva oscura, magari. Sei inquieto o triste o insoddisfatto, forse non sai nemmeno perché. Non per questo, devi smettere di camminare: “Guarda che dopo splende il sole; sei dentro l’onda, ma poi sbuchi fuori e c’è il sole” (Luigi Giussani). 
Non per le difficoltà, il tuo diventa meno ragionevole. 

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