L’inizio di una storia

Abbiamo già visto qualcosa di questo ammasso, nel recente passato, ma ora entriamo proprio – per così dire – nel suo cuore. Il cuore, cioè, dell’ammasso giovane di stelle chiamato NGC 1333. Distante da noi appena mille anni: un’inezia, dal punto di vista astronomico.

Il Telescopio Spaziale James Webb lo scruta attentamente, con l’idea interessante di identificare piccole stelle nane brune e pianeti liberamente vaganti per la nube stessa.

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Il compito essenziale

Più volte ci siamo richiamati alla necessità di pensare un cosmo accogliente, uscendo dall’arcaico (ma perdurante) teatro concettuale che ci descrive un universo freddo, statico, indifferente a noi. Constatata la necessità, dobbiamo ammettere al contempo che non ci viene facile: c’è come una resistenza, una forza di inerzia, che viene esercitata in senso contrario a questo nostro desiderato e fondamentale percorso di liberazione psico-cosmico.

Senza girarci troppo attorno, credo sia lo stesso assetto della società in cui viviamo, che esercita questa resistenza. Il sistema neoliberista (efficacemente definito da Marco Guzzi come “estremizzazione del pensiero economico-liberale che porta alla cancellazione di ogni limite per il mercato e, quindi, di ogni controllo da parte degli stati nazionali nei confronti di entità multinazionali e delle corporations”) – che si espande ormai in uno spazio vuoto, non incontrando più la pressione contrastante di visioni differenti – ha assoluto bisogno di persone che non lo contestino, che si accontentino, che non sia accorgano, soprattutto, di essere re o regine.

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Due metri quadri di confine. Oppure no?

Ogni tanto ci torno anche io, a vedere i numeri. Più di tremila i miei post, dal lontano 1997, in questo sito. Molti parlano del cosmo. Ma di che parlavo, mi chiedo, quando parlavo del cosmo? Credo che in fondo, parlassi di me. Credo che, alla fine, non si possa che raccontare la propria storia. Anche se si parla del Sole, delle galassie, dei quasar. Anzi, soprattutto se si parla di loro.

Mi è sempre più difficile andare avanti trascinando il vecchio, logoro paradigma di un cosmo fuori di me drasticamente separato da un cosmo dentro di me, come se circa due metri quadri di sottile rivestimento, definissero un confine non permeabile, non valicabile. Quasi tale esilissimo epitelio separasse drasticamente il mondo in due, con dinamiche inconciliabili, da una parte e dall’altra. Fuori di me, dentro di me.

Una bella immagine della Serpens Nebula, acquisita dal Telescopio Spaziale James Webb (Crediti: NASA, ESA, CSA, STScI, K. Pontoppidan, J. Green)

Fuori dalla pelle, il cosmo. All’interno, il mio essere biologico e (da qualche parte) la coscienza. Mi piace così? Bene, al di là di ogni dissertazione accademica, se insisto a dimorare in questo modo di veder le cose, soffro. Se stacco il mio senso del vivere dalle galassie, se lo penso separato, sento subito che c’è qualcosa che non va. Da quando un oggetto cosmico – fosse anche un remotissimo quasar – entra nei radar della mia consapevolezza, mi dice di esistere, non posso più far finta di nulla. Ogni rimozione, lo so bene, mi fa diventare artificioso.

Azzardo un piccolo inciso, sulla coscienza. Se ha ragione Federico Faggin1, la coscienza è fondamentale ed irriducibile, ed esiste prima di ciò che chiamiamo materia. E già questo, preso alla lettera, mi farebbe scombinare tutto il quadro. Ma torno subito al mio ragionamento, per non mettere troppa carne al fuoco.

Dentro e fuori, mi domando, insistono le stesse priorità? Forse sì.

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Un Sole effervescente

Mi sono già occupato di effervescenze solari, ma quando mi sono imbattuto in questo video, non ho potuto evitare di rimanere colpito. Che il Sole sia (per così dire) effervescente è infatti una cosa che sfida il mio paradigma di pensiero ordinario, cioè il modo in cui vedo le cose quando non ci penso. Sì, posso pure aver scritto una monografia sul Sole, ma non c’è affatto problema, mi dimentico uguale.

Un po’ come la faccenda dell’universo in accelerazione, che non mi viene per nulla naturale. Cerco di figurarmela, ma ricado esistenzialmente nella nozione di universo statico, ricado gravitazionalmente in un punto abitato da tanti, con me e prima di me. E’ faticoso andare davvero avanti, ci vuole un bel lavoro di pensiero, di riflessione. Già Jung avvertiva che la cosa più difficile di tutte è essere veramente contemporanei.

Posso pure aver risolto l’equazione di campo di Einstein ed esaminato la legge di Hubble in meticoloso dettaglio, verificando con grande cura i redshift di galassie lontane, ritornano a capire che tutto è in continuo movimento. Ma poi magari torno a casa certe sere, che sembra proprio non si muova nulla, dentro e fuori di me.

L’ho già citata altre volte, ma trovo espressa benissimo questa sorta di inerzia conoscitiva nella canzone Un’idea, del grande Giorgio Gaber

Aveva tante idee
Era un uomo d’avanguardia
Si vestiva di nuova cultura
Cambiava ogni momento
Ma quand’era nudo
Era un uomo dell’Ottocento

Perché noi siamo così, siamo ancora quasi tutti immersi nell’Ottocento (con il corpo, ma anche con la testa). Cosmo statico, stelle fisse e perfette (non si danno variazioni superficiali su di esse), tutto fermo o impegnato a percorrere splendide circonferenze che si ripetono all’infinito, rendendo dunque inutile il tempo, svuotandolo di senso. Il tempo, inteso come variazione ma anche come progresso. Su questo schema arcaico, retaggio millenario che non vuole cedere, si infrange il nuovo paradigma che la moderna indagine scientifica ci veicola.

Scrivono Leonardo Boff e Mark Hataway, nel Tao della Liberazione, che

L’immagine dell’universo come un orologio è andata in frantumi, e ciò che emerge al suo posto è qualcosa che possiede una natura di gran lunga più olistica, qualcosa che somiglia molto di più a un enorme organismo che non a una macchina.

Tutto questo non può che avere enormi ricadute sul pensiero, ricadute che devono entrare ovunque. Perfino le categorie con cui pensiamo il sacro, ad esempio, devono essere riviste ora dentro il dato cosmologico di un universo in espansione. Se il cosmo cambia, sorge il problema di capire verso dove cambia. Da più parti si avverte come necessaria una nuova alleanza tra metafisica e scienza: non realizzarla, è un danno per entrambe le discipline, ed è un danno sopratutto per l’interiorità della donna e dell’uomo di questo tempo.

Paolo Gamberini, in Deus 2.0, definisce con felice intuizione un significato – tanto cosmologico quanto spirituale – del divenire (un concetto, questo del divenire, inapplicabile al cosmo, già solo per i nostri bisnonni)

Dal disordine il cosmo intero va verso l’ordine in cui nella pienezza sarà realizzata la vita divina che è essenzialmente dare la vita.

E’ molto bello ed utile rendersene conto, perché solo così possiamo fare un vero lavoro su di noi. Altrimenti il grande rischio è di trascorrere la vita in modo irriflessivo, magari dicendo con la bocca tante belle cose sull’universo in espansione ma gravitando al contempo dentro un universo del tutto fuori moda, fuori tempo massimo, ovvero quello statico. In un certo senso io creo il mio mondo, pertanto se io sono convinto di essere dentro un universo statico, in qualche modo ci sono davvero. In qualche modo, per me, l’universo ora non si espande. Accade, accade spesso, di stare in un universo che non si muove.

Un modo privilegiato per lavorare sul necessario svecchiamento delle nostre stesse percezioni è quello di essere aperti ai segnali che giungono dal cosmo. E’ una splendida palestra per rinnovare noi stessi, la ricerca astronomica. Perché sfida costantemente il nostro pensiero stagnante. Non con discorsi, ma con immagini come questa qui sotto.

E’ un filmato che ha la sua età (undici anni) ma è stato appena rilanciato da APOD ed è sempre impressionante.

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Super, perché Luna

Non molti giorni fa – alcuni fra voi l’avranno notato – abbiamo goduto di una bellissima superluna. Chiamiamo superluna, nel dettaglio, la coincidenza del fatto che la Luna è piena con la circostanza della maggiore vicinanza alla Terra. L’effetto è piccolo, da osservare ad occhio, ma esiste.

In Osservatorio, come potrete capire, non potevamo evitare di rilanciare questo evento astronomico, accessibile a tutti (qui lo spettacolo è assicurato, non servono grandi telescopi): la foto dal nostro account X è di Elisa Nichelli, con Phone 15 pro max usando zoom ottico massimo e aggiustando l’esposizione (e… trattenendo il fiato fortissimo) 😄

La superluna appena trascorsa era anche, per la cronaca, una luna blu, secondo la definizione per la quale così si chiama la terza Luna piena che accade durante la medesima stagione. In realtà non appare particolarmente blu, ma tant’è. Che poi non c’è chiaro accordo, un’altra definizione di Luna blu infatti la individua nella seconda Luna piena dello stesso mese (tanto per complicare le cose).

Una fantastica immagine catturata da Alexandros Maragos

Prescinendo dalle varie ipotesi di spiegazione riguardo alle varie denominazioni, questa bellissima immagine ci mostra la superluna blu mentre sta sorgendo dietro il Tempio di Poseidone, presso Capo Sunio, in Grecia.

Questa superluna è particolare perché fa da apripista, è la prima di una serie di quattro: le prossime tre da osservare ci aspettano a settembre, ottobre e novembre.

Fin qui il puro dato osservativo. La Luna però – vorrei permettermi – è sempre super. Perché la Luna è davvero un corpo celeste speciale. Lo possiamo vedere come il simbolo dell’alterità, di ciò che vive accanto a noi ma non è noi. Certo, anche Saturno, anche le altre galassie, i quasar, non sono noi, non sono il nostro mondo. Ma sono oggetti lontani, inaccessibili in un certo senso.

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Come andrà a finire?

Spesso ce lo chiediamo, come andrà a finire? Domanda legittima in diverse circostanze: quando magari non intravediamo lo sviluppo di qualcosa che ci sta a cuore, quando vorremmo soltanto correre in avanti, quasi scavallando il tempo, nell’ansia incontenibile di sapere. Che poi le cose hanno un loro svolgimento, spesso si definiscono proprio nel tempo, così che non sempre è realmente produttiva questa fuga dal presente.

Tutto questo è – se possibile – ancora più vero anche quando intendiamo la domanda nel più ampio senso possibile, cioè riferendola al cosmo. Come andrà a finire il tutto? Che ne sarà, nel tempo, di questo nostro universo fisico? La ragione calcolante vuole risposte precise, pretende dati quantitativi, a volte ignorando che le risposte vengono solo passando attraverso delle fasi, impregnandosi con ciò di cui si sta trattando. Insomma, non è detto che la domanda sia sempre e comunque ben posta, anche se la curiosità è comprensibile e legittima.

Di tutto questo discorro con Gabriele Broglia, sempre sotto la attenta ed affettuosa guida tecnica e regista di Emanuele Giampà, nella sesta puntata della serie di Darsi Spazio, puntata che rappresenta anche la chiusura di stagione (e mai titolo potrebbe dunque essere più appropriato) per questo primo ciclo di conversazioni.

L’episodio si apre con una citazione di Federico Faggin (un post dal suo account X) ed una di Marco Guzzi (dal suo volume Dalla fine all’inizio) che ci aiutano ad imboccare (credo) il giusto sentiero, per arrivare poi a discutere delle varie (interessantissime) teorie della fine del cosmo, per come le possiamo delirare alla luce delle conoscenze attuali.

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Apri il cuore, sto tornando

Immagina adesso, di rientrare a casa dopo un lungo viaggio fuori dalla Galassia. Sì, questa volta ti sei voluto prendere davvero una bella vacanza, una vacanza come si deve. Ma ci sta, ti capisco benissimo. Andare veramente lontano, centinaia di migliaia di anni luce (letteralmente), distante da tutti i luoghi già visti. Spingersi perfino fuori dalla Via Lattea, alla fine lo devi fare se ti vuoi vantare di essere un vero viaggiatore cosmico. Scorrazzare per Laniakea, surfare leggero lungo le increspature delle distese stellari in questo immenso paradiso, è troppo divertente, per non provarci, almeno una volta nella vita.

L’universo, d’altra parte, è un posto veramente enorme. Ricordi? Sembrano già passati millenni da quando si dubitava sull’esistenza di altre galassie, oltre la nostra. Sembra, perché, lo sai bene, era appena il febbraio del 1920, quando si tenne quel Grande Dibattito, quello tra i due dotti scienziati, che sostenevano tesi opposte (e lì per lì non hanno concluso niente). Beh, ma ora è chiaro, il cosmo è pieno di galassie. Gli amici astronomi ti assicurano, più di 100 miliardi. Decisamente troppe, per visitarle tutte. Non basta una vita.

Proprio così, stanno le cose. Puoi viaggiare per anni con la tua astronave a propulsione subliminale e, capisci, ancora non arrivi a vedere tutto quel che c’è da vedere. Sul tuo navigatore stellare aggiornato sono riportati, ormai, quasi tutti i ponti di Einstein-Rosen conosciuti (li aggiornano direttamente gli utenti, quando li trovano, i più diligenti li inseriscono volontariamente nell’applicazione), in modo che puoi sfruttarli per sbucare con poco sforzo in posti esageratamente lontani. E con tutto ciò, ancora ti manca tanto da vedere. Ma tanto.

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Tra batteri e leopardi, tutta la vita di Marte

Certamente la ricerca di vita extraterrestre è oggi uno dei filoni di ricerca principali per quanto riguarda l’esplorazione dello spazio. Il fatto, tanto semplice quanto esplosivo, è che per la prima volta siamo in grado di intendere dei segni che prima ci erano inaccessibili. Segni che potrebbero indicare, finalmente in modo non ambiguo, che vita c’è – o c’è stata – in ambienti esterni alla Terra.

Ovviamente i primi posti dove cercare sono gli ambienti planetari del Sistema Solare. Tra questi, Marte è da sempre un candidato interessante. Non tanto per il suo stato attuale, quanto per come poteva essere in passato: si dice, caldo ed umido, con mari e fiumi simili alla Terra: tuttavia, la questione è ancora controversa.

L’immagine qui sotto è nuova e parecchio interessante in tal senso, poiché ci mostra una zona molto ristretta dalla superficie del pianeta con dei segni “a macchia di leopardo”.

Crediti immagini: NASAJPL-CaltechMSSSPerseverance Rover

Macchie di colore chiaro sulle rocce marziane, ognuna circondata da un bordo scuro, sono infatti state individuate proprio all’inizio di questo mese dal Perseverance Rover della NASA (il rover opera sul pianeta rosso dal febbraio del 2021). Soprannominate (con non troppa fantasia) macchie di leopardo a causa della loro apparente somiglianza con i segni caratteristici sul mantello del famosi predatore terrestri, questi curiose configurazioni sono attualmente in fase di studio, con la possibilità nemmeno troppo remota, che siano state create da antiche forme di vita marziane.

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