Blog di Marco Castellani

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Dialogo

Tu sei un bene per me, e questa frase – che è stata quest’estate addirittura la nota dominante di una manifestazione frequentata e ricca come il Meeting di Rimini – ad una prima passata, ad una analisi frettolosa, può perfino apparire scontata

Eppure, è una frase che si apre ad una perpetua rivoluzione, se appena uno prova a sentirla fino in fondo, ad esplorarne le diecimila applicazioni pratiche. Se uno prova – con tutte le cadute e le smagliature del caso – a viverla. A comprendere vivendo, cosa cambia veramente del suo modo di intendere e rappresentarsi il reale. Vivendo, voglio dire, e non ragionandoci elaborando speculazioni teoriche. Nemmeno scrivendone in un blog, per intenderci: se infatti qui dico, è appena per trattenere i fili e le impressioni di una cosa che si è srotolata nel reale.

Dialogare è crescere


Perché se è vero (ammesso e non concesso, vogliamo dire…?) che il mondo è uno, è vero che cambia radicalmente in funzione dei nostri modelli mentali.
Tu sei un bene per me apre ad una serie di conseguenze che mi sorprendono, all’atto pratico.  Nel senso letterale, proprio: che prevale in me il sentimento di sorpresa. Non tanto a pensarle (corrono piuttosto il rischio, come sappiamo, di essere addormentate da un buonismo tanto accogliente quanto tragicamente inoffensivo): mi sorprendono a viverle, a vederle accadere. Come mi è accaduto ieri sera, al Nuovo Teatro Orione, per l’incontro sulla riforma costituzionale, organizzato dal Centro Culturale Roma.

Un momento dell’incontro al Nuovo Teatro Orione

Intanto. Ospiti sicuramente di rango, come  Stelio Mangiameli, professore ordinario presso l’Università degli studi di Teramo Cattedra di Diritto costituzionale e direttore dell’Istituto di Studi sui Sistemi Regionali Federali e sulle Autonomie “Massimo Severo Giannini” Consiglio Nazionale delle Ricerche (ISSiRFA CNR). Ricercatore di ruolo di Istituzioni di Diritto Pubblico, presso la Facoltà di Economia e Commercio dell’Università degli studi di Catania.

O come Luciano Violante, professore ordinario di istituzioni di diritto e Procedura penale e Presidente emerito della camera dei Deputati. Giudice istruttore a Torino fino al 1977, nel marzo 2013 ha fatto parte del gruppo di lavoro finalizzato alla presentazione di proposte programmatiche in materia istituzionale, economico-sociale ed europea.

L’incontro, che è stato intelligentemente e piacevolmente moderato dal giornalista Paolo Cremonesi, è stata per me questa  occasione di sorpresa. 

Ci sono andato per orientarmi sul referendum, innanzitutto. Perché è vero, se dico che non ho deciso, la gente mi guarda come per dire ah hai deciso ma non vuoi dirmelo. E invece no, non ho deciso. Vorrei prendere questa occasione come una opportunità di dialogo e di confronto, per capire cosa muove le persone ad una posizione o all’altra. Non mi interessa saltare di corsa a bordo di una qualche posizione prefabbricata. Stavolta no, mela voglio gustare tutta, questa possibilità. Mi piace cercare di capire, comprendere, relazionarmi.

Un collega di lavoro pochi giorni fa mi ha confessato, forse con qualche non voluta supponenza, per me è così evidente, io ci ho messo appena un attimo a capire da che parte stare. Ecco, io voglio proprio fare il contrario, invece. Voglio metterci del tempo, capire, comprendere le ragione delle parti. Questo deve essere il mio referendum, una mia occasione da non perdere. Per stringere legami, conoscere, esplorare. Anche una volta deciso, capire e frequentare le ragioni opposte.

Finalmente capisco meglio il volantino diffuso da Comunione e Liberazione, Per recuperare il senso di vivere insieme.  Eh sì che l’avevo un po’ sottovalutato, all’inizio. Come se dicesse belle cose ma poco reali, nel complesso.

E invece adesso, a valle di quello che mi sembra possa generare, ne apprezzo la peculiarità (e capisco la superficialità della mia prima frettolosa valutazione). Anzi, la salutare unicità. Perché la bellezza di quanto accade seguendo questa posizione, è veramente uno spettacolo. La posizione poi è semplice: capire la grande opportunità che è questa occasione, una opportunità di relazione con l’altro, prima che una corsa a capire da che parte “bisogna” stare.

E ieri per me è stato come assistere ad una piccola festa di relazione, se così posso dire. Due persone intelligenti che si sono confrontate in modo rispettoso, veramente rispettoso dell’altro. Due identità che non si sono affatto nascoste o diluite (Violante è per il sì, Cremonesi per il no, dichiaratamente): tutt’altro, direi. Non si sono mimetizzate, ma hanno intrecciato le loro ragioni nel pieno rispetto dell’altro.

Un rispetto non artefatto, o simulato. Un rispetto che si respirava.

E mi sono finalmente reso conto di come sia generativa la posizione del volantino, proprio di quel volantino che avevo accolto con una certa sufficienza. Perché l’incontro di ieri nasce proprio da un lavoro appassionato sui temi del volantino, da una dichiarata ispirazione a quest’ultimo.

Ecco, la fecondità di tale approccio, ieri mi ha conquistato, intenerito. Rallegrato, ultimamente.

Ed è servito, anche sotto il lato della scelta, perché ho iniziato ad irrorare di ragioni una mia possibile scelta, ho iniziato ad orientarmi verso una posizione. Forse non serve nemmeno che la dica, perché poi non è questo il punto.

Il punto è non ricadere (ancora) nello stato mentale che divide, contrappone, distingue. Separa buoni da cattivi. Comprende solo attraverso l’esclusione, la divisione. Si coagula nella ricerca di un nemico (Renzi come Berlusconi, in questa dinamica, non fa differenza), o di uno schieramento entro il quale trovare dimora e una sicurezza di giudizio che evita il vero confronto con l’altro.

Il punto è proprio questo, di non perdere questa opportunità di crescita, di dialogo. 

“È solo la certezza del significato ultimo che fa sentire, come fossimo un detector, la più lontana limatura di verità che sta nelle tasche di ognuno. E non è necessario, per essere amico di un altro, che lui scopra che quello che dici tu è vero e venga con te. Non è necessario, vado io con lui, per quel tanto di limatura di vero che ha…”

Rileggevo questa frase di Luigi Giussani (contenuta in La forma della testimonianza, di J. Carron) e mi invadeva la forte evidenza di come questo si adattasse, si ritagliasse proprio sulle forme dell’incontro di ieri.

Quell’incontro che mi ha fatto capire che sì, con tutte le mancanze e i difetti e le intolleranze che posso avere di carattere, di temperamento, io voglio stare qui.

Posso votare una cosa o l’altra, ma dentro questa strada, questo orizzonte.

Dove ha senso – ed è anzi esaltata – la mia personale scelta, anche per il referendum costituzionale.

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Corpo

La definizione di un sistema di riferimento è qualcosa di più di un mero artificio tecnico, di una decisione per esperti. E’ qualcosa che informa profondamente il reale, ne definisce ed istituisce una modalità descrittiva, e perciò stesso percettiva.

La scienza nella sua incarnazione più cartesiana si rende forte della sua capacità di astrazione ed interviene nel mondo creato attraverso un principio razionale di ordine. Questo principio è ben esemplificato nella definizione stessa del sistema di assi cartesiani – concetto che è ben noto a qualsiasi giovane studente – con il quale impariamo a prendere profonda familiarità nel tempo, a interpretare e quasi plasmare la realtà.
E’ uno strumento utilissimo, poiché ci permette di creare un ordine spaziale dentro la realtà, in modo da renderla quantificabile (la posizione ogni cosa è definita dalle sue coordinate nello spazio cartesiano) e quindi interpretabile. Al tempo stesso, però, è qualcosa che però è entrata così radicalmente nella nostra modalità percettiva che rischia di farci perdere di vista la sua reale natura, il fatto che è appena un modello.

Un modello del reale non è il reale. Qui spesso naufraghiamo, perdiamo i tratti del problema, semplifichiamo in maniera probabilmente illegittima. 
Perché la scienza, a volte, semplifica ed astrae in modo molto radicale. E ci allontaniamo dal reale, rientrando in una specifica modalità percettiva, a torto scambiata come percezione totale del tutto. Così ne annulliamo la sua portata perpetuamente rivoluzionaria, la sua carica esplosiva di mistero.
Il tutto è sempre molto più complesso di quanto vogliamo pensare di lui, ci sfugge da ogni lato, è irriducibile ad ogni schema di pensiero. Gli assi cartesiani ci portano a pensare ad una geometria imperturbabile rispetto a quanto avviene al suo interno, ad un sistema rigido e inerte, descrittivamente utile, emotivamente freddo. 



Il bello è che è una percezione errata. Lo dice, ormai da tempo, perfino la scienza stessa: lo spazio è curvo, lo spazio è incurvato dagli oggetti al suo interno. Lo spazio è tutto tranne che esteso all’infinito e piatto. Lo spazio partecipa irresistibilmente di quanto avviene al suo interno.

Le cose sono curve, peraltro. La nostra esperienza, fino dalla nascita, si nutre di superfici curve. Descriverle nel sistema cartesiano di assi ortogonali è una gran fatica, è necessario ricorrere ad una gran quantità di informazioni. E’ un sistema inadatto al reale, è adatto piuttosto ad una sua arbitraria astrazione. Ritengo che per un ente biologico, la curva sia la ancora nozione più evidente, più elementare.
La curva parla del corpo (ecco la parola di questa volta), recupera la corporeità che una malintesa idea di razionalità scientifica ci ha sottratto, lasciandoci più freddi e più poveri. Il corpo è la struttura fondamentale, perché è l’ambiente percettivo che ci accompagna nel viaggio sulla Terra. Posso astrarmi dal corpo fino ad un certo punto, poi devo comunque ritornare a questo.


Il corpo. Le sue proporzioni, le dimensioni. Dovremmo capire ed abitare una geometria del corpo, molto più di quanto facciamo di solito. Riabituarci ad un pensiero complesso, proprio come quello del corpo. Alieno da semplici formalizzazioni. Con il corpo percepisco, con il corpo capisco

Il corpo umano è la Cattedrale più grande che Dio abbia mai costruito (Christiaan Barnard, Curtis Bill Pepper, Una vita)

Verrebbe da dire,  anzi, da utilizzare il corpo come sistema geometrico fondamentale. Il corpo umano è una vera cattedrale, che informa profondamente la modalità con cui percepiamo, che definisce un dentro e un fuori, un me stesso e un altro, un qui ed un altrove. Dal punto di vista più specifico, una qualsiasi tecnica di semplificazione dei dati, mostrerebbe chiaramente come un corpo non viene descritto bene in un sistema di assi ortogonali. Vive un’altra realtà, dove l’astrazione non regna incontrastata, come nei nostri pensieri, così spesso in fuga rispetto alla realtà, al qui ed ora.

Non si tratta di far guerra alla geometria, non si tratta nemmeno di indugiare troppo sul fatto che la nostra mente è ancora governata ed informata da modelli scientifici ottocenteschi, è culturalmente ed invariabilmente pre-relativistica e pre-quantistica. Tutto vero, ma non coglie il punto.
Si tratta di ritornare ad una geometria del corpo, complessa ed articolata. Ad un pensiero del corpo, che dimora nell’ascolto delle sensazioni, e non nelle teorizzazioni astratte. E’ una rivoluzione ancora tutta da compiere. 
Da compiere, ma non da inventare, probabilmente. Ragionando intorno alla dignità del corpo, ricercandone una sponda di sicurezza ultima, incorruttibile, incontro quel senso del Corpo, per noi quasi imbarazzante, che è quello che secondo la nostra spiritualità, è il luogo che ha scelto l’Essere per manifestarsi. 
Quella stessa croce che una parte della nostra sensibilità avverte a volte come antica, è invece una cosa perpetuamente modernissima, perché unisce, sovrappone ad un sistema di assi cartesiani una dinamica ed estetica del corpo, perché fonde la razionalità geometrica alla esistenzialità e complessità biologica, alla passione (e Passione) umanissima e trascendente, e al senso profondo dell’Essere.
E al suo innegabile carico di mistero.

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Consolazione

E’ una parola importante, capisco bene che non può non figurare in questo mio personale dizionario, in perpetua formazione. E’ importante ma raramente ci penso – come se ci fossero sempre cose più decisive, più urgenti, da analizzare. Come se la priorità fosse sempre altrove. Meglio, come se la parola stessa racchiudesse un non so che, un sogno semplicemente troppo bello per essere una cosa reale, una cosa da adulti. 

In questa percezione del mondo, un bambino certamente si consola, si può e si deve consolare. Un adulto più o meno deve cavarsela da solo (o al massimo entrare in terapia), perché si suppone abbia maturato gli strumenti interni per affrontare i momenti difficili.

Il mondo peraltro è strano, è certamente molto più bizzarro degli schemi mentali che ci possiamo fare, che ci facciamo. E’ anche qualcosa che viene percepito in modalità molto differenti, a seconda dello stati psicologici e sociali in cui ci troviamo, che stiamo attraversando, come individui e come comunità. Potrebbe  anche essere, dunque, che ci stiamo nascondendo l’unica cosa reale, l’unica cosa di cui occuparci seriamente, e serenamente.
Photo Credit: idakrot Flickr via Compfight cc
Abbiamo bisogno di consolazione. O almeno, io ho questo bisogno di consolazione, anzi di una infinita consolazione. Sempre, in ogni momento. A volte il senso di mancanza di questa infinita consolazione stringe il cuore in una morsa in cui quasi non riesco a respirare.
Bene, direi.

Bene, perché già ammetterlo è l’inizio di una liberazione possibile. E’ dismettere l’atteggiamento dell’Ercolino sempre in piedi, è ritrovare – quasi come pietra preziosa – la propria fragilità e iniziare a dialogarci, provare ad abbracciarla. Sentirsi incompleti e non provarne scandalo, è il primo passo verso una riconciliazione con sé e con le cose.

Bene, perché capisco che non posso vivere senza cercarla, questa consolazione. Che non ho davvero altri modelli di vita praticabili (o almeno, in più di mezzo secolo, non li ho mai trovati) che esulino dal cercare, dal domandare, questa infinita consolazione. Per dirla con le parole di Marco Guzzi,

Non abbiamo bisogno di molto altro,

ma solo di infinita consolazione.

Noi esseri umani abbiamo sempre bisogno

di consolazione, anzi di un’infinita consolazione.

Abbiamo sempre bisogno di essere consolati,

confortati nella nostra sofferenza

strutturale, nella nostra fragilità, nella precaria

giornata terrena.

Non abbiamo bisogno di molto altro,

ma solo di infinita consolazione:

tutto perciò dovrebbe essere finalizzato

a questo scopo: il lavoro, la sapienza,

ogni forma di compassione e di amore,

siano modi per consolare, per dire

all’essere umano: tu hai un grande valore,

non temere, non sei solo, e questa scarpata

ripida e dolorosa

ti sta portando

sempre più prossimo alla gioia, a tutto ciò

cui aneli, spesso senza nemmeno saperlo.

Marco Guzzi

Questa necessità di consolazione, che avverto oggi in maniera straordinariamente concreta e pressante, non può essere più relegata dunque a istanza psicologica individuale. Non è solo questo, non è più una spiegazione sufficiente. Riconosco che i tempi si stanno facendo stretti: tanto in senso personale quanto in senso sociale.  Diceva assai profeticamente Don Giussani, qualche anno fa, che

 il grande problema del mondo di oggi non è più una teorizzazione interrogativa, ma una domanda esistenziale. Non: “Chi ha ragione?”, ma: “Come si fa a vivere?”. Il mondo di oggi è riportato al livello della miseria evangelica; al tempo di Gesù il problema era come fare a vivere e non chi avesse ragione; questo era il problema degli scribi e dei farisei.

E’ proprio così, secondo me. Ma quanto invece sembra periferico, nelle conversazioni che incontro, che attraverso! Sembra l’ultima cosa, la più indicibile, la più inconfessabile. Perfino in questi giorni che precedono il referendum, qualcosa ancora  ci trasporta, ci devia, e nei discorsi pro o contro la riforma costituzionale, prevale la logica degli schieramenti, l’affezione ad una parte, a volte quasi pregiudiziale. O l’avversione verso uno o l’altro dei personaggi dell’agone politico. Tutte posizioni probabilmente insufficienti, che mancano il bersaglio – che perdono l’occasione.
Dunque quel che sembra periferico diviene qui essenzialmente centrale.  E di importanza politica, prima di tutto. Ha detto infatti il presidente Mattarella, che il nostro Paese «ha bisogno di rinnovato entusiasmo, di fraternità, di curiosità per l’altro, di voglia di futuro, del coraggio di misurarsi con le nuove sfide che abbiamo di fronte (…) in un tempo di cambiamenti epocali. (…) Senza farci vincere dalle paure».
Ecco che il circolo si chiude, i nodi tornano al pettine. La dimensione sociale abbraccia – ancora una volta – quella intima, personale. Quell’accenno conclusivo al non lasciarci vincere dalle paure riporta questa condizione a cardine necessario per un corretto e produttivo agire politico. 

Del resto è abbastanza evidente: come fa un essere dominato dalle sua paure non affrontate, ad intervenire costruttivamente nell’agone sociale? Non si muoverà in base alle sue problematiche irrisolte, piuttosto?

Dunque non è più lecito – sopratutto dopo la morte delle grandi utopie sociali – tenere separato l’ambito politico da quello personale. O peggio, aspettarsi la salvezza dall’intervento anche generoso verso le condizioni esterne. Anche risolvessimo – per assurdo – problemi enormi come la fame, la povertà, rimarrebbe sempre qualcosa. Rimarrebbe un bisogno enorme di consolazione, di conforto dalle paure.

 
Ma io non mi lascio vincere dalle paure, nella misura in cui decido di lavorarle, mi metto in cammino, e per il fatto stesso di camminare, mi dispongo nella condizione migliore per accogliere quelle consolazione che può, forse può arrivare. Può arrivare, se rilasso le barriere, se mi lascio contaminare dall’esterno, se abbraccio questo dialogo disarmato con le mie parti scomode o con l’interlocutore esterno che – per tante ragioni mie e sue – mi può apparire “scomodo”.

Perché in fondo è abbastanza la stessa cosa. No, anzi, è proprio la stessa.

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Terrorismo (e ortofrutta)

Devo dirlo, devo ammetterlo. Sono (quasi) stato un terrorista.
E non una. Ma tante, tante volte.
Non nel senso punibile dalla legge, probabilmente. Ma certamente nel senso di ammalato di terrore, nel senso di un incredibile impoverimento interno che poi porta comunque a questo: ad aspettarsi che la vita (tua, o degli altri) cambi non per un lento e fiducioso lavoro, ma per un gesto, un avvenimento eclatante, roboante.
Mi direte magari che non è terrorismo, in senso proprio. Eppure è già qualcosa di vicino, è già un avvicinamento ad un certo ordine di idee.
Quello opposto, esattamente opposto, alla bellezza, alla poesia.
Così in questa alternanza di governi che si contendono la mia anima, molte volte ho fatto il favore della parte sbagliata. Tutte le volte che ho smesso di stupirmi per il fiorire di evidenze e di piccola ma tenace poesia del quotidiano che accadeva intorno.
Per rimanere nel concreto, nella vita quotidiana: tutte le volte che sono passato vicino ad un banco di ortofrutta, e ho rinunciato a stupirmi per la panoplìa di colori e profumi che mi era liberamente posta davanti, scegliendo magari di seguire qualche filo di pensieri — certamente più grigio e meno imprevedibile.
Insomma, avete capito. Tutte le volte che ho smesso di guardare.
Di mantenere un contatto aperto con la stupenda non linearità del mondo e mi sono lasciato sedurre dalla linearità malata del pensiero interno (malata sempre, quando non guarda).
Certo non la sto facendo semplice. Non auspico una maggiore frequentazione di banchi ortofrutticoli come soluzione al regime del terrore, che quest’onda di nichilismo efferato (mascherato da guerre tra religioni) sta tentando di imporre al mondo e prima ancora alle nostre coscienze, no.
Il problema è complesso e va affrontato in modo completo, di certo.
Dico solo questo, dico appena che nella lotta ad ogni regime del terrore, ad ogni impalcatura organizzata di violenza, l’educazione alla bellezza non può essere lasciata da parte. Mai.
Perché i demoni non odiano semplicemente il bello — di più: non lo sopportano.
Perché è la via di accesso ad un altro ordine mondiale.
Quello della vita.

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Resurrezione

Non possiamo negarlo. Chi crede e chi non crede sono accomunati da molte più cose di quanto comunemente si pensi. Tra queste direi che c’è una grande voglia di resurrezione. Una resurrezione che non riguardi solo il nostro destino ultimo, ma una resurrezione che si innesti potente e tonificante nella vita di ogni giorno. 
 
Intendiamoci, però. Una resurrezione seria, è una resurrezione che implica e anzi comporta la vera possibilità di ripartire, davvero. Partire freschi, nuovi. 
 
 
Una resurrezione interessante è, peraltro, quella che implica una liberazione. Liberazione da tutti i legacci che frenano la nostra creatività, legacci che in vario modo sono una derivazione dalla paura. Ecco, così sentiamo forte un anelito di resurrezione, quasi ogni giorno. Come ci ricorda Anselm Grun,

La trasformazione della paure è il primo aspetto della resurrezione 

Ebbene, la Pasqua ci dice che in forza di una sola Resurrezione, ogni altra resurrezione è possibile. Che l’ultima parola sui nostri casi non è mai detta, non è mai nell’orbita del nostro ragionamento, del nostro fare e del nostro comprendere. Può essere invece un frutto imprevisto del nostro arrendersi, del nostro cedere.
 
Un momento: non si pensi qui ad un discorso valido esclusivamente dentro ambiti religiosi. Non mi interessa metter giù un discorso di quelli che si fanno tra credenti. No, affatto. E’ un discorso più ampiamente psichico,  come mostra efficacemente una frase di Raffaele Morelli,

Quanto più entriamo in un altro regno della mente, tanto più si attivano le forze della nostra rinascita. Bisogna uscire dal cerchio dei ragionamenti, dai pensieri sulle cause e le colpe, per diventare capaci di abbandonarci…

E’ dunque a mio avviso un anelito assolutamente trasversale a credenti e non credenti (o diversamente credenti), questo di una vera resurrezione. Le cui implicazioni psicologiche sono fin troppo evidenti: per citare ancora Anselm Grun,

Risurrezione è liberarsi dalle catene (psichiche) e vivere senza blocchi (interiori)

Che poi queste nostre resurrezioni di cui abbiamo a volte un fortissimo bisogno, si appoggino e si innestino in una Resurrezione (quella Pasqua cardine delle feste cristiane, che celebriamo oggi) la quale  sovverte in modo salutare l’implacabile impalcatura cartesiana del pensiero “che pensa sé stesso” senza aspettarsi alcuna sorpresa – che questo sia vero, è certo cosa che implica un salto, un rischio, un atto di fede. D’altra parte, non si evade da una gabbia senza accettare dei rischi, non si intraprende un viaggio come quello del significato (da qualsiasi parte possa portare) avendo in anticipo tutti i dati, conoscendo già tutto il percorso.  
 
Il viaggio per il significato è intrinsecamente iniziatico, ovvero un viaggio che si chiarisce  soltanto percorrendolo. E questo è già un rischio per un pensiero che vuole sapere tutto in anticipo, per un pensiero che vuole vanificare l’esperienza, come fattore che tendenzialmente sfugge al suo controllo.
 
E la Resurrezione è qualcosa di profondamente unitivo, anche. Nel senso che – a prescindere da quanto pensiamo di credere o di non credere – è qualcosa che non può non essere il più profondo desiderio di ogni essere umano. Potremo anche decidere di considerarla una favola, ma non possiamo sfuggire al fatto che comunque è la cosa in assoluto più desiderabile che possiamo pensare.
 
E nell’assenso dinamico alla verità di questo, il pensiero curiosamente si riallinea e si riequilibra. E la liberazione dalle catene sembra una cosa già più possibile. Tanto che a volte – con grande sorpresa! – se ne assaggia perfino un anticipo, un anticipo di gusto.
 
Buona Pasqua.

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Grido

La verità, quella verità per cui si muore a Bruxelles o si vive in politica da corrotti cercando di arraffare quanto più possibile, quella verità per cui vediamo ogni giorno ondate di migranti sulle nostre coste o ai nostri confini, è molto semplice: dentro di noi c’è un grido che solo se viene fuori, solo se il cuore lo esprime in tutta la sua imponenza, può davvero essere abbracciato, amato e voluto.

 e per una volta sento le parole che esigono che si esca, che si esca dal parlare tanto per parlare, dalla terribile e temibile dinamica per cui il parlare – in fondo – non fa che propagare sé stesso. Il parlare tanto per parlare convinti che non cambi nulla, è il vero inferno, è il posto dove non accade nulla, non accade nulla che già non si sappia, che già non si conosca. 
Qui invece la parola scava e ricerca una consapevolezza nuova, ci interpella perché si faccia un percorso, si inizi e si riprenda un cammino. Il cammino verso noi stessi, esattamente. D’altra parte una storia di fede è sempre un cammino verso la scoperta di sé, il disvelamento di sé. 
Ed ogni cammino interessante è un cammino di cura, è un percorso verso la Cura.
Quel grido, appunto, è un cardine della cura, di ogni cura. Qui c’è la vera rivoluzione. Quel grido che così spesso nella vita cerchiamo di soffocare, di normalizzare, deve invece venire fuori, deve esprimersi. Deve occupare tempo e spazio, riprendere una sua integra dignità. Deve esistere. 
lo sono il mio grido e il mio grido deve esistere.
D’altra parte cosa vuole il grido, se non esprimersi? Cosa vuole il bambino ferito dentro di noi, se non farsi ascoltare, una buona volta? Se non sentire che la sua immensa paura non è più condannata o nascosta, ma amorevolmente accolta? Solo così, una volta tranquillizzato, inizierà a dialogare con noi, a mostrarci anche dei giochi, ad interessarsi ed incuriosirsi. E torneremo a respirare, a darci pace. Attraverso il dolore, inevitabile in certa misura, arriveremo ad essere più umani…

 … il dolore ci mette in ginocchio e ci apre la possibilità che il misterioso desiderio che ci abita emerga, esploda e — infine — possa essere ascoltato. Non c’è risposta senza domanda.

C’è tutto un mondo a rovescio, c’è il modo di rovesciare il nostro mondo troppo spesso male-detto, male interpretato. C’è il modo di rovesciare il mondo per il quale il dolore non è (appena) una iattura, ma una possibilità. Perché riguarda eminentemente il grido, la possibilità di una risposta.  La risposta a quella ferita aperta, per cui il primo passo, il primo fondamentale passo, è riconoscerla. E’ mostrarla, perché riprende vita la speranza, la speranza di tutte le speranze: la speranza che la ferita venga sanata. 
E siccome la ferità in fondo in fondo si alimenta di questo, della paura di morire, la speranza di risanamento non può che sovvertire questo, affermare assai scomodamente questo, riprendere la dolce speranza di non morire mai. Ovvero di morire ma non morire. 

Il grido infatti è questo, alla fine: fa che io non muoia, che io non scompaia. 
La risposta può germogliare nel cuore, quando uno meno se lo aspetta, quando uno non spera più. Perché la risposta è un imprevisto, è esterna al nostro sistema di pensiero. 
E’ un avvenimento, non un pensiero. 
Non è un capire, la risposta. Ma un essere presi per mano.

Essere accolti. Noi, con il nostro grido.

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Mancanza

Così disperso in quello che manca, da non vedere quello che c’è. Perché sono puntato sulla mancanza, forse per una ferita antica. Sì, quella ferita. Che ancora mi chiede di tornare in aiuto al me stesso di allora, di stipulare una nuova inedita amicizia. Quella per cui veramente diventi possibile darsi pace, per guarire e fiorire in una nuova stagione della vita. Del cuore.
A volte la mancanza si fa così sentire che faccio fatica a respirare. Fermo la realtà come in un fotogramma sospeso, e sento acutamente quello che, appunto, non c’è. Sento la mancanza di un istante di compassione in grado di attraversare – come un’onda benefica – tutto me, di legare tutto insieme, nuovamente.

Photo Credit: vale ♡ via Compfight cc
Non c’è, a volte non c’è proprio altro.
Non c’è nulla che non sia la compassione, in grado di legare tutto insieme e di attraversare tutto. C’è un insieme di cose che – se non ammorbidite così – ben presto si innestano accanite in una lotta senza quartiere, una mutua ostilità che rischia proprio di far perdere la pace. 
Non riesco a pensare alla possibilità di pace senza la misericordia. Non mi viene possibile. E’ chiaro che essendo tutto pieno di una mancanza, a volte così mancanza che straborda nel suo mancare, non c’è in fondo altra possibilità per rilassare i muscoli, per trovare un piano dove appoggiare la mente.
Ci vuole proprio qualcosa, una struttura, un luogo al quale tornare, per confutare perennemente le storture di una errata percezione di me stesso, io sono così e non sono a posto… Una struttura, un luogo, dove viene sussurrato pacificamente tu sei così e vai benissimo. Credimi, ti prego. Tu sei così e mi piaci, mi piaci tanto.

Dice bene Eugenio Borgna, non a caso (dico io), professore emerito di psichiatria:

«A differenza della ragione fredda e astratta, il cuore imbattendosi nella realtà, ascoltandola, ci consente di coglierne il significato profondo fino però a percepire una mancanza struggente: la mancanza di infinito. E in questo ne sente tutta l’essenza dolorosa e straziata. Una mancanza che Leopardi, Pascal e lo stesso don Giussani hanno descritto come qualcosa di strutturale dell’uomo» 

Ecco qui. Io non sento proprio di aver bisogno di particolari prescrizioni o proibizioni, non cerco affannosamente riparo in una casistica morale strutturata e dettagliata. Al limite, la normativa mi lascia un po’ freddo, un po’ preoccupato per la mia perenne – quasi strutturale –  inadempienza. Sento invece di aver molto, molto bisogno di sentire questa voce rassicurante, dentro di me… tu sei così e accidenti, mi piaci, mi piaci tanto.

Se ascolto questo tu mi piaci (che a volte – per grazia celeste – si intravede come spuma brillante sotto l’ordito del reale) comincio a far pace con me stesso, almeno un po’. Poi forse l’ipotesi di cambiare, in qualche modo imprevisto, può innestarsi naturalmente perché uno da subito comincia a respirare in modo diverso, a guardarsi in modo diverso, a guardare le persone in modo diverso. Nel complesso, ha meno affanno di afferrare qualcosa da portare via dal freddo, perché il freddo ha fatto un passo indietro, o almeno mezzo passo indietro.

Si può timidamente iniziare a coltivare l’idea di una qualche forma di bellezza che affiora qui e là. Transitoria e momentanea, se volete, ma anche irresistibilmente affiorante. Visibile.

E’ anche – e soprattutto – una cosa di respiro. Magari si può iniziare a respirare un po’ meglio, magari si inizia a rilassare l’elastico tra quello che uno vorrebbe essere e quello che è, perché non è poi così decisivo il fatto che uno metta tutto a posto, subito. Se perfino come è, impresentabile come è, viene amato, ecco, uno comincia a dire ok, va bene, posso iniziare a rilassarmi. 

Certo un amore senza condizioni è un flusso benefico dove uno inizia a tranquillizzarsi, a distendere le gambe, a rilassare gli arti troppo spesso contratti, nell’inseguimento inutile di certi modelli di comportamento. Messo così in ordine, inizia un po’ anche a guardarsi intorno, a guardare davvero. Tanto la faccenda fondamentale è a posto, uno è amato. Così sente meno la mancanza, almeno, non la sente proprio sempre. E l’allarme rimane, certo: ma si smorza un po’. E appena si smorza si vedono un po’ meglio le cose, si sentono meglio. 
I sapori.
I colori.
Gli odori.
Il tocco di una persona.
Gli istanti mezzi accennati.
I giorni lustri del ricordo.
Un parlare sommesso
Qualcosa che va avanti ed è
sottilmente grandissimo e 
tu ne fai parte –
come per un dono
proprio per un dono – 
ne fai parte

Cambia il livello di gioco, è diversa la partita. La mancanza non devi più sforzarti di riempirla. Ma poi: non riusciresti mai, lascia stare. Quel che puoi fare è cedere, allentare le rigidità, renderti materia plasmabile, non fare opposizione. L’idea di mettersi a guisa di spettatore di sé stessi, vedere se viene ripianata – almeno ogni tanto – senza tuo sforzo è veramente intrigante.

Forse il senso di mancanza è lo stimolo più persuasivo a dismettere la pretesa sempre riaffiorante di angosciosa, irriflessiva autosufficienza. E finalmente lasciarsi fare, lasciarsi plasmare, lasciarsi amare.

Non per dire, ma mi consola parecchio capire che questo atto del cedere è qualcosa di sempre possibile, perché in fondo ha a che vedere con il nostro atteggiamento e non con la nostra capacità .

Qualcosa che potrebbe perfino, chessò, rimettere un po’ tutto in ballo.

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Sepolcro

E’ una parola abbastanza imbarazzante. Non è di quelle che si producono abitualmente in società, potremmo dire. Eppure mi chiedo se uno possa desiderare di più. Se uno onestamente, sinceramente, possa desiderare più di questo. 
Orbene, è certo che molta gente oggi è scettica. E’ disincantata, è cinica. 
Qui non verrei azzardarmi in una ennesima analisi sulla crisi della fede, oggi. Per certo, non ho le competenze e la profondità necessaria, mi manca l’ampiezza di vedute e la conoscenza storica. Vorrei rivoltare la cosa come un calzino, invece.
Perché bisogna avere il coraggio di scoprirsi. Di scoprire i propri desideri, senza censuarli anzitempo. Senza ammazzarli, avvelenarli nelle solite obiezioni. Delle quali dico subito che la peggiore, in termini di danno psichico, è certamente quel è troppo bello per essere vero.
Ecco. Onestamente, io non so quanti danni abbia fatto, nel tempo, una frase di tal genere. Cosa rivela? Un pessimismo di fondo di portata cosmica, una rinuncia preventiva all’azione, alla vera speranza. Al desiderio di cose grandi. 
Prendendo questa frase terribile sul serio, ecco, uno non si muove più. 
Poi, oltre questo, come scienziato mi fa anche girare un po’ le scatole, per la sua palese illogicità. Di cui, sembra, la gente non si accorge. Lo confesso, in questo casi viene fuori il polemista dentro di me. Ma che vuol dire che è troppo bello? Perché “troppo”? Troppo rispetto a che, per esempio? Alla nostra immaginazione asfittica? Al nostro malinteso senso di essere adulti, con i piedi per terra? Alla nostra disperata paura di sognare? 
Se ad esempio faccio l’esercizio di pensare al sepolcro, alla possibilità che qualcuno ne venga fuori in carne ed ossa, al fatto che magari Qualcuno lo ha già fatto, scopro che ho paura di lasciarmi andare a crederlo davvero. Con tutto che (ogni tanto) mi dico “cristiano”, se arrivo a questo fatto, al nucleo pulsante delle faccende della mia fede, quel nucleo senza il quale tutto crolla (tutto! Che tentativo triste quello di tenere su la cultura, i “valori cristiani”, senza questo nucleo pulsante, senza questo “scandalo”), mi prende paura.
Una paura strana. 
Ma se buco un attimo la paura, ci passo oltre, scopro anche che è la cosa che desidererei di più. Che desidero di più. Che questo sia, appena, vero. Perché anche se sono cristiano, c’è come un pensiero in background, una formulazione di pensiero, un ambiente di pensiero, che mi ripete continuamente lascia perdere è troppo bello, lascia perdere… 
Ma il desiderio che sia vero c’è. Accidenti. Gli altri desideri che mi attanagliano, che mi tormentano, al confronto non sono nulla. Perché se fosse vero questo metterebbe veramente tutto in un’altra luce. Le gioie sarebbero ancor più gioie. Perfino le peggiori sofferenze potrebbero venire un po’ attenuate.
Quindi, è un po’ come se tutta la vita potesse essere interpretata – e nuovamente reinterpretata, ad ogni istante – nell’atteggiamento che abbiamo davanti a questo. Ad un sepolcro. Se è la fine di tutto o una scommessa pazzesca e totalmente fuori scala, per un nuovo inizio. Per un inizio senza fine. 
Capisco che siamo strani, in un certo senso. Ma forse è la portata della cosa, che ci fa un po’ paura. Ma di fatto è questo, è così. Siamo capaci di disquisire per ore su quanto ha detto un parroco di campagna, magari finito inavvertitamente sui media per qualche dichiarazione improvvida. Grande interesse hanno in ogni ambiente le discussioni sulle prescrizioni della Chiesa, soprattutto in ambito di morale sessuale. Ancora, la coerenza (o più spesso, la sua mancanza) di tal porporato od ecclesiastico riveste sempre una decisa attenzione e normalmente genera sapidi commenti.
Niente da dire, in fondo. Però, capitemi. Ho la sensazione, trovandomi spesso coinvolto in queste discussioni (“Ah, tu che sei cristiano, che ne pensi del fatto X [dove X = beni della Chiesa, controllo delle nascite e fame nel mondo e/o AIDS, ICI per gli istituti religiosi, etc…], del comportamento del cardinal Y, delle recenti dichiarazioni del Vaticano in materia di XYZ…”) ho la sensazione, non dico che siano giuste o sbagliate, non appena questo. No, ho la sensazione, come dire, che ci si stia concentrando accanitamente su dei particolari molto periferici, per trascurare l’essenziale. Cioè cosa è veramente, empiricamente, storicamente successo in quel sepolcro, un paio di millenni fa.
Che poi diciamolo, se in quel sepolcro non fosse successo nulla di particolare, ogni altra preoccupazione sui pronunciamenti di questo o quello, su cosa dice la Chiesa in materia di questo o quell’altro (perfino sull’accesso ai sacramenti per i divorziati, per dire), sarebbero totalmente inutili. Fiato sprecato. Perché non avrebbe senso niente, non avrebbe senso la Chiesa, i preti, i vescovi, i cardinali. Il Papa.
Se quello fosse stato appena un normale sepolcro, di una persona magari storicamente importantissima, magari un grande dell’umanità, ma insomma, sempre dopotutto un normale sepolcro, ebbene, non avrebbe senso nulla, di quello che stiamo trattando.
Come dice la canzone di J. Breil…

Ditemi se è vero,
Se è vero tutto quello che hanno scritto Luca, Matteo
E gli altri due,
Ditemi se è vero,
Se è vero il portento delle Nozze di Cana
E il portento di Lazzaro

Se fosse vero tutto questo
io direi sì
Oh certamente direi sì
Perché è così bello tutto questo
Quando si crede che è vero

Mi rendo conto, che siamo capaci di passare una intera vita (e se potessimo, anche di più) nel ragionare – per dire – su torti e meriti della Chiesa, senza osare arrivare al fondo della questione, al fondo pulsante. Se lì è avvenuto qualcosa, qualcosa di strabiliante, oppure no.
Il senso di ogni istante, di ogni minuto, viene investito dalla nostra decisione in merito. Luigi Giussani parlava, giustamente, di decisione per l’esistenza.
Il fulcro è quello. Se davanti ad un dolore, ad una sofferenza –  ma anche davanti al vuoto che tante volte si affaccia nella nostra vita, possiamo avere il conforto di una Presenza, vivente, vicino. 
Insomma, qualsiasi posizione possiamo avere, il punto cruciale è quello della canzone citata: ditemi se è vero
Il resto son davvero conseguenze, molto molto più a valle.

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