Blog di Marco Castellani

Categoria: DarsiPace

Ripartire dalle emozioni

Due cose mi vengono in mente, dopo aver assistito alla proiezione di Inside Out. Due cose diverse ma abbastanza congruenti, assolutamente compatibili. Una più generale, ed è posta alla  radice stessa – mi sembra – del percorso di realtà come Darsi Pace: quel “ripartiamo dalle emozioni” che segna tanto il primo paragrafo dell’omonimo testo di Marco Guzzi, quanto percorre in sottotraccia tutto l’arco di questa deliziosa pellicola. Ecco, ripartiamo dalle emozioni, e ripartiamo da tutte le emozioni. Senza censurare nulla. 
Così mi pare che il messaggio di Inside Out sia duplice, essenzialmente. Non solo ripartire dalle emozioni, ma anche, non escludere niente a priori. Tutto ha la sua funzione: perfino la tristezza. Addirittura la rabbia, serve, è utile. Senza voler svelare nulla, possiamo senz’altro dire che è piuttosto scoperto il ruolo che queste emozioni apparentemente “negative” (dalle quali fuggiamo in ogni modo, appena si può) rivestono nel cooperare affinché la gioia di vivere possa ritornare ad avere dimora stabile nella mente dell’uomo (della piccola Riley, in questo specifico caso). 
Rabbia, disgusto, gioia, paure e tristezza… tutto serve, se ben composto.
E’ vero che le emozioni non sono tutto. D’accordissimo. L’ideale sarebbe un interscambio virtuoso tra ragione ed emozione, un dialogo continuo ed amichevole che informi e guidi la percezione del mondo e le scelte conseguenti. E’ pur vero, però, che veniamo da un lungo periodo in cui, direi tristemente, si è posto molto l’accento sul razionalismo anche in molti processi conoscitivi e segnatamente scolastici. Identificando totalmente l’essere umano con la sua parte logica, raziocinante, spesso (con molte virtuose eccezioni…) trascurando o anche censurando la sua parte emotiva, si è proceduto – spesso senza intenzione – a produrre delle persone fragili, essenzialmente impaurite dal proprio oceano emotivo interiore, rimasto alla mercé di sé stesso, assolutamente ineducato.

Avverte Marco Guzzi, in apertura appunto del libro Darsi Pace, come “dal punto di vista emotivo la nostra umanità sembra sempre più fragile e infantile, sembriamo spesso inconsapevolmente posseduti da flussi emotivi, da passioni mai seriamente indagate, come diceva Jung, che possono diventare tempeste collettive quando si scaricano sui teatri ormai planetari della storia.”

Ben venga dunque un richiamo a riprendere familiarità con i nostri stati emotivi. A cercare di riprenderli, riabilitarne la dignità, comprendere come servono alla vita, alla vita vera. Un primo atto di riconciliazione con sé stessi, che è anche inevitabilmente un atto sociale e politico, nel senso che incide radicalmente nella percezione che abbiamo di noi e degli altri, e dunque inevitabilmente sui rapporti più risanati che diveniamo capaci di intrecciare.

Una seconda cosa che mi è tornata in mente, in relazione al film, è un passaggio della bella canzone Fango di Lorenzo Cherubini, “L’unico pericolo che sento veramente, è quello di non riuscire più a sentire niente…” Ecco. Questo nel film è palese, scoperto, manifesto. Il momento più terribile, direi quasi orribile, non è affatto uno di quelli nei quali la simpatica protagonista agisce dominata da una emozione magari “sgradevole” (rabbia, disgusto, paura, tristezza). Assolutamente no. E’ invece quello in cui lei stessa perde il contatto con le sue emozioni. Di qualsiasi tipo possano essere.

Scrive assai lucidamente Claudio Risé, in un articolo su Tempi, che ” …il guaio oggi non è lo strapotere delle emozioni, ma il fatto che non ci siano quasi più. Nessuno che prenda a pugni un tavolo come fa Rabbia (rosso, basso e inquartato, grande casinista), o che sia gioiosamente pazzoide come Gioia, radicalmente pessimista come Paura (che a un certo punto esclama: «Ottimo, oggi non siamo morti»), schifato come Disgusto davanti al broccolo, esausto e contagiosamente melanconico come Tristezza (che quando tocca un bel ricordo, lo rompe). Tutti neutri, beneducati, che non si capisce cosa pensino. Un vero guaio, anche per la psiche. Che senza emozioni si spegne.”

E’ quello il momento davvero pericoloso. E’ lì che si perdono i colori del vivere. Per il resto mi sono accorto che sono uscito con un senso di pace. Come se già riconoscere le emozioni, accettarle, fosse già una azione, una minima azione, terapeutica.

Riconoscere che la salute mentale è anche nel permettere l’avvicendarsi delle emozioni (senza “bloccare” per forza quelle che non ci aggradano) vuol dire essenzialmente volersi bene.  E’ l’inizio di una insurrezione benefica, un cammino nuovo di amicizia con la vita, dopo tanto freddo esercizio di logica. Eccole qui: rabbia, disgusto, tristezza, paura, gioia. Le prime quattro le bandiresti dal tuo orizzonte interno, potendo. Vorresti essere un uomo migliore, una donna perfetta: concederti queste passioni non è bene, non è adulto. Non si fa… Eppure sono proprio loro che  – in uno splendido gioco di squadra – renderanno possibile il ritorno della gioia nella vita di Riley.

Davvero tutto coopera a rendere colorata la vita, a vivere sempre intensamente il reale (per riprendere una bella frase di Luigi Giussani), se davvero niente si censura, nulla si esclude.

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Silenzio

Ciò che mi avvince di più di questi due giorni che precedono la Pasqua, è che sono i giorni del silenzio. Il silenzio è spettacolare, per me. Semplicemente spettacolare. Più vado avanti nella vita più sento che il silenzio è uno spettacolo. Più cresco più avverto il silenzio come confacente al cuore.
E’ proprio strano. A volte ciò che mi fa più paura e ciò che mi fa bene coincide, viene a sovrapporsi. Il silenzio è una di queste cose. Sì il silenzio fa paura, siamo abituati a temerlo. Nel flusso continuo di informazioni che proviene dai media, non c’è ormai più niente che possa preoccupare davvero, che possa imbarazzare, che possa agitare. Tutto quello che fluisce in televisione, in radio, su Internet, viene immediatamente scansato, sovrastato da quello che passa un momento dopo. Tutto si dimentica, ogni scandalo, ogni eccesso, ogni apparente trasgressione. Tutto.

Tutto, certo, tranne il silenzio. 
L’unica regola, lo sappiamo, è che il flusso non si può interrompere. The show must go on. Questo è l’unico vero problema, l’unico vero scandalo. Il resto passa. Il resto è spesso tristemente funzionale al mantenimento dello status quo, anche quando si ammanta di pretese sovversive o rivoluzionarie.

Dico ciò, sia chiaro,  non per indulgere nella critica della cattiveria dei tempi, perché questi sono tempi per molti versi immensamente migliori di tante altre epoche, e di questo dobbiamo essere grati. Lo dico piuttosto come tentativo di uno sguardo onesto sulla realtà, uno sguardo amichevole ma onesto.

Perché mi rendo conto che nell’epoca attuale l’unico scandalo è il silenzio. L’unica cosa completamente altra rispetto alla trama ordinaria della comunicazione globale. Nell’epoca della globalizzazione informatica, la rivoluzione è l’assenza di segnale, il silenzio.

Tolta la pressione esterna, può avvenire il riequilibrio. Interrotta la bulimia informativa, quella che trattiene inesorabilmente in superficie, riparte quasi spontaneamente la connessione con strati più profondi.

Avviene, riprende almeno come possibilità, il lavoro interiore, l’ascolto di sé, la ricerca di senso. Pervade il cuore la dolce possibilità di un ricominciamento. Quel lavoro su di sè che davvero rende giovane l’anima, accende qualcosa che palpita e riscalda da dentro, profondo e robusto.

Qualcosa di fragile, fragilissimo, che va coltivato amorevolmente, perché anche un poco di questo lavoro umile, questo affondare le mani nel (proprio) terreno, subito ripaga. Così ci si può accorgere che il silenzio, l’attesa, riverbera la possibilità inesausta di fare pace con sé stessi, di darsi pace.

Che poi è l’unico vero importante lavoro della nostra vita. Questo paziente lavoro sull’anima – più di tanti proclami e roboanti risoluzioni – è quello che davvero può cambiare la vita, può innescare la vera, unica rivoluzione.

Può veramente assumere un riverbero pasquale, può veramente rimetterci in vita. 

Questo post rappresenta il mio secondo contributo al sito Darsi Pace. 

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Lavorare la crisi

Sono io in crisi con la religione o è la religione stessa ad essere in crisi? Bella domanda. Del resto, l’osservatore influenza il fenomeno, me lo dice la fisica. 

Ma la crisi c’è, su questo non posso barare.

Non basta ripetermi “Dio mi ama, Gesù è morto per me” perché tutto vada a posto. Luigi Giussani diceva anni fa come “Quello che manca nella Chiesa non è tanto la dizione letterale dell’annuncio, ma l’esperienza di un incontro…” e la verità di queste parole mi brucia aspra sulla pelle.

Siamo sofisticati, oggi. Non mancano certo le offerte spirituali, nell’odierno mercato globale. Né mancano variegate proposte di percorsi psicologici, le innumerevoli ginnastiche, o le offerte culturali, quelle letterarie o specificamente poetiche. Ogni proposta sul “mercato” è sovente capace di andare in grande dettaglio in quello che propone, affondare “in verticale” su un determinato e ben specifico segmento. Ma rimane come chiusa in sé stessa, slegata da tutto il resto. Quello che non trovo, è una visione forte che garantisca una unificazione armonica di tutto questo. Che sia necessaria e non appena un anelito culturale o estetico, me lo dice – assai concretamente – la mia sofferenza. C’è un vuoto, che fa male. «È l’umanità che ha abbandonato la Chiesa o è la Chiesa che ha abbandonato l’umanità?» si chiedeva realisticamente Giussani, citando Eliot. C’è una ferita da abbandono, comunque, da sanare.

Credit: Hubble: NASAESA, & D. Q. Wang (U. Mass, Amherst); Spitzer: NASAJPL, & S. Stolovy (SSC/Caltech)

Darsi Pace può essere un approccio utile per lavorare (in) questa crisi. Arriva come ipotesi di risposta ad una ricerca che avevo dovuto avviare, non certo per motivi di erudizione, bensì spinto da un malessere sempre più pungente. Il malessere che mi ha spinto, più di un anno fa, a vincere paure e resistenze e cercare aiuto da un terapeuta. Quel malessere che mi ha portato a leggere di psicologia, iniziando a comprendere che c’è molto di più dell’ambito asfittico in cui vedevo avvizzire la stessa scienza e il mio lavoro di astrofisico, e che “quello che non si vede” ha una influenza decisiva sul benessere dell’anima. Quel pungolo che mi porta a frequentare la poesia, che trovo sia ormai l’unico modo di esprimersi totalmente “non retorico”. Oppure ad interessarmi ai filosofi orientali e allo Yoga, superando le mille resistenze interne ed esterne (“ma è robba da cristiani? E’ peccato? ma non te stai a sbajà? E se poi perdi la fede? Se mi diventi buddista, induista?”).
Questa crisi mi ha portato a sentire spesso la fede come drammaticamente scollegata dai miei entusiasmi, dalle mie pulsioni: sovente – nelle pratica di vita – tradotta quasi esclusivamente in una serie di gabbie morali contro cui covava e cova (con imbarazzo e sensi di colpa) un forte ed indistinto risentimento. In questo senso, nell’approccio di Darsi Pace ho intravisto una possibilità percorribile di tenere la fede e tutto il resto, insieme, in armonia.
Nessun’altra proposta psicologico-spirituale che finora ho incontrato mostra di prendere sul serio tutto quello che il mio cuore mi indica come valido, dalla meditazione orientale ai testi di Jung, alla poesia. Nessun’altra proposta mi dice così chiaramente che se spesso non avverto la divinità come amore ma come severo giudice non è perché sono sbagliato (…e via con altri sensi di colpa!) ma è solo perché devo fare un percorso, devo guarire.
Il malessere adesso assume parvenze più lavorabili. In darsi pace ho una ipotesi di lavoro in più. Un luogo di salutare ricominciamento. Una possibilità di fare un cammino, o meglio, di integrare ed inverare il cammino spirituale che già faccio, psicologico (con la terapeuta) e culturale (nel mio lavoro di astrofisico) e artistico (nella mia vocazione per la scrittura, che mi ha sempre accompagnato, anche se non sempre l’ho voluta riconoscere). La scoperta, per me, è che questo nuovo e urgente lavoro non sostituisce niente, nemmeno le altre mie appartenenze – ecclesiali e non – ma le rende tutte più vere. Sorprendente, a viverlo.
Nell’ambito di Darsi Pace capisco che se sto male non è solo un problema mio personale, ma è legato ad un travaglio universale, cosmico. Così la domanda di partenza inizia ad ammorbidirsi, gemmano possibili traiettorie di risposta. Che differenza vedere i miei personalissimi disagi – che iniziano a diventare più morbidi – sotto questa luce!
Già, ammorbidire il disagio, lavorare la crisi, senza più scandalo. 
«Nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza, nell’abbandono confidente sta la vostra forza» (Isaia, 30, 15)
E’ questo il motivo per cui darsi pace, ora, è diventato così importante nel mio percorso.

La foto rappresenta un’immagine astronomica del centro galattico, sede di intense trasformazioni e di un ‘travaglio cosmico’ veramente impressionante Se guardiamo al cielo, scopriamo che – a differenza di quanto si pensava un tempo – l’Universo stesso è in subbuglio e in furiosa trasformazione, non è mai stagnante: l’astronomia moderna ce lo mostra continuamente, suggerendo evocative connessioni con il palpito del cuore dell’uomo moderno. In particolare, la zona centrale della Via Lattea è un posto dove bellezza e violenza convivono fianco a fianco, intarsiato di zone dove nascono tumultuosamente nuove stelle, dove cioè il nuovo si origina in una sorta di continua nascita, mentre il vecchio viene spazzato via e fagocitato dal buco nero di grande massa, che vi si trova al centro.
Questo post è la leggera rielaborazione (con link aggiunti) di un mio contributo al sito Darsi Pace.

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Dopo Parigi…

A volte nella confusione della grande quantità di rumori, di innumerevoli strategie interpretative di ogni cosa, emergono segnali in fase, segnali concordanti. Che si rinforzano in una sintonia virtuosa, per cui inizi a maturare degli indizi di una possibile certezza. A covare questo senso caldo e inconfessabile di comprensibilità del reale. 

Può accadere per le piccole cose, per gli affetti personali, e anzi quando accade è un conforto grande. E può accadere per avvenimenti “esterni”, che comunque  si presentano alla coscienza e la interrogano. Chiedono uno schema interpretativo (ultimamente) positivo, aperto e lavorabile.

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Ecco, ritrovo una confortante unità di accenti, qualcosa che mi rassicura e mi fa pensare di essere sulla strada giusta. Di essere, appena, sulla strada. E’ quello che penso leggendo l’intervento di Julian Carron, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, che interviene sui fatti di Parigi. Sì, perché leggendo non posso fare a meno di ritornare a quello che scrisse “a caldo” Marco Guzzi, proprio all’indomani della strage. Ed è come se leggessi la stessa cosa, appena incarnata in una sensibilità diversa. Come lo stesso oggetto, descritto attraverso due vocabolari, due sistemi di riferimento, differenti solo all’apparenza. Non conflittuali, peraltro: anzi, felicemente complementari.

E’ quello che mi conforta di più. Prendo dallo scritto di Juliàn Carron,

Questa situazione storica è un’opportunità eccezionale per tutti: anche per i cristiani. L’Europa può costituire un grande spazio per noi, lo spazio per la testimonianza di una vita cambiata, piena di significato, capace di abbracciare il diverso e di destare la sua umanità con gesti pieni di gratuità. 

Ritorno allo scritto di Marco, e leggo

Questo è il tempo della nostra conversione, della conversione dell’Occidente ai propri stessi principi, altrimenti anche libertà, fraternità, e uguaglianza, saranno morte parole, che già infinite volte sono state utilizzate per schiavizzare popoli interi e imporre ingiustizie e stragi in tutto il pianeta, a partire proprio dalla rivoluzione francese e dall’arroganza della sua ragione totalitaria.

In entrambi gli interventi ricavo questo senso di opportunità, questo leggere attraverso eventi anche dolorosi, tragici, per vedere cosa di positivo possiamo trarre. Perché allo sbigottimento, del tutto comprensibile, non segua l’inattività del cinismo e del freddo disincanto, ma ci si possa mettere in cammino, con una prospettiva buona.

Apro una parentesi personale. Quando ho iniziato il cammino di Darsi Pace, nell’ottobre dello scorso anno, ho allo stesso tempo dato – inevitabilmente – inizio anche un lavoro di raccolta di evidenze, di concordanze, ho insomma esteso la mia richiesta di unità delle cose e dei punti di vista a tutto ciò che adesso interessa la mia vita. Non è certo una indagine accademica: è piuttosto un lavoro di portata esistenziale, pregnante per la vita quotidiana, per la coscienza di me stesso, al quale non posso sottrarmi. Fa parte del mio lavoro di essere uomo. 

Questo non so se interessi davvero il lettore, ma è  quanto mi riguarda più da vicino. Del resto, l’osservatore è parte del fenomeno osservato, ci insegna la fisica moderna. E’ inseparabile da esso.  Così che per parlare di come vedo il mondo (in fondo è l’unico argomento valido di un blog) bisogna che parli anche un po’ di come sono io. Oltre a tutto questo, che potrebbe sembrare ovvio, se ne scrivo qui è perché credo che qualche semino di concordanza possa interessare chi non è direttamente implicato in questi cammini, ma sia semplicemente mosso da un desiderio onesto di comprendere, e di stima verso posizioni che – pur con registri espressivi diversi – esprimono pacatamente una interessante sensazione di urgenza.

C’è qualcosa che ben travalica il senso di appartenenza a questo o quel movimento, la nostra prossimità a questo o quell’ordine di idee.  Che ben si presta ad un confronto in campo aperto, da uomini liberi (libertà che, detto di passaggio, non è in alternativa ad appartenenza, anzi…). Come ben dice Luca Doninelli in un pezzo di pochi giorni fa, “Le prime due volte – una da solo e una in compagnia – l’ho letto perché l’aveva scritto Carrón. La terza volta l’ho letto e basta, e solo in quel momento mi sono accorto della sua importanza.”  

Il pezzo di Luca è bello, perché schiva lesto le posizioni ideologiche ed astratte, e va piuttosto a cercare l’odore della realtà, con esempi vivi di questa umanità nuova che fa del dialogo il suo strumento espressivo privilegiato e direi quasi irresistibile.

Leggetelo.

Così, non dovrei aggiungere altro, se non che scommettere su questa umanità del dialogo, su questa nuova umanità mi pare la prima cosa e comunque la più urgente. Ed è, come dice il sottotitolo del testo di Marco, un progetto politico e spirituale. Ogni progetto ormai è politico e spirituale insieme, ovvero vede come indispensabile premessa ad un lavoro tra gli uomini il lavoro dentro gli uomini, dentro se stessi, nel farsi docili, nel farsi pane, al fremito di uomo nuovo che vuole sbocciare anche in noi.

Un uomo nuovo, che non si riconosce più negli steccati e negli schieramenti ideologici elaborati nello scorso millennio. Elaborati per separare, per dividere. In ossequio al nostro io belligerante, che si riconosce quando si ritrova in opposizione a qualcuno.

Sembra assurdo dirlo a ridosso di questi avvenimenti, ma forse possiamo ormai fare un passo in avanti.

E’ stato detto autorevolmente molti anni fa. E’ stato gettato un seme… “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna…” (Galati 3,28). E’ una prospettiva ancora da far nostra, ancora da far sbocciare, in senso compiuto. Ci viene più facile distinguerci in persone di destra, di sinistra, credenti, atei… così che l’uomo in relazione – che è definito appunto dalla relazione e non dalla separazione – deve ancora sbocciare. 

Ma i tempi sono prossimi, ormai: le doglie del parto le avvertiamo già.

Possiamo fare una cosa, intanto. Da subito.

Possiamo lavorarci.

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Imbrigliarti tutta

Pomeriggio, interno domestico. Sono lì sul divano. Sto leggendo una rivista di poesia  sull’iPad, quando rimango colpito da un componimento breve. La sua forza – e certo anche il tema – sono complici acché io non rimanga distratto. Anzi. Rimango colpito non soltanto dalla poesia in sé. C’è un fattore aggiunto, c’è che mi ricorda qualcosa. Nel mezzo della lettura mi viene in mente qualcosa. Qualcosa – tra l’altro – di molto più recente della poesia stessa. 

Di più recente ma di straordinariamente simile.

Ma perché io non proceda troppo chiuso… intanto, eccola.

Cavallina brada, perché sbirci me con l’angolo degli occhi

assassini e corri via? Non avrei doti, io, per te?

Attenta! Saprei perfettamente conficcarti il morso,

imbrigliarti tutta, farti fare la curva a fine giro

Vivi la prateria, scarti ariosa. Puledra, non hai 

chi ti pesa addosso, e che sa tutto di cavalle.

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Bene, bisogna dire subito che è una poesia antica,molto antica.  E’ stata scritta da un tale di nome Anacreonte, un poeta greco che visse ben cinque secoli prima di Cristo. La poesia mi colpisce per la metafora decisamente scoperta e (a parer mio) molto efficace. Vedete, ha qualcosa di decisamente moderno, nonostante i secoli che ci separano dal momento in cui fu composta. Come certi componimenti di Saffo, questa poesia risveglia la mia sensibilità con un accento integralmente contemporaneo. Non devo da fare alcuno sforzo per immedesimarmi, per attraversare i secoli.

La poesia è di adesso, accade ora. Del resto, tutto ciò che non accade ora in fondo non interessa, in fondo non esiste.

Ma dicevo, mentre leggo la poesia, un altro materiale mi viene a cercare. Degli altri versi mi risuonano in testa. La mente aggancia una analogia, trova una  corrispondenza, verifica spontaneamente  un intreccio. 

Così mi tornano in mente quelle parole. La canzone è breve, e possiede quella stupenda accorata introduzione che scende subito nel punto. Non c’è tanto da fare accademia, o indulgere in disamine filologiche del testo (come nella poesia di Anacreonte, peraltro), quanto di esprimere un desiderio, anzi – potremmo dire – un bad desire… Qualcosa che tiene sulla graticola, che scotta. 

Hey little girl is your daddy home

Did he go and leave you all alone

I got a bad desire

Oh, I’m on fire

Qualcuno l’avrà riconosciuta: è I’m on Fire, di Bruce Springsteen. Non sono un particolare fan del Boss, ma sono un fan sfegatato di questa canzone. Così diversa e così sincera, ha un taglio intimistico affascinante.

Ma quello che mi colpisce adesso è la strofa successiva

Tell me now baby is he good to you

Can he do to you the things that I do

I can take you higher

Che potremmo ardire di tradurre  come

Dimmi bimba se lui è bravo con te

Se può farti quel che ti farei io

Io posso portarti più in alto

Che ricalca – in pratica – qualcosa scritto appena 2500 anni prima….

Saprei perfettamente conficcarti il morso,

imbrigliarti tutta, farti fare la curva a fine giro

Che possiamo dire. La modulazione dei sentimenti umani è quella. Cosa aveva l’uomo di due millenni fa uguale a quello contemporaneo, se non il fatto stesso di essere uomo, quel nucleo di speranze e desideri, bisogni ed evidenze elementari dai quali ultimamente si riconosce e che la letteratura elabora e rispecchia? E la poesia è come schianto che percorre i secoli, i millenni. Ed è sempre e continuamente moderna. 

Poesia è il dire anti-retorico per eccellenza. E’ il dirsi sincero e perennemente rivoluzionario. Anche quando parla di amore, anche quando alza il velo sui bad desires. Sulla poesia la retorica non prende: scivola, slitta via, non fa presa. Le poesia celebrative di quel partito o di quella ideologia sono poesie – prima di tutto  – brutte. Sono versi violentati. Forzati a qualcosa che non vogliono fare. A qualcosa che non possono essere. Ad un giro che non vogliono e non possono compiere.

La parola spurgata dalla costruzione retorica torna al suo alveo originale. E’ parola che guarisce. Che sfida e converte ogni costruzione egoica iniettando un devastante siero che richiama tenacemente l’uomo a (ri)scoprire se stesso, la sua umanità. Lo costringe a lasciare la presa, lo prende di sorpresa, sbriciola la sua inesausta pretesa di costruirsi una sua sicurazza, di fabbricare un proprio idolo, di formularsi autonomamente uno schema di salvezza. Per riconsegnarlo, spogliato di tutto ciò che non è essenziale, alla sua profondità infinita, al suo infinito bisogno.

E’ davvero un ricostituente planetario, come indica Marco Guzzi nella bella poesia Dal parlatoio.  

Credimi!
E’ forte la parola che ti mando.
La guarigione
Passa per gocce
Medicamentose, per idee.
Scrivile
Tu.
E’ il ricostituente
Planetario.
Non c’è armamentario
Che ti serve. Va’ come sei.
Spargi il mio contagio.

Per questo la poesia non è di questo mondo: è in questo mondo ma non appartiene alle strutture di questo mondo. E’ sempre rivoluzionaria e perennemente guaritrice. E’ qualcosa che scalpita dentro ogni architettura precostituita e perciò stesso già stantia: qualcosa che non puoi domare, non puoi imbrigliare. 

Ma dalla quale, se appena ti lasci prendere, appena inizi a darti pace, sei imbrigliato.  

Cioè, sei liberato

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No, io non sono Charlie

No, io non sono Charlie. Posso dirlo? C’è qualcosa che non mi va giù in questo appiattimento, in questo gridare degli slogan, in questo opporre una linearità concettuale spiacevolmente povera di fronte alla violenza efferata ed ingiustificabile. Cosa è che non mi va? Cerco di capire, cerco di guardare dentro questo istintivo sentimento di disagio.

Ecco, intanto c’è che mi sembra una mossa meramente difensiva, invece che propositiva. Sembra una mossa che non riveli un territorio di ricchezza, ma di povertà. Povertà scaltrita e soffice (alle volte, non sempre), ma povertà. 

Voglio intercalare qualche povero pensiero con quello che ha scritto Marco Guzzi oggi, perché è probabilmente l’analisi più ricca e lucida nella quale mi sia imbattuto. Ricca, in termini di sviluppi e approfondimenti, in rimandi e possibilità. Lucida, perché non ambigua, non compiacente.

Di fronte agli assassini dobbiamo certamente stare sempre dalla parte delle vittime, e pregare per loro, identificandoci con il loro dolore.

Questo è doveroso. Non servirebbe ma è chiaro che i fatti di Parigi sono di una violenza orribile e vergognosa. 

Però questo coro mondiale mi sembra un grido di disperazione: Io sono Charlie, perché non so proprio più chi sono.

Questo è il punto. Io non so chi sono. Tutte le mie identità sono sbiadite. Non credo più nemmeno in quello che ho ereditato, credo solo nel disincanto globale. Il credere a qualcosa mi sembra un passo indietro, non mi sembra moderno.

Di conseguenza, ciò che ci illudiamo sia una costruzione fiorente ed elaborata è ormai sono un involucro, un guscio di retorica e parole inutili, un grande sforzo per coprire un vuoto. Un vuoto che sentiamo drammaticamente su una molteplicità di livelli, da quello sociale e politico a quello psicologico, personale e di rapporti.

La cosa buffa è che questo vuoto è la conseguenza di una scelta, di una opzione culturale, non è che un nostro modo di vedere il reale. Ma non ce ne rendiamo più conto quasi mai.

Allora devo dire, io non sono Charlie. Il diritto di satira è sacrosanto, nessuno lo mette in discussione. Ma io rivendico uno spazio più articolato, meno ideologico, dove si possa dire che Charlie non mi esalta. Ovvio, devo poterlo dire senza che qualcuno pensi che avanzi anche un inizio di giustificazione di un gesto così efferato. No, nella maniera più assoluta.

Chiarito questo, la satira sul sacro – qualunque cosa si creda – mi sembra che riveli più di molto altro, quella posizione tristemente nichilista che ormai ci contraddistingue. Mettere in ridicolo un credo è relativizzare tutto, è dimenticare quell’angolo sacro del cuore, come lo definisce Fossati in una bella canzone.

Allora il punto è capire perché siamo approdati al nichilismo, al nichilismo mercantile nella bellissima definizione di Guzzi, e come invertire il moto, come avviare una ripresa.  

Io figlio di un profluvio di chiacchiere, di nichilismo mercantile, di egoismo narcisistico, di pubblicità e diritti individuali sempre più paranoici e assurdi, Io schiavo di Wall Street e di Bruxelles, di fronte all’offensiva jihadista non so far altro che innalzare la bandiera del diritto alla blasfemia!

Perché la situazione è questa. Ridere è bello, è salutare, ma ridere di tutto è invece tristissimo. Perché vuol dire che alla fine non c’è niente oltre, vuol dire che è tutto parola, è tutto retorica, è tutto – al massimo – una arguta flessione del discorso.
 
Ridere di tutto vuol dire che stiamo coprendo un immenso vuoto, che si allarga tra noi e dentro di noi. 
 
Mi viene in mente il bellissimo dialogo – di una lucidità impressionante – che c’è nel libro La storia infinita di Michael Ende, che molti conoscerete. Artreiu, il bambino eroe, il simbolo del movimento di rinascita, di nuova freschezza, si confronta drammaticamente con Kmork, una entità nera, organico al processo di disfacimento globale
Atreiu: “Che cos’è questo nulla?”Kmork: “È il vuoto che ci circonda, è la disperazione che distrugge il mondo e io ho fatto in modo di attrarlo.” Atreiu: “Ma perché!” Kmork: “Perché è più facile dominare chi non crede in niente e questo è il modo più sicuro di conquistare il potere”.
Nel libro il regno di Fantasia letteralmente crolla di fronte a questo nulla, apparentemente impotente di fronte ad un nemico interno. Ed è il nulla che prende forma negli slogan e nell’identificazione forzata e povera di ragionamenti, oltre che quello giustissimo di aborrire la violenza. Il problema è che un pensiero debole e non  elaborato prima o poi genera violenza comunque. 
 

 
C’è necessità di una rinascita. Come nel regno di Fantasia, così qui. Non è facile, non è immediato. In noi c’è Atreiu, ma c’è anche Kmork. C’è la voglia di riscatto e rinascita, e c’è l’acquietamento pigro e sottilmente disperato, allo stato delle cose attuali (basterebbe pensare a tanti discorsi che facciamo e che ascoltiamo). Ecco perché è necessario lavorare su noi stessi, per fare prevalere il primo sul secondo.
Questo è il tempo della nostra conversione, della conversione dell’Occidente ai propri stessi principi
Questo è importantissimo, è decisivo. Dobbiamo lavorare su noi e tra noi perché non debba scorrere altro sangue, perché ogni vittima è un segno di quanto stiamo tardando, in questo processo…
…altrimenti anche: libertà, fraternità, e uguaglianza, saranno morte parole, che già infinite volte sono state utilizzate per schiavizzare popoli interi e imporre ingiustizie e stragi in tutto il pianeta, a partire proprio dalla rivoluzione francese e dall’arroganza della sua ragione totalitaria.
Ci serve veramente un nuovo inizio, un ricominciamento
Dobbiamo cioè riscrivere la nostra storia per ridare al mondo un nuovo inizio, uscendo da questo impasto di risate isteriche e di pianti senza fine.
Un lavoro che deve svolgersi dentro di noi prima di tutto, perché siamo ancora troppo impastati dell’uomo vecchio, l’uomo del secolo scorso (che si sia magari detto laico, o cristiano, o musulmano, o rivoluzionario…), capace di ragionare solo per opposizione, definito dalla necessità di trovare un nemico: tristissime tutte le chiamate alle guerre di civiltà o di religione a cui si assiste in questi giorni – tristi e pericolose.
 
C’è proprio bisogno di un nuovo modo di vedere il mondo, un nuovo modo di darsi pace. 

E’ un lavoro lungo, ma sono proprio fatti come questo che ci devono convincere che non è più dilazionabile. Va iniziato subito, adesso.

Per riprendere ancora le parole di Marco Guzzi, nel volume “La nuova umanità”, “le culture moderne (…) compresa quella laica e scientifica, sono chiamate a rinnovarsi riscoprendo la prole sorgenti spirituali tuttora vive e aperte, ed è proprio questo processo di riconiugazione vicendevolmente purificativa tra cultura moderna e tradizione ebraico-cristiana che costituisce il grembo vivo delle cultura dell’umanità nascente, entri la quale perciò si vanno già relativizzando fino quasi a sfumare i confini tra credenti (cristiani) e non credenti (occidentali)…”  

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Un luogo di ricominciamento

Pazienza, perseveranza, umiltà e coraggio… L’ho segnato sul mio tablet, domenica mattina, cercando di trattenere qualche “indicazione operativa” per avviare il lavoro personale.
L’entusiasmo dell’inizio infatti, so bene come è, è bello e confortante – il luogo del ri-cominciamento ha qualcosa di magico e brillante, al suo interno – ma va nutrito e rinfocolato ogni giorno, altrimenti darsi pace rimane un bellissimo anelito ma il lavoro concreto rimane sempre “dietro”: dietro a qualcosa che appare sempre più urgente, foss’anche “girare il sugo” come diceva Marco (quando del resto s’era ormai fatta ora di pranzo…). Del resto con quattro figli, una moglie, un lavoro, uno gli impegni non se li va a cercare. Ti trovano loro: puoi stare tranquillo. 
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Come un possibile ritorno…
Lunedì mentre la mia Paola si sottoponeva al suo piccolo intervento in day hospital (tutto bene, grazie al cielo), ero lì in sala d’attesa: sotto di me una meravigliosa veduta di Roma che si svegliava pigramente alle prime luci del sole, accanto a me il mio volume Darsi Pace, rispolverato per l’occasione (vuoi vedere che stavolta il lavoro si fa veramente?), un po’ di sonno per l’alzataccia, ma tanta voglia di mettersi all’opera. E un senso sottile me piacevole, confortante: come di una nuova nascita. Come di un possibile ritorno.
Più riguardo a Darsi pace
Ritorno. Marco Guzzi l’ha scritto sulla lavagna, domenica mattina, come prima cosa: sulla lavagna della sala Zatti dell’Ateneo Salesiano. Primo incontro della prima annualità dei gruppi Darsi Pace. Così, La via del ritorno. E mi ha colpito subito, come fosse un messaggio personale, un codice cifrato rivolto specificamente a me. Il mio tentativo letterario più ambizioso, il mio romanzo, l’ho proprio chiamato “Il ritorno”. Non ci credo alle coincidenze, non ci credo più. Tutto ha un senso. Non in generale: un senso per me, adesso.
Il sole è ormai alto, Roma è sveglia. Da qui, da questa collina, è come se si abbracciasse tutta quanta. Si potesse quasi amare tutta, lei e le persone che la abitano. E lo stato di forzata attesa, favorisce quest’idea della lettura meditativa. Passare e ripassare sulle stesse frasi, fino a farne uscire il succo, a sentirne il gusto, percepirne – almeno un po’ – la carica terapeutica.
Passare e passare sulle stesse pagine: ma perché? Per una cosa di pura esperienza, perché in questo momento mi fa bene. Esperienza: di discorsi – anche giusti, soprattutto giusti – ne ho a sufficienza. Basta, basta per carità. Che poi uno sperimenta l’amarezza dello scarto tra i discorsi “edificanti” e il tono generale della vita, o di tanta vita. Basta discorsi. Esperienza, ci vuole.
E l’esperienza di avere questo libro vicino, da prendere e riprendere, durante l’attesa, è buona. Conforta, riscalda. Dona una prospettiva di senso, anche se ancora potenziale.
Poi l’attacco dei dubbi (lucidamente preannunciato da Marco) avviene, strisciante ma concreto: sono troppo vecchio, troppo giovane per questo lavoro? Sto troppo male (che direbbe la mia psicologa…), troppo bene? E il più destabilizzante, “ma quante complicazioni: non basta pregare?” Dubbi che mi trovo ad affrontare anche nel lavoro proposto dal movimento al quale mi sento prossimo, quel  luogo dove – nel lontano 1984 – ho inaspettatamente scoperto che la fede può essere una cosa interessante, e perfino conveniente.
Lavoro, che mi appare così, ora: vicino e compagno di quello indicato in Darsi Pace.
Una possibilità, l’inizio – appena – di una verifica, che andrà fatta nel tempo. Del resto, tutto richiede una verifica empirica, nei giorni: niente è acquisito una volta per tutte, niente risparmia dalla condizione di ricerca. Anzi ogni evidenza, ogni luce nel cammino, di solito fa questo, rilancia…
 
Un possibile ricominciamento. Datato domenica 12 ottobre, anno di grazia 2014.

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