Perché, che hai da commentare?

Ritornando su Blogger dopo avventure varie, da WordPress a Medium, è anche ritornare ad una casa semplice, affidabile, magari spartana in certe parti, comunque – mi rendo conto – adatta a questo tipo di blog, a questo piccolo notebook che trattiene impressioni e frammenti d’uso relativi alla tecnologia (e a come si sporca di umanità, in maniera per me sorprendente e rallegrante). 
Blogger è semplice, pulito, non devo aggiornare nulla, non devo mettere plugin o editare il codice, mettermi a norma per i cookie o cose simili. Per certe cose è veramente troppo semplice. Per altre è perfettamente la semplicità che si cerca: per questo modesto progetto, è proprio quella semplicità che serve. Scrivere, e basta. Lasciare ogni particolare tecnico (o almeno la maggior parte) dietro le spalle. Ci pensi pure Google. 
Tornare qui, è anche, però, avviare una fase in cui cercare di comprendere come rendere facile ed efficace l’interazione e lo scambio di idee. I commenti, nel gergo classico dei blog. Che fare? Se entrando su Medium era drasticamente semplice – se muovi un blog su Medium i commenti li perdi del tutto, non esiste che te li porti dietro – qui che c’è un po’ più di flessibilità, può sorgere la questione se appoggiarsi al sistema nativo di Blogger (un po’ elementare per dire la verità, però appunto nativo), oppure ricorrere ad un sistema esterno, come Disqus.
Ora, c’è di buono che – grazie al fatto che mi sono appoggiato a Disqus nel passato – ora i commenti che sono passati attraverso le varie fasi di hosting, su diverse piattaforme, si sono più o meno conservati (e man mano che riprendo i post da Medium dovrebbero ricomparire, bel belli). Per questo in questo momento sto continuando ad usare Disqus, essenzialmente.
E’ pur vero, come mi è stato giustamente fatto notare, che usare un sistema esterno aggiunge un layer di complessità in più, forse non del tutto giustificato a fronte dei vantaggi. Forse, anche, una cosa non idonea del tutto, proprio laddove si voglia invece ritornare ad una semplicità più possibile evidente e fruibile. 
Da un giro in rete, pullulano le argomentazioni pro e contro Disqus, rispetto ai sistemi nativi, e ovviamente anche a Facebook (come è logico, in rete pullula qualsiasi cosa). 
In generale, appoggiarsi ad un sistema esterno ha dei vantaggi (se distruggi il blog i commenti  restano) ma apre anche delle problematiche (ulteriore autenticazione, ulteriore raccolta dati). E’ anche se vogliamo qualcosa di più filosofico e concettuale, perché in fondo è la scelta tra un sistema che comprende tutto in un unico posto o un sistema che compone tutto in un unico posto (questa mi piace, non so se è una gran pensata, ma mi piace).
Come la mettiamo? 
Perché, che avete da commentare? 
E soprattutto, come volete commentare? 

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L’universo raccontabile (anche su Facebook)

L’uomo. Ecco il grande escluso dalle teorie cosmologiche che ci stiamo lasciando alle spalle. Ecco il grande furto a cui urgentemente porre riparo, l’immenso impoverimento da sanare al più presto: c’è da riconsegnare il cosmo all’uomo. Dare all’uomo – ad ogni uomo – un modello di universo comprensibile, pensabile, lavorabile. Raccontabile, declinabile perfino sui social. E soprattutto, portatore di senso.
La partita è fondamentale, decisiva: in effetti, è questo il vero campionato del mondo, o meglio dell’universo. Un cosmo non raccontabile è qualcosa che proprio non ci possiamo più permettere:  è un cosmo in cui il disagio di non poter tracciare una storia diventa angoscia, timore del nulla, si veste di senso di impotenza, si colora di paura dell’ignoto. Un universo in cui siamo spersi: dispersi, per essere più pilotabili. Te la raccontano così, in effetti: sii buono e possibilmente, un quieto cittadino, buon consumatore, rimani pure nella tua quieta disperazione. Tanto cosa puoi sperare, lì fuori è tutto freddo e buio, non vedi?
Ebbene, è il momento di dire basta. Da tutto questo, da questo scenario malato, sconfessato ormai dalla stessa scienza cosmologica, dobbiamo e vogliamo evolvere.
Come da piccoli, la voce del papà e della mamma scavavano un percorso rassicurante nel buio della notte, confortando il nostro cuore impaurito, così l’umanità è sempre “piccola” – ovvero sempre in crescita – e desiderosa di ricavare un sentiero nella vastità dello spazio: per vedere il buio non più come oscurità, ma come un silenzio trattenuto, delicatamente trapuntato di stelle. Come scrivono Leonardo Boff e Mark Hataway, nel volume Il Tao della Liberazione“abbiamo smarrito una narrazione onnicomprensiva che ci dia l’impressione di avere un posto nel mondo. L’universo è diventato un luogo freddo e ostile, in cui dobbiamo lottare per sopravvivere e guadagnarci un rifugio in mezzo a tutta l’insensatezza del mondo”
In breve, la cosmologia contemporanea, quella più avveduta, ha questo grande compito: riportarci verso un cosmo a misura d’uomo, ovvero un cosmo incantato. Scrivono infatti gli stessi autori, che “l’umanità si è in genere considerata parte di un cosmo vivente intriso di spirito, un mondo dotato di una specie di incanto.” In questo modo il nuovo cosmo non potrà che riflettere la nuova scienza, quella che riporta l’essere umano non solo al centro del processo cognitivo, ma al centro stesso dell’universo che vuole indagare.
Questa rivoluzione cosmologica non avviene oggi “per caso”, ma è stata preparata da una profondissima crisi all’interno della stessa scienza più rigorosa, crisi che ha visto lo scardinamento e il tracollo della visione meccanicistica cartesiana (funzionale peraltro ad un approccio di dominio e non di relazione) sospinta dall’avanzare delle visioni – potentemente dirompenti – della fisica relativistica e della meccanica quantistica. Non è questa la sede per indagare la portata di tali eventi concretamente rivoluzionari, dobbiamo appena comprendere il loro di stimolo potente verso le istanze di un ricominciamento totale, anche nella scienza.
Questo ricominciamento, questo reincantamento, possiede in sé l’urgente necessità di comunicarsi a tutti gli uomini, perché tutti noi siamo comunque vittime di questo “furto del cielo”, perché  noi tutti soffriamo di questa ferita aperta. E’ un risarcimento che si vuol proporre, in altre parole. Urgentissimo, perché già tardivo. Una impresa di questa natura deve rivestire il carattere deciso di modernità, ovvero avvenire attraverso ogni canale informativo: ad esempio, non è ormai nemmeno pensabile, senza il coinvolgimento attivo dei social media.
C’è dunque un messaggio, il nuovo cosmo “a misura d’uomo”, e c’è la necessità urgente di rilanciarlo attraverso i canali privilegiati della connessione informatica, così pervasiva ad ogni livello di istruzione e in ogni ambiente. Anzi, potremmo addirittura ribaltare la questione, sostenendo che questa facilità immensa di comunicazione è nata esattamente nell’attesa, nell’imminenza di un messaggio “planetario” da trasmettere. Così comprendiamo perché, con Facebook, Twitter e gli altri social media – che a loro volta si appoggiano a questa straordinaria innovazione che è Internet – siamo arrivati ad una capacità di connessione sbalorditiva, proprio nell’imminenza di questo momento di crisi.
Il rischio allora è che questa capacità di contatto e condivisione, questa inedita potenza di fuoco possa rimanere senza un messaggio profondo da veicolare. Sarebbe pericolosissimo, perché l’assenza viene sempre colmata, in qualsiasi modo, a qualsiasi prezzo. Lo vediamo nei giorni presenti, dove diviene sempre più difficile estrarre un contenuto di valore dal rumore di fondo di ogni schermata di Facebook. Il valore, ovvero tutto quel che invita a riflettere e ad approfondire, rispetto alle innumerevoli “chiamate” alla reazione immediata e superficiale.
Tutto questo presenta conseguenze dirette – tra l’altro – anche nell’educazione, quel processo delicatissimo che deve anch’esso tornare ad un incanto primordiale, ad un ambiente protetto e non giudicante dove la creatività dei ragazzi è esaltata. A noi dunque la scelta di subirlo, questo cambio di pelle, di rimanere frenati in questa urgenza del nuovo, sempre più a fatica, oppure di lanciarci, di scommettere finalmente su un vero rovesciamento di prospettiva.
Alla fine, è una decisione, a cui siamo chiamati. In questa proposta interpretativa non c’è più il “caso”, ma tutto avviene per un senso, e la percezione di un modo “incantato” di guardare l’universo richiama ad un modello d’uomo che non è più vittima della tecnica, perché – in ultima analisi – non è più prigioniero del nichilismo.
Un uomo che possiede (in un possesso dinamico, per invocazione) un senso delle cose, è un uomo che automatica-mente manipola ogni oggetto, ogni tecnica, con una coscienza diversa, che porta nuovo frutto in quello che fa, perfino al tempo speso sui social. Non ci serviranno dunque decaloghi e regole d’uso per recuperare una dimensione umana in Facebook: ci salverà piuttosto la percezione di un cammino fatato, di un percorso possibile verso quel “Regno” dove tutto diventa anticipo e possibilità d’espressione nuova, di creatività inedita ed insperata. Dove la scienza si sposerà con un uso equilibrato e sobrio del mezzo informatico, recuperato nella sua autentica dimensione di strumento, e non di fine. In altri termini, ripreso a servizio.
Questo è il compito che abbiamo davanti, questa è una precisa responsabilità di chi, a vario livello, si occupa di fare scienza, o di divulgarla. Questo, con le sue piccole forze (che poi è sempre questione di risonanza, non di forza bruta), è anche il fine che il gruppo culturale AltraScienza si è prefisso, fin dalla sua formazione. Che vuole appunto declinarsi anche su Facebook, e su Twitter.
Per meno di questo non vale la pena muoversi, credetemi. Per meno di questo, non mette conto ripensare creativa-mentel’impresa scientifica. Nessun gioco al ribasso ormai ci è possibile, in questa epoca di grande cambiamento. O meglio, in questo cambiamento d’epoca. Tenendo in debito conto che, per usare le parole di Thomas Berry, “a noi non mancano le forze dinamiche per costruire il futuro. Viviamo immersi in un oceano di energia inimmaginabile. Ma questa energia, in definitiva, è nostra non per dominio ma per invocazione”.
Queste dunque sono le coordinate del gioco. Enorme, smisurato. Grazie al cielo, splendidamente al di sopra della nostra capacità. Così che sia più dolcemente chiaro, appunto, che tutto è alla nostra portata, sì, ma  per invocazione. Infine, a chi riguardasse questo come bello, ma utopico, permettetemi di rispondere con un motto del ‘68 francese, molto amato sia da scrittori laici come Albert Camus che da personalità religiose come Don Luigi Giussani: “Siate realisti, domandate l’impossibile”.
Pubblicato in origine sul blog Darsipace.it

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Si può fare a meno di Facebook?

Certo il titolo di questo post è un po’ provocatorio: uno certo potrebbe rispondere, legittimamente, di sì. Sì, certo che si può fare a meno di Facebook, non è (ancora) indispensabile come l’aria, il cibo, l’amicizia, l’amore.
 
Posto questo, si può cercare comunque di capire se si può ancora organizzare la propria vita online senza finire a gravitare, più o meno continuamente, sui servizi offerti dal celebre social network. Prima di tutto dobbiamo comprendere che stiamo vivendo un momento decisamente particolare nella storia del web. Per la prima volta, una frazione significativa dell’uso di Internet si trova ad essere completamente convergente -in pratica – su una sola piattaforma.
 
Una piattaforma – dobbiamo aggiungere – che ormai viene perfino utilizzata per fini squisitamente “istituzionali”: si pensi a scuole, università, enti di ricerca e di altro genere, stazioni radio e televisive,  a quanti di questi hanno un profilo su Facebook e/o una pagina, sovente deputata alla gestione di parti chiave della logica di queste istituzioni, come l’interazione con il pubblico. Ormai senza essere su Facebook non si riesce ad accedere ad una serie di servizi di indubbia comodità, quali il gruppo degli studenti di una data facoltà, il profilo della propria ditta o istituto di ricerca, oltreché vari servizi di diverso tipo. 
 
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Facebook. Se lo conosci, non fa male. O almeno, non troppo… 🙂
Photo Credit: rishibando via Compfight cc
 
Insomma Facebook ha acquisito una importanza percentuale – relativamente alla totalità dello spazio espressivo informatico – che in passato è stato appannaggio di differenti servizi, come la posta elettronica stessa, oppure Usenet. C’è però una bella differenza, rispetto al passato. Che i servizi citati sono/erano davvero di tutti, mentre Facebook è una proprietà privata. E’ tutta un’altra musica: stavolta è una azienda, che ti permette di usare i suoi servizi, alle sue regole e alle sue condizioni (e non potrebbe essere che così). 
 
Diciamolo pure, è la solita storia: quando ci siamo iscritti a Facebook abbiamo detto va bene ad una serie di condizioni scritte in legalese, che nessuno ha mai letto (o comunque si ricorda), per le quali possiamo essere certi che siamo più o meno ospiti, e che può accadere che anche se ci comportiamo bene, qualcuno decida di mandarci via. O per lo meno, di toglierci le cose che ci siamo portati con noi.
 
Lo dico non per sminuire la portata di Facebook, senz’altro uno degli esperimenti più interessanti di comunicazione sociale su scala planetaria. Lo dico perché accade. Uno entra e pensa “beh se non mi comporto male non ho problemi, se non carico le foto di mia sorella in topless che balla ubriaca sul tavolo del ristorante o gente che strangola gattini, non incorrerò in nessun ostacolo, in nessun vincolo alla mia espressività”.
 
In fin dei conti lo pensavo anch’io, fino a qualche tempo fa.
 
Poi però mi sono accorto che non è esattamente così.
 
Una mia amica sta ancora cercando di raccapezzarsi, perché un suo gruppo è stato di punto in bianco cancellato da Facebook. E non era un gruppo molto pericoloso, visto che l’argomento era a cavallo tra la psicologia e la spiritualità cristiana. Inoltre, in ogni caso, era un gruppo chiuso. Ma tant’è. Da un giorno all’altro non c’era più.
 
Richieste di chiarimenti a Facebook non hanno avuto esito. Certo, si può sempre riaprire. Ma il materiale accumulato fino a questo punto? Questo è solo un esempio, molti altri se ne posso fare. So che gruppi non molto “politicamente corretti”ma “inoffensivi” (come quelli che promuovono la famiglia tradizionale – uomo e donna -come ambiente migliore per allevare dei bambini), hanno vita difficile al momento. Anche qui, storie di gruppi che spariscono di punto in bianco. 
 
E’ ben noto che le inoffensive foto di mamme che allattano non hanno – pure loro – vita facile sul network. Mentre gruppi (perlomeno) di dubbio gusto proliferano tranquillamente.
 
Al di là del caso specifico, comunque, c’è molto di cui riflettere.
 
Piaccia o non piaccia, siamo in miliardi a delegare la gran parte della  possibilità di espressione in rete nelle mani di pochi (si spera) illuminati gestori del network. I quali probabilmente si orientano in modo da massimizzare le rendite, non in base ad alti ideali. E come dar loro torto, da un certo punto di vista? 
 
Come può cambiare tutto ciò? Non vedo soluzioni semplici. Ci vorrebbe uno standard  per interagire con le reti di social network, così come c’è uno standard per la posta elettronica. In questo modo i vari portali sarebbero solo collettori di “unità espressive elementari” che possono sempre migrare da un collettore all’altro. Torneremmo finalmente proprietari dei nostri contenuti, e del loro destino. Padroni, non ospiti.
 
Ma la cosa è ampiamente fantascientifica, lo ammetto.
 
Che fare? Forse l’essenziale, in questa fase, è appena rimanere coscienti di ciò che accede. Demonizzare Facebook (o il servizio dominante di turno) non serve, è ridicolo. Tanto quanto incensarla. Si tratta semplicemente di utilizzarla, se ne abbiamo vantaggio, ma rimanendo consapevoli di cosa stiamo facendo. Non rinunciare a ragionare, insomma.
 
Almeno un po’, almeno ogni tanto.

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Facebook? Ha le orecchie

Mi dicono che è una cosa nota da tempo. Io però me ne sono accorto soltanto ora. Se vado per aggiornare il mio stato su Facebook, compare una iconcina diversa dal solito, nella sezione dedicata all’umore.  Se lo faccio adesso,  ad esempio, trovo una opzione aggiuntiva rispetto alle varie classiche opzioni “Mi sento..”, “Sto guardando…”. Sì una opzione molto più puntuale e meno generica: “Sto ascoltando Study Op. 35 No. 17”.

Accidenti. Cioè, Mr. Facebook riesce ad intercettare il mio stream della radio Internet e propormelo tra i possibili messaggi di stato, bello e pronto (nel dettaglio, sto ascoltando dei pezzi per chitarra classica di Fernando Sor).

Wow

Così preso da un raptus comparativo, mi sono precipitato su Google Plus a vedere se anche il social network della grande G presenta un udito altrettanto fine. Ebbene devo dire che non pare: se pure Google conosce quello che sto ascoltando (tra un po’ conoscerà di certo anche quello che sto pensando), perlomeno non lo dà a vedere: non mi propone di postare il brano che Rdio.com sta ora srotolando attraverso gli altoparlanti.

Google è sordo? Può darsi. Comunque, Facebook ci sente benissimo 🙂

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Twitter, Facebook e le olimpiadi

Ormai le oscillazioni sono finite, il sistema è stabilizzato. E credo che rimarrà così per un bel pezzo. Ci sono due social network – o al massimo due e mezzo, se vogliamo. I due social, lo sappiamo tutti, sono Facebook e Twitter. Il mezzo, se vogliamo considerarlo così, è Google Plus. Google sta spingendo tanto il suo clone di Facebook (con qualche differenza in meglio e qualcuna in peggio) ma la mia sensazione è che sia comunque arrivata troppo tardi, quando la convergenza universale verso Facebook aveva già tagliato fuori le varie alternative. E ridotto drasticamente la varietà di possibili opzioni, anche future. 

Mi viene in mente questi sere seguendo (a volte distrattamente) le trasmissioni di Sky relative alle olimpiadi invernali in corso di svolgimento. Anche se sono intento a fare altro, la mia mente filtra le parole interessanti, e soprattutto mi colpisce come – in diverse occasioni – rilancino diverse volte l’hashtag per comunicare messaggi alla redazione via Twitter.

Questo mi fa capire bene quanto sia cambiato il mondo informatico, rispetto a pochi, pochissimi anni fa. Quanto all’esplosione di piattaforme e di possibilità si sia succeduto rapidamente una fase contrattiva, dove tutto l’interesse si è raggrumato rapidamente intorno a pochissime piattaforme. 

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 Ormai non sembra vi siano molte altre possibili direzioni…

Facebook e Twitter, lo sappiamo. I due hanno staccato tutti gli altri e sono da tempo in volata (anche perché quasi tutti gli altri… sono morti, informaticamente parlando). Difficile a questo punto pensare di riprenderli. Google Plus sta provando a staccarsi dal gruppo e tirare, raggiungerli nella volata. Ha dietro la forza di Google, un gigante della rete. Anzi, il gigante. 

Ma l’impressione inevitabile, è che abbia iniziato a correre troppo tardi. 

Intanto che Google si chiedeva cosa fare, provava con l’acquisizione di Jaiku, con Buzz… La condensazione si stava verificando. La direzione delle cose si stava delineando… 

Per la televisione, per i giornali, i network sono solo due, solo i due che hanno fatto la volata. La gente in media non ha voglia di lambiccarsi il cervello con altre piattaforme, con altri modi di fare le cose. Soprattutto, non vede la necessità di andare in un posto diverso da dove trova più facilmente i suoi amici. Difficile non essere su Facebook: è possibile, ma è diventato quasi uno snobismo, un po’ come non possedere un telefono cellulare, in qualche modo. Un modo per differenziarsi, insomma.

La persona “normale” (trattasi di persona non fissata sull’analisi di pro e contro delle varie piattaforme sociali in Internet) trova i sui amici su Facebook, poi non è che gli importa troppo sapere, ad esempio, se il meccanismo biunivoco di amicizia di Facebook è meglio o peggio dello schema di Twitter di followers e following. Che ci vado a fare su G+ se i miei amici sono altrove? E’ come andare a prendere un aperitivo in un bar bellissimo ma vuoto mentre i tuoi amici magari stanno al baretto “scarruffato” all’altro angolo della strada. Meglio andare lì, no?

Perché poi abbiano fatto loro due la volata, e non altri, rimane ampiamente materia di dibattito. Un po’ come chiedersi perché a suo tempo il VHS ha vinto sul Betamax (se non capite di cosa parlo tranquilli, vuol solo dire che siete beatamente giovani). Di cose interessanti ne sono fiorite: Identi.ca, Jaiku, Quaiku… e tanti altri che ora nemmeno ricordo. Che come early adopter, ho provato, ho esplorato… e poi li ho visti pian piano deperire, assottigliarsi, annaspare… morire. Il dispiacere più grande sono stati Jaiku e Qaiku. Avevano molte caratteristiche interessanti. Ma è andata così. Penso da un certo punto di vista, abbia vinto la semplicità, perfino la povertà di opzioni, in certi casi.

Doveva succedere. C’è una indubbia convenienza ad essere tutti su un paio di social network. E’ facile trovarsi. Quello che ci siamo persi, è questo: la nozione che c’è più di un modo per farlo, per prendere a prestito il motto assai efficace del linguaggio PERL. Ormai pensiamo “stile Facebook” … le amicizie, i gruppi, i commenti. Pensiamo possa essere soltanto così. 

Macché. Piuttosto, la nostra forma mentis si è sagomata sull’architettura di Facebook.

Un poco come quando la gente confondeva computer con Windows, oppure browser con Internet Explorer. Sfuggiva il fatto che ci fossero più modi per interagire con il computer (linux, Unix, Mac OS….) o per navigare in Internet (Firefox, Safari, Opera…). La mente si adeguava allo scenario conosciuto e lo veniva piano piano a considerare come l’unico possibile. 

Adesso accade più o meno la stessa cosa, con i social network. La cosa ha appunto molti vantaggi, ma accanto ad essi rimane un cruccio – almeno per chi scrive. Che la varietà che era esplosa qualche anno fa, si sia contratta, si sia ripiegata e annullata. Ovviamente è una generalizzazione, suscettibile di eccezioni e approfondimenti: vediamo bene che sono sorti in tempi recenti altre realtà interessanti, come Instagram, Tumblr, etc. 

Tutto vero. Ma se accendete la televisione su Sky olimpiadi, per dire, per comunicare con la redazione, vi daranno l’hashtag  per Twitter. Se tornate dal lavoro e ascoltate RadiTre (per darvi un tono piuttosto culturale, anche se siete in macchina da soli e comunque non se ne accorge nessuno) ogni trasmissione del pomeriggio si aprirà fornendovi il suo riferimento su Facebook. 

Questo è.

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E’ meglio Facebook. Anzi no, Twitter

Vi avviso subito. In questo post sto per violare una regola elementare. Quella che viene insegnata appunto in ogni rispettabile scuola primaria di primo grado. La regola riguarda, chissà perché, la frutta. La conoscete, è questa: non si sommano le mele con le pere. Ora, a parte il fatto che non ho mai capito bene perché (se sommo tre pere e quattro mele avrò appunto questo, tre pere e quattro mele. Posso semmai capire che non si moltiplichino le mele con le pere: due pere per tre mele che mi darebbe?)
Per passare dalla frutta all’informatica, vi spiego la mia perplessità. Sto per confrontare Facebook con Twitter. Certo, lo sappiamo bene tutti che sono social network, ma presentano caratteristiche fondamentalmente differenti uno dall’altro. Tali che appunto rendono abbastanza inutile – anzi, mal posta – la domanda su quale dei due sia migliore. Non si confrontano mele con pere, insomma.

Attenzione a non confonderle con mele… 

Una cosa in comune ce l’hanno, comunque. Sono le due reti sociali sopravvissute alla grande potatura (per rimanere in ambito agrario…) avvenuta spontaneamente negli ultimi anni: i due esperimenti che hanno ottenuto un successo stabile e (a quanto sembra) duraturo. L’ho detto, ma lo ripeto: sono gli unici due network “incorporati” nei sistemi operativi Apple. Piaccia o non piacciano i prodotti della casa di Cupertino, è un indiscutibile riconoscimento di chi sta dominando la scena.
A parte questo, in ogni altra cosa si differenziano. Twitter è più minimalista, più ferreo nel mettere limiti alla lunghezza dei post. Ha un meccanismo di “commento” che non è un vero commento, ma un link incrociato tra pagine. Questo è interessante e abbastanza peculiare: il commento rimane nella pagina di chi l’ha inviato, dunque, in suo totale ed esclusivo possesso. 
Facebook ha una serie considerevole di possibilità; le pagine, i gruppi, gli interessi. Twitter ha le liste, stop. 
Negli ultimi anni sono progressivamente ricaduto nell’uso quasi esclusivo di Facebook. Il motivo è essenzialmente legato al fatto che quasi tutte le conoscenze del mondo reale sono lì. Tanto che la mia timeline Twitter per molto tempo è rimasta a languire, con radi aggiornamenti. 
Ci voleva una occasione particolare per farmi un po’ cambiare idea. Ci voleva il Meeting di Rimini. Nei miei tre giorni al meeting ho seguito abbastanza assiduamente l’hashtag #meeting13 su Twitter, fino a riprendere quasi senza accorgermene confidenza con il mezzo. A riapprezzarne le caratteristiche. Velocità, semplicità, meccanismo del retweet, la comodità dei “preferiti” per ritrovare una lista di cose importanti anche a distanza di tempo (non c’è in Facebook). Possibilità di usare il client che più mi soddisfa (c’è molta più scelta rispetto a Facebook). Anche, la necessità di cambiare, dopo tanto tempo. Tornare in un certo senso a sperimentare, come si faceva negli anni d’oro dell’avvento del web2.0 e ora non si fa più.
In ogni caso, al di là di tutte le considerazioni, quello che mi continua ad attrarre in Twitter è una cosa semplicissima. Per le caratteristiche intrinseche del mezzo, non è strano postare anche molti interventi brevi in poco tempo. Quello che su Facebook sarebbe considerato eccentrico, o addirittura maniacale, qui è la norma. Su Facebook ogni post è come – in qualche senso – una richiesta di commento, dunque essere oggetto di molte richieste in poco tempo è seccante. Su Twitter non c’è modo di inserire un vero commento, dunque lo senti già diverso. Così se segui un evento, come mi è capitato al Meeting, puoi inviare diversi tweet in stretta sequenza, magari con i passi più significativi di un certo intervento, ed è tutto perfettamente normale. Magari qualcuno “risponde” (alla maniera di Twitter, con un intervento sulla sua timeline, che cita la tua), magari qualcuno mette qualcosa tra i preferiti o retwitta il tuo post. Comunque ti senti più libero di postare ciò che vuoi, ciò che senti in quel momento. E soprattutto, di infilare una serie di post senza seccare nessuno. 
Tra il serio e il faceto, mi  verrebbe poi da aggiungere che vi sono anche altri motivi

Insomma  – per una quantità di argomentazioni – starei per dire che ha ragione Don Tommaso (anche se pure lui mischia mele e pere impunemente)


Facebook ha dalla sua molti pregi, d’accordo. I gruppi e le pagine sono strumenti molto efficaci e – devo dire – ben congegnati. Li uso e intendo continuare ad usarli. Ma non è Twitter, e in nessun modo può sostituire Twitter.  D’altra parte, una mela non è una pera, né può mai sperare di diventarlo.

E sopratutto certi confronti, me lo dicevano alle elementari, non andrebbero fatti…

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Una nuova email? A gradini però

Sì il protocollo di posta è decisamente vecchio. Consideriamo un attimo la grande evoluzione che ha avuto negli ultimi anni la comunicazione via web. Una espansione accelerata, una inflazione informatica (sulla stregua della più classica inflazione cosmologica) che deve essere ancora debitamente metabolizzata e compresa. Ecco, a fronte di tutto questo, siamo ancora legati ad una comunicazione email il cui standard è stato definito molti, ma molti anni fa.

19th Century emails
La posta elettronica rischia di diventare vecchia come quella… normale 🙂
Crediti: Francesco Adorisio su Flickr, licenza CC-BY-NC-ND 2.0)
Sì, anche i servizi webmail che appaiono al momento come la versione più moderna e immediatamente usabile dell’antico paradigma (mi riferisco a Gmail, Yahoo! Mail, e così via). I servizi webmail, proprio quelli, che sono spesso ormai l’unica versione di posta elettronica conosciuta dalle generazioni più recenti. Chi ha visto nascere Internet è stato abituato ad anni di lunghe configurazioni di client di posta, rocamboleschi settaggi per lasciare o non lasciare la posta sul server, e tutti i vari problemi al momento di cambiare computer. E ovviamente, inevitabili perdite di centinaia di messaggi in seguito alla rottura del disco rigido, o di un comando sbagliato, un settaggio fallace. Certo tutto questo è preistoria informatica, ormai. Usando un servizio webmail tutta la posta è accessibile da qualsiasi device, in qualsiasi momento (computer, laptop, smartphone, tablet…).
Tra i diversi standard, il protocollo POP per scaricare la posta in locale appare a mio avviso insopportabilmente datato. Porta addosso l’odore di una epoca in cui uno aveva uno – o al più due – computer (tipicamente, se era abbastanza informatizzato, casa e lavoro) dove scaricare la posta, un’epoca nella quale l’accesso in mobilità era ancora fantascienza, dove i telefoni… telefonavano soltanto. Dove persino Facebook non esisteva, tanto per dire….
Il webmail è in realtà una versione accattivante del protocollo IMAP, ideato nel lontano 1986, dove è possibile gestire i messaggi direttamente sul server. 1986, dicevamo. Dunque, vecchissimo, per gli standard del web. Come risultato, tante possibilità che uno potrebbe pensare, restano precluse. E’ molto più ricca la comunicazione via Facebook, o attraverso iMessage di Apple, ad esempio. Era assai più ricca l’interazione attraverso wave, l’esperimento di Google che doveva ‘svecchiare’ la posta elettronica, e che invece è purtroppo deceduto, ucciso da un interesse non abbastanza elevato.

Eppure ci si poteva pensare (almeno, con il senno di poi, mi pare evidente). Perché certo, wave aveva dalla sua una capacità innovativa sensazionale, era un protocollo aperto, estendibile, pieno di possibilità. Era tutto questo ed altro, ma con un difetto di origine. Un difetto terribile. Costringeva gli utenti a cambiare. A procurarsi ed adottare un indirizzo differente rispetto a quello della tradizionale posta elettronica. A fare un salto. O più verosimilmente, a tenere il piede in due staffe.

Chiaro che a molti la cosa non interessava.
Ipotizziamo ora uno scenario diverso, tanto per divertirci un po’. Uno scenario in cui l’innovazione non proceda per salti, ma avvenga progressivamente. Diciamo, a piccoli passi. Attraversando stati di quasi equilibrioUno scenario in cui non si debba cambiare indirizzo, ma vengano aggiunte via via possibilità al proprio esistente indirizzo email. Il punto è che i tempi sono maturi, adessoQuesto prima non era possibile, se non a botte di specifiche RFC (come quelle che definiscono, appunto, gli standard POP, IMAP etc…) . Ora invece è possibile, in casi specifici. Consideriamo ad esempio la diffusione enorme di Gmail: non è assolutamente infrequente che la comunicazione mittente – destinatario si consumi integralmente nei server di Google. Ecco a cosa penso, allora, avete capito.

Vediamo un po’. Cosa impedirebbe a Google – che nel caso citato, controlla integralmente la comunicazione – di introdurre nuove caratteristiche arricchendo il protocollo, piano piano? Basterebbe un meccanismo di ricaduta sullo standard più diffuso nel caso di fruizione al di fuori delle ampie braccia del gigante di Mountain View. E il gioco sarebbe fatto.

Un po’ come fa già Apple con la sua messaggistica: i messaggi che circolano tra due iPhone sono usualmente in forma iMessage (con caratteristiche arricchite rispetto ai semplici SMS, sul tipo di WhatsApp, per intenderci), mentre se uno dei due non è un iPhone (a volte capita…) avviene un fallback silenzioso ed efficace  sul protocollo SMS.

Così potremmo avere – tra due utenti di Gmail – la notifica automatica di consegna e anche di lettura, tanto per rimanere su un livello più semplice. E via via cose più sperimentali, rasentando pian piano i pregi e le caratteristiche di wave. Sempre però senza cambiare indirizzo. Sempre conservando l’indirizzo email già adottato, per il quale si usufruirebbe – appunto – di servizi arricchiti nel caso particolare in cui la comunicazione avvenga entro un certo ecosistema. Non sarebbe fenomenale? E non sarebbe un motivo per scegliere Gmail (o chi per lui, volesse farlo) invece di altri servizi, ad esempio?

E’ solo un esperimento mentale, ma fa capire la cosa. La posta elettronica dovrebbe progredire per piccoli passi, altrimenti alla gente non interesserà. E mentre la comunicazione attraverso i social network continua ogni giorno ad arricchirsi e progredire, per le email rimarremo fermi agli anni ottanta.

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Omologazione informatica?

Ogni tanto ci penso. E’ che chi non ha vissuto il tempo glorioso della sperimentazione probabilmente non può comprendere appieno. C’è stato un tempo nel quale fiorivano diverse piattaforme, si sperimentavano modelli di social network, per ogni paradigma che sembrava farsi strada, vi era tutto un sottobosco di esperimenti più o meno riusciti che avevano i loro sostenitori, e comunque ti facevano capire che c’era ben più di ‘un modo per farlo’. Di modi ce ne erano a decine, ognuno in sana competizione con gli altri.
Ci penso. Penso che Twitter è nato con una struttura così elementare che nessuno gli avrebbe dato mezzo euro di credito. Brevi post di 140 caratteri appena (fatti apposta da poter essere scritti come SMS dal cellulare), nessuna possibilità di commenti, di citazioni di altri. Poi è venuto – dalla comunità degli utenti – il meccanismo della risposta, ottenuto premettendo la “@“ al nome dell’utente al quale si vuol parlare. Poi è stato integrata una dinamica di citazione, di ‘retweet’. Sono arrivati gli hashtag

Oggi Twitter è il paradigma assolutamente imperante per questo tipo di social network. E’ uno standard, non più una particolare realizzazione. E’ come la posta elettronica – non è percepito come un servizio commerciale di un dato fornitore. E’ quel servizio. Basti pensare che quando Benedetto XVI ha aperto il suo microblog, logicamente lo ha fatto su Twitter. Logicamente, realisticamente: perché è “lo” standard per il microblogging (tanto che quest’ultimo termine comincia a perdere di significato, visto che dovrebbe indicare una galassia di servizi per la quale la luce di uno solo offusca tutti gli altri). Onestamente: ogni altra scelta sarebbe sembrata “strana”, non trovate?
Ma prima no. Prima c’erano altre strade, altre vie. Altri modi di vedere il mondo. Ecco, prima c’era Jaiku. Ricordiamocelo. Quando Twitter non aveva ancora nulla, Jaiku aveva messo su un vero sistema di commenti, ad esempio. Non solo. Aveva i gruppi: potevi associarti ad un gruppo con cui condividere un dato interesse, ognuno con il suo forum di discussione. Jaiku inoltre aveva un client per Symbian che – per l’epoca – era davvero un gran bel pezzo di software. L’ho usato sul mio Nokia 73 e vi posso garantire che era splendido. La scommessa per il mercato mobile era stata lanciata. L’alleanza con Nokia (dire Nokia qualche anno fa era come dire iPhone oggi) un’arma formidabile. 
E’ stato un bell’esperimento…  
Poi per qualche motivo la scommessa è stata anche persa. Jaiku è prima stato comprato da Google, poi è defunto. Qaiku – nato sul suo modello – ha subito lo stesso destino. Il mercato è implacabile. E ha leggi a volte imperscrutabili.
Facebook aveva pure i suoi antagonisti. La guerra Facebook – MySpace, chi se la ricorda ora? Chi dice più “cercami su MySpace?”. Senza contare tutti gli altri network che spuntavano come funghi. Bello il periodo che è passato. Ogni giorno c’era una cosa nuova da provare. Fotografie di un passato recente, che sembra già antichissimo. 
Ora il mercato ha scelto. Si è ristretto su Facebook e Twitter (Google+ tenta di entrare in partita, ma non mi è chiaro quanto riesca davvero). Prima era divertente (tanti network con cui giocare, sperimentare) e frustrante (per collegarti con Tizio dovevi registrarti da una parte, con Caio dall’altra…). Ora è efficiente, utile (o inutile), rapido (siamo tutti su Facebook), e… noioso. 
Sì, dal punto di vista tecnico, noioso. Perché abbiamo perso lo stupore e la varietà.  Non abbiamo più che un solo modo di vedere le cose.

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