Forse sto per scrivere qualcosa di poco politically correct, ma perdonate, mi viene proprio dal cuore.
Eh sì, perché ad un certo punto, passando e ripassando nelle stesse occasioni (come la celebrazione dell’otto marzo, appunto) è come se uno ad un certo punto, intravedesse una trama. Come potesse finalmente vedere oltre i burattini e scorgere i fili. O se volete, scoprire quel gioco delle parti che ad un certo punto diventa difficilmente digeribile.
Quello a cui certo, puoi anche partecipare. Puoi ancora scegliere di partecipare.
Così fai i tuoi discorsi, punti il dito su tante cose esecrabili, ti vergogni un po’ — come maschio — delle prevaricazioni che tu o i tuoi amici o i tuoi antenati hanno compiuto.
Ma alla fine, il giorno della celebrazione svapora, e con esso tutto l’apparato ideologico a cui hai dato il tuo ennesimo tributo, tanto per tenerti in piedi, per essere moderno, ecco — non regge più.
Si sfalda, ed ora sei solo con te stesso.
La gente intanto, tra traffico e televisione, rientro e riaccompagno dei figli — allo sport, ai corsi di lingua — già archivia l’otto di marzo, pensa ad altro. Carica la mente con nuovi slogan, nuove distrazioni. Nuove giustissime celebrazioni, fresche sacrosante indignazioni (violenza di genere, sfruttamento del lavoro, muri con il Messico, scandali e mazzette, e così via).
Tutto questo evitando quasi sempre di scendere davvero alla radice. Come potesse rimanere un gioco di superficie, da farsi abilmente sul pelo dell’acqua.
Come se tributassimo ancora credito alla velenosa menzogna, per cui basta essere cittadini consapevoli per rifuggire dalla violenza verso le donne, o da ogni altro comportamento giudicato esecrabile.
Ecco, a questo mi sento di dire no, non ci sto.
Non ci credo. Mi state ancora prendendo in giro. L’educazione è necessaria e preziosissima. Ma non basta.
Se la mia vita (in ultima analisi) non ha senso, se mi raccontate tutti i giorni che è un accadimento casuale di un universo indifferente, qualcosa che termina con la mia morte, no: non chiedetemi pure di non essere “violento”.
Con le donne, con gli uomini o gli animali. Con le cose e con i miei pensieri, i miei sogni. Con le stelle, e la loro bellezza. Solo tempo perso, solo l’ennesima insopportabile retorica. Sarò violento comunque, al limite con me stesso (con la benevolenza “illuminata” della società progressista).
Datemi invece un senso, un senso per morire e dunque per vivere. Datemi questo infinito conforto. E io sarò docile e in pace, con la parte femminile e maschile dentro e fuori di me, e con le cose.
Ma fatelo, vi prego, fatelo subito. Del teatrino delle chiacchiere non se ne può più. E nemmeno di certe celebrazioni, quelle che due giorni dopo sono già dimenticate. Le donne non hanno bisogno di ipocrisia, non hanno bisogno di essere prese in giro.
E nemmeno gli uomini.

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