Blog di Marco Castellani

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Adesso (e sempre)

Tutto deve avvenire ora, nel presente. Siamo tutti molto stanchi. Siamo molto stanchi di promesse e speranze buttate in avanti, quasi dette pro forma (anche nelle chiese), come un ennesimo gioco al quale non crediamo.
Tutto deve avvenire adesso. Basta in realtà un semino di resurrezione dai miei guai, dai miei crucci, dai miei problemi. Basta un accenno di speranza che mi dice tu ne vieni fuori. Piccolissimo, per carità. Ma deve essere dato ora.
Non abbiamo voglia, non abbiamo più voglia di aspettare, di prenderci in giro.
Scrive Marco Guzzi oggi su Facebook, che

la risurrezione accade
ora, oppure
per me non è mai accaduta.

Ci sto. Se oggi ho un motivo di uscire dalle mie recriminazioni circolari, ho cioè un inizio, una (ri)presa di percorso che mi conduca fuori dal circolo vizioso di mormorazioni, che occupa tante volte il teatro della mente, allora posso rilassarmi.
Sarà lungo quanto volete, sarà il lavoro di una vita, ma posso rilassarmi ora.
Altrimenti la tentazione è di ricadere nella tremenda frase di Kafka, Esiste un punto d’arrivo, ma nessuna via, dentro la quale spesso inconsapevolmente ci muoviamo.
No, non ci sto: esiste una via.
Esiste un cammino per ritornare amici del nostro cuore, e possiamo ricomprenderlo proprio oggi, perché nuova speranza venga a versarsi nel nostro animo, agganciandoci così a quel moto di resurrezione che è una delle dinamiche potenti (anche se nascoste, luminosa sottotraccia quotidiana) della storia, è una possibilità permanente che possiamo prendere e lasciare mille volte (non conta quanto). Oggi voglio agganciarmi a questa resurrezione, contro le mille, diecimila morti che rimangono da sanare nel mio cuore.
Ma no, non contro. Oltre, al di là.
C’è un cammino per “darsi pace”— ce ne sono mille.
La tristezza viene quando rinunciamo. L’allegria, quella allegria misteriosa e tenace, viene quando diciamo “ok, non rinuncio a questo cammino, lungo o corto, sia come sia. Io ci sto”
L’allegria è starci ad una proposta, appena. Questo segna — immediatamente e irresistibilmente — uno strappo nel tessuto dello spazio tempo, spesso così’ opaco. E di colpo si vedono, si vedono le stelle.
Il resto sono chiacchiere circolari. Buone per quest’anno e per i prossimi. Si possono fare abilmente anche continuando a nutrire quello strato oleoso di cinismo spicciolo, dentro il quale siamo abitualmente impastati.
Starci invece è rimettere in moto gli ingranaggi, riprendere a far girare la storia. Quella piccola e quella grande (non c’è differenza).
E’ un miracolo: una decisione intima, quasi microscopica, che ribalta il (mio) mondo come un guanto, collega il cuore con i quasar più lontani, cortocircuita gli spazi dei pensieri aridi.
Gli scrupoli morali sono per chi ha tempo e voglia di tormentarsi (e ne so qualcosa). Non si parla di questo, qui.

Quello che ci dici oggi, o Signore, è l’ultima parola che hai detto nel vangelo di san Giovanni: «Simone, mi ami tu?». Non hai detto: «Non peccare, non tradire, non essere incoerente». Non hai toccato nulla di questo. Hai detto: «Simone, mi ami tu?». Questa è la voce che echeggia dalla capanna di Betlemme: «Mi ami tu?». (Luigi Giussani)

L’Amore è un punto, è ovunque. La libertà di riconoscerLo, di amarLo, rimette in moto l’universo.
Adesso, e sempre.

Auguri di buona Pasqua e di buona resurrezione!

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L’umiltà del credere e del seguire

Leggo dal testo Yoga e preghiera cristiana, di Marco Guzzi, una frase che squarcia il velo su tanti malintesi, in materia di fede e spiritualità. Essenziale come non mai, oggi (ok, almeno per me).

E’ invece solo attraverso la seria ed umilissima adesione ad un cammino storico concreto che io potrò poi vivere anche la grandissima transizione antropologica che stiamo sopportando, e le trans-figurazioni misurate e corrette delle stesse tradizioni religiose che essa richieda. Ma non illudendomi di poter scavalcare in toto il punto più difficile e dolorosa della nostra trans-figurazione, e cioè appunto l’umiltà an-egoica del credere e del seguire.

Diceva un bel canto di Claudio Chieffo, che “è bella la strada per chi cammina”. Quel cammina che sintetizza mirabilmente, a mio avviso, proprio la frase che ho estrapolato dal testo di Guzzi.
Ecco, l’umiltà anegoica del credere e del seguire. Proprio quella, vorrei riscoprire. Sono così perso così spesso nel dar fiducia ai miei ragionamenti circolari, che mi dimentico di questa fondamentale verità (assolutamente condivisa da tutte le tradizioni spirituali). Di queste due paroline che liberano dalla schiavitù del proprio pensiero, dello sforzo eroico di tenere in piedi il mondo, dandogli senso.
Marco, rilassati. Non devi dare senso al mondo, devi appena riceverne il senso. Non è uno sforzo progettuale e concettuale che ti è richiesto, ma un atto di cedimento, piuttosto.
Lasciare il comando, fidarsi. Difficilissimo, siamo d’accordo. Eppure, concettualmente, di una semplicità dell’altro mondo, proprio.

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Quella dolce purezza del sì

Francisco de Zurbaràn, L’Immacolata Concezione- particolare. Guadalaiara,
Museo Diocesano di Siguenza

Attendere. Essere in attesa, paziente. Rinunciare.

Rinunciare a seguire il filo implacabile del pensiero,
del progetto, la catena irredimibile del fare.
Essere nuovi, essere rivoluzionari, essere.

Essere nuovi ed antichissimi, essere autenticamente originali.
Essere propriamente sé stessi, essere.

Essere in relazione, schiantare l’autosufficienza impaziente.
Don’t carry the world upon your shoulder.

Sfondare il senso di dover dare senso al mondo, con il proprio fare.

Lei non doveva fare nulla, peraltro.
Proprio nulla.

Solo essere d’accordo,
solo non porre ostacoli,
solo non fare valutazioni su sé stessa
o sul mondo,
non doveva nemmeno capire

il disegno, solo questo:
solo dire sì.

Purissima, entra nel mondo senza
alcuna ombra disarticolando
nel profondo gli usati meccanismi,
le note dinamiche,
nella forza preventiva
di questo sì.

La fecondità arriva.
La fecondità arriva quando ti arrendi.
Quando lasci fare, ti rendi morbida
ti lasci fare.

Lei non poteva dare senso al mondo
con il suo fare, soltanto.
Non avrebbe potuto.
Poteva solo accogliere.

Capisci che quando ti arrendi sorge un seme
sorge un seme dentro di te e diventi
feconda, diventi bella in ogni cosa
in ogni cosa
che fai o che non fai.

E’ la sconfitta suprema, il ground zero
della tua mente, final-mente, delle sue architetture
crescenti e ricrescenti come cellule malate
come cellule impazzite.

Ben conosci, del resto, questi
acri di architetture infeconde,
universi desolati e freddi, vastità
gementi.

Vedono, i tuoi occhi dolci,
la sconfitta di ogni ideologia,
affondata nel suo stesso spazio,
implosa nell’assenza di senso,
morta intrisa in sangue e violenza,
quella violenza inesorabile del vuoto.

Allo stesso tempo, imperniata nello stesso istante,
esulta il tuo cuore per  la vittoria radicale del
pensiero poetico e

d’ogni umana arte, come universo pulsante
propriamente carnale,
lietamente espulso dall’orbita
dal pensiero razionale.

Quella perpetua sottesa vittoria
della bambina in te che
vuole solo la mano che guida, l’affetto, un senso
dolcissimo di essere
salvata

mai più saggezza mai più

abitando questa sola
pazza e sconveniente saggezza,

l’estrema saggezza
di accogliere,
acconsentire:

lasciarsi cadere
al di tutto, fuori di te eppure

al tuo vero centro,
grembo accogliente
dell’universo tutto.

Roma, 8 dicembre 2016

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Tu sei un bene per me

Rosa la incontro la mattina del mio secondo giorno, subito dopo la Messa. Sono arrivato sabato pomeriggio, in compagnia di altri amici ciellini (così si apostrofano, anche tra loro, le persone vicine al movimento di Comunione e Liberazione): Daniela, Loredana e Michele. Il mio equipaggio, in poche parole.

Da qualche anno, da quando ho riscoperto con più chiarezza l’attrattiva della sequela nel movimento, cerco di non mancare un passaggio al Meeting di Rimini, almeno per un paio di giorni. Lo sento parte del mio cammino, uno dei punti forti dell’anno, qualcosa che innerva di senso e significato lo stesso procedere.
Quest’anno però ci si era messo proprio tutto, inclusa — in prossimità della partenza — perfino la rottura della macchina in autostrada. Ero quasi certo di dover rinunciare. Invece eccomi, sabato verso le cinque sono ormai quasi alla Fiera, con la fretta di arrivare in tempo per l’incontro introdotto da Marco Bersanelli, quello sulle onde gravitazionali. Quello — mi dico — lo “devo” proprio prendere.
Rosa poi mi avrebbe scritto (o come si dice oggi, messaggiato).

Al Meeting 2016 mi ci ha portato Alice, mia cognata. Lei, che ci va da quando aveva sedici anni, tutti gli anni, ad ogni angolo incontrava qualcuno da salutare. Io la seguivo docile, accettando le mostre o i convegni che mi proponeva, in qualche caso aggregandomi a sue amiche, se la proposta mi convinceva maggiormente e se il gruppo si scindeva.

L’incontro condotto da Bersanelli — che ospita Roberto Battiston, Presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana e Laura Cadonati, Professore Associato presso la Scuola di Fisica del Georgian Institute of Technology, è denso e molto valido, per tutti. Per me è anche un anticipo regalato di questa “altra” idea di scienza, che tentiamo di sviluppare anche dentro il movimento Darsi Pace: una idea di scienza, in poche parole, aperta alle istanze della cultura e della spiritualità. Dunque, un incontro subito e pienamente darsipacista, appena arrivato. È certo un buon inizio.
Ma è così, ormai. L’avrei confidato a Rosa il giorno dopo: ho perfino smesso di contare le concordanze, non distinguo più se un pensiero, una citazione, uno spunto, mi vengono da Comunione e Liberazione oppure da Darsi Pace (molte volte perfino le fonti delle citazioni sono le stesse). Io la vedo così: al di là delle sigle, delle declinazioni organizzative, c’è l’unificazione delle forze. Come insegna la fisica, ad alti livelli di energia tutto è uno, la diversità si ricompone, si integra: è la strada, la strada dove sono stato posto. Io, di mio, non ho deciso proprio nulla, di mio non decido mai niente: l’unica cosa che posso decidere, l’unica cosa che mi è richiesta, è il mio assenso a seguire, a rimanere — e a ritornare — sul cammino.
Ma non dovrei stupirmi. In Darsi Pace faccio questa strada in compagnia di ex anarchici, di suore, di persone della più varia estrazione e storia. Ognuno integra il percorso, con la sua specifica formazione, e per ognuno — mi pare — accade questo miracolo di integrazione.
Una strada che si snoda ormai dall’ottobre di due anni fa, e che mi ha regalato tanto, e soprattutto una grande ricchezza umana, articolata in incontri, sorrisi, incoraggiamenti, intese. Capisci finalmente il conforto di tante persone che camminano insieme con te: attraverso di loro vedi che le tue debolezze non sono obiezione a niente, ma proprio a niente. Una cosa che da solo, probabilmente, non capiresti mai.
Sì, l’avrei detto a Rosa la mattina dopo, tutto si integra. Se la incontro è poi colpa di Facebook (ma in fondo se sono nel percorso Darsi Pace è sempre ed ancora “colpa” di Facebook, per quel post che intercettò il mio interesse, qualche anno fa). È lui che, alquanto impiccione, mi avverte che ho un amico nelle vicinanze. Avverte anche Rosa, ovvio. E così ci mettiamo in contatto.

È stata una gioia per me incontrare due “insorti”, due persone conosciute al Seminario di Trevi: uno, è un Astrofisico e l’altro un Parroco.

D’accordo (a proposito, io sono l’astrofisico, ovviamente). Ci si vede la domenica mattina, subito dopo Messa.

Bellissima la Santa Messa di domenica 21, Spettacolare il flusso ordinato con cui i ciellini si muovono per l’eucarestia.

La sera del sabato, sono allo spettacolo di Paolo Cevoli, “Perché non parli”. Bello, certo un pelino forse richiede attenzione e concentrazione, perché fa tutto da solo. Non hai il conforto di un dialogo, che magari alleggerisce. Ma è bravo, e soprattutto si respira una buona aria. Quella buona aria di misericordia, che si sente un po’ dovunque, qui in Fiera.
E certo, di bella allegria.
L’allegria totalmente non forzata dei volontari al meeting — è questo spettacolo che mi si rinnova ogni volta che vengo, che dissolve gli strati di cinismo che la vita distratta mi mette addosso. D’altra parte, l’allegria non forzata di qualcuno, la letizia anche solo come accenno, è qualcosa con cui comunque fare i conti, qualcosa che non ti lascia tranquillo, ti spinge a cercare, a capire. Qualcosa che si ripercuote in ogni angolo, agli shop, ai bar, alle mostre. Quello che riescono meglio, quelli che patiscono l’affollarsi delle persone. Tutti.

Le mostre che ho visto mi hanno emozionata. Più di tutte “L’Abbraccio Misericordioso” che anche nei testi del catalogo ho trovato molto affine al pensiero di DP; la mostra su “Madre Teresa” mi ha straziata e anche “American Dream” un viaggio tra i Santi Americani, è stata di grande impatto emotivo. Ho trovato poco piacevole, ma per la disorganizzazione che ha visto far accavallare i gruppi facendo perdere ogni senso, “Restaurare il Cielo”

La mattina di domenica dopo la Messa, mi trovo dunque con Rosa vicino alle piscine. Rosa sta per iniziare il primo anno in Darsi Pace, dopo essere stata a Trevi per la settimana “insurrezionale” (e avere visto una sbaraccata di video di Marco Guzzi, come mi dice). La incontro in compagnia di sua cognata Alice. Ha il mio stesso entusiasmo, Rosa: quello di trovare nel meeting mille cose che hanno un sapore darsipacista.
Parliamo un po’, ed è come se ci conoscessimo da sempre. Quando ti muovi su un territorio comune, sembra che il dialogo sia più efficace. Ci si comprende meglio, più rapidamente. Lo stupore comune di quello che si sta vedendo in opera, rende tutto più facile. Dobbiamo riportare Marco al meeting! ci diciamo — entusiasti come bimbi — e ci pare al momento un’idea di straordinaria importanza. L’aria che si respira qui è un’aria amica a Darsi Pace. Dobbiamo lavorarci. Farlo venire per un incontro. Già, gli incontri, appunto.
Dal punto di vista degli incontri ce n’erano tanti e in contemporanea. Di sicuro non era facile garantire per tutti la stessa qualità, Molti, molto belli, intensi. Mi limiterò a citare quello che mi è piaciuto di più. Il preferito, “Un abbraccio che cambia la storia” con Mons. Paolo Pezzi, Arcivescovo di Monza e Vladimir Legoyda, Presidente dei Rapporti Chiesa — MassMedia del Patriarcato di Monza, con moderatore Alberto Savorana.
Lascio le due donne, con una bella impressione per la loro serenità. Saprò dopo, con grande stupore, che hanno attraversato un dolore molto forte, una grande perdita. A volte, vedo che persone sottoposte dalla vita ad un forte scossone sono proprio quelle che cercano con più serietà, come avessero sfrondato il cammino da tante cose inutili, da tante preoccupazioni di superficie. E questo si riverbera intorno, non c’è dubbio.
Il pomeriggio di domenica è molto denso, con gli incontri di Luca Doninelli sul tema del meeting, Tu sei un bene per me (ovvero, esclamerebbe la mia parte darsipacista, la bellezza inesausta della vera modalità relazionale, del superamento dell’io ego-centrato!), e quello di Davide Rondoni, uno dei poeti contemporanei che ammiro di più, su Shakespeare ed il senso dell’altro in Amleto.
Tutto, tutto rimanda a questo rapporto con l’altro (e con l’Altro), e tutto acquista un senso più vero, più sanguigno, più reale, dopo che questi due anni in Darsi Pace mi hanno fatto comprendere quanto questo rapporto con l’altro, compreso come fonte di bene, non sia scontato ma sia come un termine di un cammino, un già e non ancora. Un cammino innanzitutto dentro di sé, di cui qui si ritrovano le ragioni. In mille incontri e mille diversi linguaggi, più o meno efficaci.
Ho apprezzato particolarmente il linguaggio chiaro e diretto di Vladimir Legoyda del quale ho annotato una frase in particolare sul mio taccuino “Il cristiano non ha altro modo di cambiare il mondo se non innanzi tutto cambiando sé stesso” (che ne dite?) Non mi è piaciuto ad esempio “Le città non possono morire” soprattutto per l’emersione di un linguaggio ancora troppo politichese e mi pare avulso da vere soluzioni operative.
Ma l’incontro che mi colpisce di più è senza dubbio quello che chiude il mio meeting. Ripartirò infatti lunedì a mezza giornata. E prima faccio in tempo ad assistere all’incontro condotto da Roberto Fontolan, “Quale Islam in Europa”, con Wael Farouq, Docente di Lingua e Letteratura Araba all’Università Cattolica di Milano, e con Aziz Hasanovic, Gran Muftì di Croazia.
Qui — proprio sul punto di lasciare la Fiera — accade un piccolo miracolo interiore.
Qui la commozione per la testimonianza anche di chi ha profondamente sofferto e ciononostante ha scelto la modalità relazionale come approccio con l’altro, con le persone di altra fede, diventa commozione di me che ascolto. E gratitudine, vera gratitudine per l’offerta di una chiave interpretativa non bellica e pienamente realistica del rapporto con l’Islam. E in ultima analisi, del rapporto con chi è differente da me per visione del mondo, ma fratello, pienamente fratello in umanità. È la gioia purissima di un abbraccio, di sentirsi finalmente abbracciati, che mi rimane addosso mentre mi avvio alla stazione del treno.
Se devo trarre una conclusione direi che “L’abbraccio” in congresso, in mostra, in verità è il simbolo della resa del cuore, della nostra guarigione, della guarigione del mondo. L’abbraccio, nella misericordia.
Tutto si può dire del Meeting, di tutto si può ragionare: e questo non intende essere un intervento apologetico, né del meeting né di CL. Ma ecco, la Misericordia si avverte. Una misericordia a tutto campo, che non sopporta etichette o sigle o tessere di appartenenza. Mentre mi porto dietro questo abbraccio, i volti, i visi di tante persone di buona volontà, mi accorgo che il cinismo che mi avvelena così spesso nell’ordinario, non è l’ultima possibilità, è solo una (pessima) scelta. Una scelta che si può rivoltare, come un calzino.
Si può sperare, infatti. Si può camminare, perché la strada esiste.
Una strada — ne sono certo — che si può per larghi tratti percorrere tutti insieme, ma tutti. Tutti quelli che non hanno rinunciato a sperare, qualsiasi cosa credano o non credano.
Tutti.
Per darsi pace, la strada c’è: passa per gli incontri, i volti. Passa per l’uomo, coinvolto da Qualcosa di grande: quel soffio che per un momento lo distrae perfino dal suo limite, lo lascia a bocca aperta. A ritrovarsi addosso l’accenno di questa illogica allegria (per dirla con Gaber), fonte e ragione del cammino della vita.

Gli interventi in corsivo e rientranti sono di Rosa, il resto del testo è del sottoscritto.
Versione rivista del post pubblicato sul blog DarsiPace il 15 settembre 2016.

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Strumenti di lavoro

A volte uno fa lunghi ed estesi giri per riscoprire ciò che magari era già noto a tanti, da molto tempo. Però non credo siano mai giri inutili, siano mai peripezie invane. Intanto perché nella vita la cirtuitazione non è mai uguale a zero. Vivendo ti sporchi di quello che vivi, lo trattieni, te lo porti dietro. 
Contrariamente al detto una pietra che rotola non raccoglie mai sugo, secondo me di sugo ne raccogliamo tanto. E comunque. Tutto sta a volerne fare, con questo sugo, una bella pastasciutta. Oppure considerarlo solo come qualcosa che ci può sporcare il vestito. 
Il primo caso è quello davvero più interessante, perché se lo esploriamo a fondo vediamo che niente è veramente mai invano. Tutto serve. Magari si capisce subito, o dopo vent’anni. Ma tutto serve, sempre e comunque. Questo principio di conservazione squisitamente antispreco è qualcosa di molto confortante, a rifletterci bene. 
Così uno può attraversare delle fasi in cui, diciamo, sente il bisogno di aiuto nel comprendere la specificità e la unicità di ogni giorno. Così, tanto per essere sostenuto nella lotta ai pensieri pigri di andamento vagamente depressivo: quelli, per capirci. che assalgono tutti e ti avvelenano lentamente di frasi tipo è tutto uguale, non cambia mai niente, oggi è come ieri… 

Sono pensieri pigri da combattere, perché è noto a tutti il fenomeno: più ti ci incastri dentro, più sembra che la realtà ti si confermi in tale attitudine, mentre invece sei tu che selezioni dalla vita ciò che te la conferma. In un gioco, direi, che pur sembrando alquanto masochistico, comunque ci ritroviamo sovente a giocare, al di là delle nostre dichiarate intenzioni. 
E può capitare che un suggerimento ascoltato durante un incontro di Darsi Pace, trovi una eco imprevista nel cuore, come l’apertura di una possibilità. E non in una cosa nuova o particolarmente originale, ma in una nuovo sguardo su una cosa che più antica e tradizionale non si può.

Strumenti di lavoro… 

Si tratta infatti – ed è questa la sfida – di trovare una propria personalissima strada nel solco della tradizione. E’ questa la sfida veramente creativa, è questo il percorso interessante. Molto più fecondo dell’adesione cieca o del  rifiuto totalizzante.

Se infatti accettiamo – o meglio quando accettiamo – questa ipotesi di lavoro (Cristo come compagno del cammino dell’uomo), superando quella misteriosa repulsione tutta moderna, o almeno investigandola a fondo, ecco che torniamo alla sfida di nutrirci anche di testi e strumenti di cui si sono nutrite generazioni e generazioni.

E in questa luce, la tensione nel cercare qualcosa di nuovo si traduce e si riverbera – in modo forse più costruttivo – nella tensione nel cercare di vivere l’antico in modo nuovo. Come deve essere infatti veramente vissuto. 

Allora si comprende come l’avventura del rapporto con la divinità sia una cosa molto personale, in fondo. Personale, nella piena accoglienza della dottrina. E’ una sorta di paradosso che si risolve solo in modo esperienziale, vivendolo. Capita così di avvertire i dogmi non come limitazioni alla libertà di pensiero (cosa salubremente intollerabile per l’uomo moderno), ma come gli argini di un fiume, che aiutano a convogliare l’acqua, a farla scorrere l’acqua in modo diverso e personale per ognuno di noi.

E si riprendono magari degli strumenti di lavoro, come il calendario liturgico e la frequentazione di testi, che possono offrirsi alla meditazione di ogni giorno come aiuto anche a dare un colore alle varie giornate, e a rischiare la navigazione in mare aperto, secondo una rotta che è soltanto nostra, che è tutta da inventare. Una lettura nuova, che non dimentica niente delle acquisizione della modernità, che accoglie ogni fermento anche dalle posizioni più critiche. Una lettura che si pretende adulta, consapevole.

Ma che, al contempo, è saggiamente protetta, amorevolmente tutelata.

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La fisica del buco

Che poi, la cosa mi sembra questa, e anche abbastanza semplice, dopotutto. C’è questo buco, questo enorme buco dentro di me. Ora, il fatto è che – detto in maniera spiccia, saltando i passaggi – solo Cristo riempie questo buco. Non è questione qui di coerenza o di essere all’altezza o di tutti gli sbagli che si fanno, e cose così. E’ una questione semplicemente – con tutti gli sbagli possibili – di “fisica del buco”, diciamo. 
Voglio accogliere questo annuncio, almeno come ipotesi di lavoroSolo Lui riempie questo buco, attraverso la modalità storica concretissima che ha scelto per raggiungermi. Se questo, detto così spiccio, è vero, si capisce che accettando questo, accomodandosi in questo (con tutte le mie imperfezioni, le ben note reiterate defezioni, etc…) si inizia a trovare un po’ di pace, e si vedono le cose in modo diverso e più libero. 
Più libero, proprio: perché rifiutando questo si rimane con il problema di riempire il buco (luce rossa lampeggiante sul cruscotto, in pratica), e non c’è da illudersi tanto, perché per quanto ci possiamo pensare più liberi, in realtà siamo molto molto condizionati – perché il nostro primo e direi unico obiettivo sarà inevitabilmente quello di riempire il buco, di trovare qualcosa o qualcuno che riempia finalmente questo enorme buco, che sani questa ferita sanguinante. Così per paradosso pensando di essere più liberi, va a finire che lo siamo molto molto meno.
Certo c’è da mettere in conto la resistenza egoica contro questa cosa, perché il buco viene riempito non secondo un nostro progetto, una nostra costruzione, una nostra sapienza. Viene riempito essenzialmente da una nostra resa. Da un nostro che umilissimo riecheggia quel Sì che la tradizione cristiana proprio oggi festeggia.
Siccome c’è questa resistenza non basta assentire a questa linea di pensiero, ci vuole un lavoro attivo, quotidiano. Che comprende le declinazioni pratiche che già conosco, come la Scuola di Comunità,  e il percorso di Darsi Pace. Cose che non ho scelto per mia profondità di visione, beninteso: cose in cui sono stato guidato. 
E può darsi si tratti perfino di dire ad un percorso psicologico, perché non si sia tentati dallo spiritual bypassing, ovvero di coprire problemi irrisolti – sui quali invece si può e si deve lavorare – sotto un rigido cappello devozionale. Una sorta di tentazione di impazienza dalla quale mette in guardia anche un monaco come Anselm Grun (da lui ho preso il termine, che mi sembra molto efficace).
E certo comprende anche la meditazione, la preghiera. 
Senza scandalo, è necessaria una continua ripresa. Coraggio, pazienza, umiltà, perché non si tratta di incantesimi strani, si tratta di materia lavorabile, malleabile. Addolcibile.

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Sepolcro

E’ una parola abbastanza imbarazzante. Non è di quelle che si producono abitualmente in società, potremmo dire. Eppure mi chiedo se uno possa desiderare di più. Se uno onestamente, sinceramente, possa desiderare più di questo. 
Orbene, è certo che molta gente oggi è scettica. E’ disincantata, è cinica. 
Qui non verrei azzardarmi in una ennesima analisi sulla crisi della fede, oggi. Per certo, non ho le competenze e la profondità necessaria, mi manca l’ampiezza di vedute e la conoscenza storica. Vorrei rivoltare la cosa come un calzino, invece.
Perché bisogna avere il coraggio di scoprirsi. Di scoprire i propri desideri, senza censuarli anzitempo. Senza ammazzarli, avvelenarli nelle solite obiezioni. Delle quali dico subito che la peggiore, in termini di danno psichico, è certamente quel è troppo bello per essere vero.
Ecco. Onestamente, io non so quanti danni abbia fatto, nel tempo, una frase di tal genere. Cosa rivela? Un pessimismo di fondo di portata cosmica, una rinuncia preventiva all’azione, alla vera speranza. Al desiderio di cose grandi. 
Prendendo questa frase terribile sul serio, ecco, uno non si muove più. 
Poi, oltre questo, come scienziato mi fa anche girare un po’ le scatole, per la sua palese illogicità. Di cui, sembra, la gente non si accorge. Lo confesso, in questo casi viene fuori il polemista dentro di me. Ma che vuol dire che è troppo bello? Perché “troppo”? Troppo rispetto a che, per esempio? Alla nostra immaginazione asfittica? Al nostro malinteso senso di essere adulti, con i piedi per terra? Alla nostra disperata paura di sognare? 
Se ad esempio faccio l’esercizio di pensare al sepolcro, alla possibilità che qualcuno ne venga fuori in carne ed ossa, al fatto che magari Qualcuno lo ha già fatto, scopro che ho paura di lasciarmi andare a crederlo davvero. Con tutto che (ogni tanto) mi dico “cristiano”, se arrivo a questo fatto, al nucleo pulsante delle faccende della mia fede, quel nucleo senza il quale tutto crolla (tutto! Che tentativo triste quello di tenere su la cultura, i “valori cristiani”, senza questo nucleo pulsante, senza questo “scandalo”), mi prende paura.
Una paura strana. 
Ma se buco un attimo la paura, ci passo oltre, scopro anche che è la cosa che desidererei di più. Che desidero di più. Che questo sia, appena, vero. Perché anche se sono cristiano, c’è come un pensiero in background, una formulazione di pensiero, un ambiente di pensiero, che mi ripete continuamente lascia perdere è troppo bello, lascia perdere… 
Ma il desiderio che sia vero c’è. Accidenti. Gli altri desideri che mi attanagliano, che mi tormentano, al confronto non sono nulla. Perché se fosse vero questo metterebbe veramente tutto in un’altra luce. Le gioie sarebbero ancor più gioie. Perfino le peggiori sofferenze potrebbero venire un po’ attenuate.
Quindi, è un po’ come se tutta la vita potesse essere interpretata – e nuovamente reinterpretata, ad ogni istante – nell’atteggiamento che abbiamo davanti a questo. Ad un sepolcro. Se è la fine di tutto o una scommessa pazzesca e totalmente fuori scala, per un nuovo inizio. Per un inizio senza fine. 
Capisco che siamo strani, in un certo senso. Ma forse è la portata della cosa, che ci fa un po’ paura. Ma di fatto è questo, è così. Siamo capaci di disquisire per ore su quanto ha detto un parroco di campagna, magari finito inavvertitamente sui media per qualche dichiarazione improvvida. Grande interesse hanno in ogni ambiente le discussioni sulle prescrizioni della Chiesa, soprattutto in ambito di morale sessuale. Ancora, la coerenza (o più spesso, la sua mancanza) di tal porporato od ecclesiastico riveste sempre una decisa attenzione e normalmente genera sapidi commenti.
Niente da dire, in fondo. Però, capitemi. Ho la sensazione, trovandomi spesso coinvolto in queste discussioni (“Ah, tu che sei cristiano, che ne pensi del fatto X [dove X = beni della Chiesa, controllo delle nascite e fame nel mondo e/o AIDS, ICI per gli istituti religiosi, etc…], del comportamento del cardinal Y, delle recenti dichiarazioni del Vaticano in materia di XYZ…”) ho la sensazione, non dico che siano giuste o sbagliate, non appena questo. No, ho la sensazione, come dire, che ci si stia concentrando accanitamente su dei particolari molto periferici, per trascurare l’essenziale. Cioè cosa è veramente, empiricamente, storicamente successo in quel sepolcro, un paio di millenni fa.
Che poi diciamolo, se in quel sepolcro non fosse successo nulla di particolare, ogni altra preoccupazione sui pronunciamenti di questo o quello, su cosa dice la Chiesa in materia di questo o quell’altro (perfino sull’accesso ai sacramenti per i divorziati, per dire), sarebbero totalmente inutili. Fiato sprecato. Perché non avrebbe senso niente, non avrebbe senso la Chiesa, i preti, i vescovi, i cardinali. Il Papa.
Se quello fosse stato appena un normale sepolcro, di una persona magari storicamente importantissima, magari un grande dell’umanità, ma insomma, sempre dopotutto un normale sepolcro, ebbene, non avrebbe senso nulla, di quello che stiamo trattando.
Come dice la canzone di J. Breil…

Ditemi se è vero,
Se è vero tutto quello che hanno scritto Luca, Matteo
E gli altri due,
Ditemi se è vero,
Se è vero il portento delle Nozze di Cana
E il portento di Lazzaro

Se fosse vero tutto questo
io direi sì
Oh certamente direi sì
Perché è così bello tutto questo
Quando si crede che è vero

Mi rendo conto, che siamo capaci di passare una intera vita (e se potessimo, anche di più) nel ragionare – per dire – su torti e meriti della Chiesa, senza osare arrivare al fondo della questione, al fondo pulsante. Se lì è avvenuto qualcosa, qualcosa di strabiliante, oppure no.
Il senso di ogni istante, di ogni minuto, viene investito dalla nostra decisione in merito. Luigi Giussani parlava, giustamente, di decisione per l’esistenza.
Il fulcro è quello. Se davanti ad un dolore, ad una sofferenza –  ma anche davanti al vuoto che tante volte si affaccia nella nostra vita, possiamo avere il conforto di una Presenza, vivente, vicino. 
Insomma, qualsiasi posizione possiamo avere, il punto cruciale è quello della canzone citata: ditemi se è vero
Il resto son davvero conseguenze, molto molto più a valle.

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Fede

La fede cristiana ci riporta cioè ad una esperienza del tutto ordinaria, quella in base alla quale noi nasciamo e cresciamo attraverso la parola umana, e specialmente quella parola benevola e amorevole che dice Bambino mio, quanto ti voglio bene e se non ce lo dice con pieno affetto noi soffriamo da morire: Questo è il rapporto di Dio con l’uomo: DIo parla con l’uomo bene-dicendolo, e parlando con lui con amore incondizionato gli forma una identità spirituale libera, lo risana da tutte le male-dizioni familiari e storico-culturali che lo hanno ferito… 

(Marco Guzzi)

Così la fede calma e soddisfa il bisogno di amore e protezione che ti porti dentro, viene a levigare quella ferita che segna i rapporti con le persone, con le cose. Quella ferita originata tanto tempo fa, che ti porti ancora appresso, che segna i rapporti con il mondo e con le cose. Non è niente di automatico: è’ una sfida, per cui ogni volta bisogna ripartire. Ogni volta e sempre si può ripartire. Ogni mattina si può dire di no (anche se magari gestiamo diecimila attività parrocchiali o di gruppi cattolici, movimenti) oppure dire di sì. In fondo, mi dico, quello che conta – quello che ora serve – non è tanto l’enunciazione teoretica di alcune verità, ma il lavoro che facciamo su queste.

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Per guardare il mondo con amore, serve questo, appena questo, sentirsi amati…

Così vedo le cose, e  possiamo ben dire che non è la prima volta che su questo blog si ragione intorno a questi argomenti. Eppure ogni volta che ci ritorno, mi sembra di illuminare la cosa da un angolo leggermente diverso (come il satellite GAIA, che vedrà una stessa stella anche settanta volte, ogni volta portando nuovi dati, così possiamo fare qui, per quello che ci preme di più… )

Queste cose le scrivo qui per me, in fondo, e fanno parte di qualcosa non sistematizzato, ma in perenne ebollizione interiore. Le scrivo per me per coltivare e far crescere un luogo dove io possa riflettere su me stesso e sentirmi a mio agio. Un luogo che penso in questo modo, morbido e conciliante. Un luogo dove le parole non servono a ferire, a distinguere, a separare: ma servano innanzitutto per guarire. Sempre da Marco Guzzi, prendo in prestito un’altra frase: 

.. La scrittura, infatti, possiede di per sé un’incredibile potenza di autoconoscimento e di guarigione.

Ci vedo dei colori pastello, leggeri. Ci vedo l’idea di un tranquillo pomeriggio di sole, vissuto al riparo di un fresco pergolato, magari. Una casa riparata e tranquilla, ma non isolata. Qualcosa costruito con le parole, parole di guarigione…

Fateci caso. Le parole che guariscono sono sempre quelle che intendono correttamente le cose. Tante cose sono state dette sulla fede, tanto alto è il rischio di fraintendere, di restare imprigionati in definizioni sbagliate, limitanti, castranti. Quella di Marco Guzzi che ho messo in apertura, fa risuonare qualcosa di bello in me, tiene vivo e zampillante un desiderio buono di pace e di assestamento psicologico costruttivo, di superamento di tutto ciò (laico o clericale che sia stato) che mi ha fatto male, mi ha ferito… un desiderio dolce di guarigione, appunto. 

Perché il punto è questo. Mi accorgo che la fede viene vista da molti come qualcosa… che non è. Come se un cristiano (o un buddista, un induista, se volete) dovesse avere un ricettario, una lista di cose che non può fare, di curiose limitazioni – come se fosse uno che vuole complicarsi la vita. Invece vuole semplificarla, vuota gustarsela. Senza starsi a tormentare troppo per il fatto che siamo limitati, che possiamo sbagliare. Peccato, davvero peccato,che ti fanno credere che per gustarla devi starci lontano, dalla fede… 

Insomma, cosa è per me, la fede? La fede è – anche – la possibilità di scorgere un significato in ogni cosa e in ogni circostanza. E’ non giudicarsi (io non giudico nessuno, neanche me stesso, diceva Don Giussani), è essere lieti di essere amati, come si è (anche se io sono un mucchi di letame, Cristo è più grande del mio mucchio dl letame, sempre Giussani).

Su tutto, sapere… sentire… che io sono amato, adesso.

Sapere che mi posso rilassare, perché sono molto, molto amato. 

Ecco il punto. Ecco il punto vertiginoso fondamentale dell’universo. Essere amati.

E’ tornare a giocare col mondo, come si faceva da bambini. Perché si giocava fino a che si pensava, si intuiva, che tutto avesse un significato. Che ci fosse una presenza buona a proteggerci, a tirarci fuori dai guai, qualsiasi cosa avessimo combinato. Quando abbiamo bevuto il veleno che – a volte con le migliori intenzioni – ci hanno somministrato (niente ha valore, tutto è opinione, niente esiste in fondo, tutto è appena una accorta flessione del discorso), ecco che abbiamo anche immediatamente smesso di giocare. Magari abbiamo detto sì sì, così stanno le cose, siamo adulti, siamo cresciuti e – fateci caso – abbiamo smesso subito di giocare, di divertirci.

Senza la fede la vita ti diventa una cosa dannatamente seria. 

Ora a me pare una cosa, cioè che a volte siamo così impastati di questo veleno, credenti e non credenti, che si dura una fatica da matti. Ogni giorno dire e ripartire, rifiutando il nichilismo e la sottile (più o meno quieta) disperazione. Ogni giorno scegliere di appartenere…

Al fai ciò che vuoi perché niente ha valore in sé preferisco il Ama e fai ciò che vuoi di Agostino.

C’è un abisso, in mezzo. Grande come la possibilità di avere un cuore – di nuovo – lieto.

Poi non facciamo noi le cose, anzi se ci mettiamo di mezzo noi, di solito facciamo guai. Perché abbiamo questa tentazione di decidere noi, di voler sistemare noi, di non lasciarci andare, di non affidarci. Di pensare che ci sia sempre un’alternativa più furba. Penso che sia una tentazione nota ai praticanti di ogni religione, di qualsiasi forma di spiritualità. 

Tanto che sempre Giussani, individua proprio qui la drammaticità della vita: “La drammaticità della vita consiste nella lotta tra la pretesa affermazione di sé come criterio della dinamica del vivere e il riconoscimento di questa Presenza misteriosa e penetrante” (citato in Vita di Don Giussani di Alberto Savorana, al Capitolo XVI).

Questa drammaticità, d’altra parte, fa sì che venga perennemente chiamata in causa la nostra libertà. E che nessuna adesione sia mai un atto meccanico ed automatico, come una sorta di tessera acquisita una volta per tutte – ma qualcosa che va scavato ed indagato sempre. 

La cui convenienza, appunto, è da ricercare ogni giorno. Così che uno si butta, idealmente, nella vita e fa la verifica. La verifica della convenienza della fede. 

E’ questo il cammino, mi pare di poter dire. E’ questo che può rendere la strada, una strada  bella.

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