Blog di Marco Castellani

Categoria: film

Toy Story 4, l’inesausta dinamica del dono

Giunti alla quarta tappa dell’avventura “cosmica” di Toy Story, mi sento di dire che il pericolo della stanchezza o della routine, sia stato egregiamente scongiurato. Se la chiamo cosmica, è solo perché  il meccanismo narrativo di Toy Story, fin dalla prima rivoluzionaria puntata, è imperniato su una idea semplice ma straordinaria, estremamente feconda. Quale poi sia, la sapete: in breve, i giocattoli sono vivi e hanno affetti, relazioni, connessioni come gli umani. Ma  sono anche attenti a non farsi  scoprire: in presenza di una persona, loro simulano il comportamento atteso da un giocattolo (inerte). Potremmo dire, in termini fisici: ad ogni misura restituiscono lo stesso profilo (che è quello che più ci aspettiamo).

Ma cosa avviene nel tempo che trascorre tra le misure? Cosa accade quando nessuno guarda? Questo non possiamo dirlo. In generale, non potremo mai dirlo. La realtà nella sua essenza si cela dietro un velo, e quel che ricostruiamo unendo le misure – come nel gioco ben noto di collegare i puntini – è sempre altamente arbitrario. Il modello non è mai il reale, e questo è un bene, perché il reale può essere sempre qualcosa di più.

Toy Story, fin dal primo episodio, ci propone un messaggio decisamente interessante, perché parla ad una parte del cuore sempre in ascolto, sempre in attesa: ci suggerisce che l’inferenza tutta positivistica di voler ridurre il mondo a qualcosa di già visto, già compreso è ultimamente e felicemente fallimentare, perché esiste un mondo, un universo, che fuoriesce con allegria dall’ansia di catalogare e comprendere “razionalmente” le cose. Un ambiente che straripa, brulica di invenzione e relazione. 
Woody con il nostro nuovo amico, Forky… (Crediti: sito ufficiale
Così, si capisce che una stanza di giochi non è appena una stanza di giochi: è di fatto anche la sede privilegiata per  mille emozioni, relazioni, rapporti affettivi, intrecci e soprattutto storie, mille storie che si generano continuamente, che rendono questi oggetti tutt’altro che inerti. Del resto i bambini già lo sanno, i giocattoli vivono. I rapporti con le cose sono più imprevedibili e profondi, più poliedrici e fecondi, rispetto all’approccio utilitaristico e consumistico di molta parte del nostro pensiero “moderno”.

E’ in fondo la riscoperta di un universo poetico, l’esplorazione di una nuova (e antichissima) dinamica dello stare nel mondo.


E ad essere precisi, ci lancia un secondo importante messaggio, strettamente connesso al primo: questo mondo non visto, è un mondo buono, positivo. Un mondo che opera per il bene. Difatti – e anche in questa occasione viene ribadito in modo molto chiaro – lo scopo ultimo di ogni giocattolo, la sua ragione di “vita”, è il benessere e la felicità del bambino cui appartiene. Nell’aderire intimamente a questo obiettivo – e nel conseguente sentirsi parte di una relazione di affetto – è la felicità stessa del giocattolo, il suo sentirsi realizzato.

Ci sono – è vero – conflitti e situazioni di tensione anche in questo mondo “parallelo”, non visto. Ma si risolvono sempre in bene e soprattutto, proprio in questo quarto pannello, si addolciscono ulteriormente, visto e considerato che (tranquilli, sarò generico per non rovinarvi del tutto la visione) non esiste nemmeno un vero cattivo, questa volta. 

E’ chiaro che nessuno si aspetta, tornando a casa dopo aver visto il film, che i giocattoli nella stanza dei propri bimbi si animino davvero. Eppure questa proposta, questo suggerimento di riformulazione del patto con il reale (ovvero, ammettere la possibilità che ci sia qualcosa che non controllo, che mi supera, che opera per il bene) rimane piacevolmente attaccato addosso, come una polverina magica che – a lasciarla depositare – inizia quel sano lavoro di contrasto e di scioglimento di un cinismo che troppo spesso ci lasciamo aderire addosso, quasi fosse l’inevitabile scotto del diventare adulti.

Forse non è così come quasi sempre ce la raccontiamo, forse c’è qualcosa che regge l’urto del tempo, qualche magia che non scolorisce nel diventare grandi, ci sembra dire l’intero progetto di Toy Story. Ma lo dice sommessamente, come un gioco: questo – a mio avviso – è il vero punto di valore. Non ci impegna con grandi discorsi, perché i grandi discorsi ormai non li sopportiamo più. Piuttosto, ci arriva di lato, sorpassa le nostre difese e ci aggancia a sorpresa, facendoci divertire e dunque predisponendo il terreno all’ascolto di una buona notizia, di qualcosa che si pone fuori dal tessuto percepito della vita ordinaria.

Perfino il tema abusatissimo dell’accoglienza del diverso, di chi sembrerebbe “da buttare” ed anzi inizialmente si vuole esso stesso buttare via, è affrontato in modo simpatico e per nulla retorico, con l’irriverente e scanzonata invenzione di Forky, un pupazzetto creato in quattro e quattr’otto dalla bimba all’asilo con materiale di scarto. E che, in barba a tutte le sue evidenti diversità, viene integrato nel gruppo da subito. Proprio in questa amichevole integrazione, ed in una paziente educazione alla quale viene sottoposto, impara a voler bene e a volersi bene.  

Nel complesso, questa quarta sezione (a questo punto, speriamo non l’ultima) mi sembra scorra bene, rispetti il paradigma di fruizione a vari livelli e dunque si presenti come uno spettacolo sufficientemente elaborato anche per gli adulti, sempre tenendo conto dei vincoli imposti da un approccio che deve coinvolgere persone in un ampio spettro di età. 
Ma se devo dire, di questa quarta parte mi colpisce soprattutto una cosa, l’accento sulla dinamica del dono. Il tema centrale, senza troppo anticipare la trama, mi pare proprio costruito su questa dinamica. E’ lei che vince, alla fine, anche sull’ipotesi iniziale, sulla scommessa di partenza di ottenere con forza quello che poi viene, con una fortunosa catena di eventi che portano anche alla maturazione dei protagonisti, ceduto come un dono. La rinuncia alla forza innesca irresistibilmente una relazione più profonda, tale che si volge verso il movimento del dare quell’esitazione a lasciare qualcosa di sé, che è pur naturalissima negli umani (e quindi, nei giocattoli). Ti consegno questo nella speranza che tu possa essere felice. Quello che di mio ti regalo, ti restituisce “voce” ovvero fa cantare la tua vera essenza, per la quale potrai finalmente essere amata. 
Alla fine della visione, ognuno è rilanciato nel fare i conti con l’ipotesi che la realtà sia più magica di quanto si è abituato a pensare. Per molti bambini, è un assunto normale. Per noi  adulti diventa il termine di una ripresa, di una ipotesi di lavoro (ritornare come bambini, per accedere alla verità delle cose, è un suggerimento autorevole innestato nel profondo della nostra storia). Ognuno è di fronte alla sua libertà, nel dare seguito a questa ipotesi, nel rilanciarla investendo la realtà del necessario lavoro di verifica, o abbandonarla. In ogni caso, la proposta c’è stata, delicata e persuasiva al tempo stesso. 

E forse, mi dico, non si può chiedere molto di più, ad un film.

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Perfetti sconosciuti, questa imperfetta bellezza dell’umano…

Lo dico subito: a me è piaciuto.
Certo è un film molto parlato. Un film dove la sceneggiatura è di importanza chiave, ed altrettanto la recitazione degli attore. E’ davvero un film teatrale, nel senso che sembra pensato espressamente per una rappresentazione in palcoscenico.
Ed è, a mio avviso, un film che svela la bellezza dell’imperfezione umana al di là di ogni possibile esitazione, di qualsiasi parvenza di residuo dubbio. Di questa bellezza dell’imperfezione voglio parlare qui, rinunciando a seguire tante altre considerazioni che pure si potrebbero utilmente condurre.
Perché gli amici che si radunano tutti insieme a cena, e per un bizzarro giochetto condividono i flussi informatici che passano attraverso i loro cellulari — elidendo temporaneamente ogni barriera conoscitiva — azzerando ogni password, alla fine questo mettono in comune: la loro umanità.

Umanità tenera, scabrosa, povera e sfolgorante insieme.
Così si palesano e si condividono tutti i trucchi, i piccoli intrighi, le traballanti e perfino risibili strategie di compensazione ad un vivere senza meraviglia (perché proprio non ci si rassegna ad un vivere senza meraviglia, non venite a dirmi il contrario).
Poiché non si tratta appena (o soltanto) di tradimenti o grandi decisioni, di epiche svolte di vita o saldi proponimenti, ma di tutte le piccole fughe dal viver quotidiano (che sono oggi rese possibili attraverso la Rete, ad esempio): dall’invio di foto osé per sfuggire al vuoto della sera, al gioco di seduzione a distanza, gioco che vibra continuamente su una molteplicità di stati tra il provocatorio, l’equivoco e la richiesta di contatto, di calore.
Ecco, in questo vedo la grandezza del film. Nel portare sotto i nostri occhi, tramite l’artificio narrativo della condivisione totale degli smartphone, che l’uomo — ogni uomo — è molto molto di più complesso ed irregolare e dolorosamente slabbrato rispetto ad ogni immagine idealizzata (e dunque ultimamente violenta) al quale vogliamo ridurlo (o vuole ridurre sé stesso).
Sì. L’uomo è irrequieto, incongruente, dolorosamente aperto, arrabbiato, lieto, triste, in ricerca, deluso, divertito, disperato, dolce. E questo viene fuori bene dal film, che in questo senso non fa sconti. E se la retorica fa capolino qua e là (come il personaggio gay trattato in chiave un po’ inutilmente buonista, a scapito forse di un maggiore realismo), non lo fa tanto — grazie al cielo — da intorbidire questa cifra stilistica.
Così che ritorniamo a pensare a questo, a cosa possiamo fare per un uomo così. Così perso tra ideali mancati, compensazioni quotidiane, equilibrismi sentimentali e morali. Cosa possiamo fare?

Cosa possiamo fare, se non amarlo?
Amarlo, sì. Perché è un uomo così che è amato, non l’uomo ideale. Un uomo carico di tutti questi difetti, è amato tantissimo.

Quando entriamo nel mistero di Dio di “questo amore senza limiti”, ha detto il papa , rimaniamo “meravigliati” e, forse, “preferiamo non capirlo”.

Nessuno dei personaggi esce da quella serata, da quella cena, pensando di diventare migliore (ecco un’altra cosa che mi piace, del film, il suo candido realismo). Ma noi che guardiamo, noi impariamo forse qualcosa. A sorridere appena, a stemperare la tristezza sempre aperta sulle nostre compensazioni, ad aprirci ad una diversa possibilità.
Di essere salvati (cioè di avere un senso di vita) dentro tutto questo: di essere, per dire, salvati dentro la nostra stessa incapacità di cambiare.
Esattamente. Cosa rimane dunque, di quest’uomo, se non amarlo?
Amarlo, perché un uomo così è amato. Un uomo come tutti noi.
Sì, io sono amato così, come sono. Questo è l’inizio e il compimento di ogni possibile rivoluzione del mondo e di me stesso, di ogni ipotizzabile dinamica trasformativa psicologica/politica.
Solo questo: capire, sentire, che sì, sono amato così.

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Lo chiamavano Jeeg Robot

Se adesso parlo del film Lo chiamavano Jeeg Robot – badate bene – non è per tentare una recensione. D’altra parte, c’è chi lo fa già molto bene. E’ invece occasione per prendere spunto e ragionare su delle suggestioni, dei frammenti luminosi. Attraversare con la mente e il cuore delle immagini, dei suoni, dei volti. Dei sorrisi, dei corpi.

Non spendo parole sulla trama, questa d’altra parte si può agevolmente reperire in rete. Non le spendo non perché non sia importante, ma direi male delle cose e ruberei invece spazio a quello che davvero voglio dire.

Enzo ed Alessia, in una sequenza del film…

Mi spiazza, intanto. Già dai primi istanti capisco che non può scorrere via senza lasciami un graffio, una ferita. Molto crudo per diversi aspetti. Sarò io che non sono abituato a certe scene così forti, ma faccio fatica a digerire il primo tempo. Le immagini decisamente non mi accarezzano.

E’ appena una azzardata analogia, ma in un certo senso mi rimanda a Delitto e Castigo, per quella parte di desolazione e violenza che si espande, si espande fino a farti sentire una stretta al cuore, farti intendere che è tutto, che è tutto quello che esiste. E che comunque, se pur esiste altro, qui ed ora, se pure esistesse: ebbene, in questo universo, in questa borgata romana, non entra, non detta regole, non istruisce il reale. E’ come se fosse altrove, distante, disperso. Ultimamente, dunque, è come se non esistesse. Lo sai bene, ormai: quello che non avverti, in fondo, per te non esiste. E’ un puro nome, vuoto.

A volte sembra che devi arrivare in fondo, completamente in fondo. Che devi lasciare ogni riserva residua, ogni spazio mentale per dire ma tanto cambierà. Abbandonare ogni tua strategia per cambiare. Devi arrivare ad accogliere quello che succede, esattamente come succede. Sembra a volte che solo lì, solo davanti ad una tua resa completa, possano accadere quegli imprevisti che ti rimettono in gioco.

Sì è un film crudo, sicuramente. Ma questo registro espressivo, si scopre piano piano, non è gratuito, non è fine a se stesso. Perché il contrasto è più vero, poi, te lo senti addosso. Il contrasto con la bellezza e la dolcezza che poi fioriscono, sbocciano (come avviene nell’ultima parte del romanzo di Dostoevskij attraverso la presenza carnale di Sonja). Ma no, non appena il contrasto. Perché non si procede per contrasti, ma per compenetrazioni. Ecco se dovessi descrivere il punto infuocato del film, direi questo: la bellezza che fiorisce dove non ti aspetti.
Ma ancora, non è appena questo. E’ molto di più. Che la bellezza, la dolcezza, arrivi in una situazione di estrema violenza e totale disincanto, materialismo arruffato e totale, pornografia e disperazione, uno se lo può anche aspettare. Può contemplarne la possibilità, diciamo. Ma metti caso invece che la bellezza e la dolcezza non piombino intatte ed inossidabili dall’esterno, al suono limpido e trionfale di un hollywoodianamente salvifico arrivano i nostri. A questo siamo abituati, è roba vista. E’ consona al nostro modo pigro di pensare.

No, quello che mi colpisce dentro, davvero, è accorgermi di una bellezza che fiorisce dentro alla miseria e al degrado. Che non arriva da fuori, in una improbabile (ed ultimamente irritante) esportazione della virtù impermeabile a ciò che incontra ed ansiosa soltanto di redimere. Invece, una bellezza che sposa completamente, accoglie integralmente lo spaziotempo in cui si trova, vive e si sviluppa e brilla in quell’esatto sistema di rapporti. Non ha l’ansia di redimere il marcio, perché nel marcio fiorisce: non perché ami il marcio (anche non si fa problema di questo), ma è perché lì ha la sua funzione d’essere (diceva del resto il grande Fabrizio de André, che dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior).

Così seguo Enzo, questo ladruncolo di Tor Bella Monaca, nella sua vita di espedienti e di miseria morale e materiale. Lo seguo, lo spio nella miseria della sua vita quotidiana, fino a che mi viene addosso la sensazione che niente la possa cambiare. E io, così infarcito di pensieri borghesi e di trito buon senso, sarei tentato di lasciar perdere, di non guardare più, di pensare ad altri, ad altro. A darlo per perso. Siamo tutti d’accordo, noi gente per bene, Enzo è perso. 

Però il cuore non è contento. Dire Enzo è perso non lo fa contento. Lo rende pratico, calcolatore, pieno di buon senso (e come non può essere perso, non lo vedi? Perché impiegarci tempo? Ma lo vedi che fa?). Perché non c’è niente da fare – il cuore è contento solo se gli viene spiaccicata davanti la notizia che nessuno è mai perso, nessuno mai. Fino all’ultimo.

Come grida al mondo il cuore di Papa Francesco, tra l’altro. Esattamente così. Dice cose enormi così, e io poi le riduco continuamente alla mia piccola misura. Davvero, sarebbe da prendermi a schiaffi. Ma intendetemi: con gioia, non con rancore. Sì, prendermi a schiaffi (non troppo forte, ovviamente…) con gioia, ridendo come un pazzo, perché vuol dire che mi sto finalmente svegliando.

Così l’amore, inaspettato, inatteso: insomma è quello il canale. Che riversa grazia, dolcezza, che innesta un cambiamento. Siamo seri, nessun discorso, nessuna predica o nessun atteggiamento da crocerossina, nessuna ansia redentrice sarebbero serviti, in quel misero comprensorio di Tor Bella Monaca. E’ l’amore che apre un canale, lo apre quando e dove dice lui.

L’amore è davvero capace di cambiare una persona. Ci sono certi superpoteri in ballo (per la cronaca, pare che fare il bagno nel Tevere non faccia sempre così male, anche se vi invito a non provare). Ma il vero superpotere è l’amore di Alessia. Anche qui, una che all’inizio non gli avresti dato un euro. Una così disturbata e sfortunata nella vita che sono tentato, anche qui, di darla per persa.

Sono tentato, sì, perché il mio modo di ragionare è orribilmente convenzionale. E’ il modo di chi non si aspetta nulla, anche se sostiene tanto spesso il contrario. Dunque è un modo orrendamente volgare, della vera volgarità profonda. Non sono volgari i DVD di film porno che si accumulano nell’appartamento fatiscente di Enzo, suo apparente unico svago. Quella è l’espressione di un grido, semmai. E’ molto più volgare il sentimento borghese di non aspettarsi nulla. Questa è la vera , suprema volgarità. E mi dispiace di essere così spesso volgare, così spesso sporco. Ma sono contento di quanto me ne accorgo, di quanto occasioni come questa me ne fanno accorgere. Perché respiro, respiro di nuovo.

L’amore di Alessia, un amore gratuito, innesta un cambiamento. L’amore cambia, non un discorso. Un amore sbagliato, se volete: che nasce nei posti sbagliati, che si alimenta in modo – se volete – approssimativo e rozzo (significativa che l’unico amplesso venga consumato in fretta e in un posto decisamente poco poetico come un centro commerciale). Ma all’amore questo non importa nulla, non gliene può fregà de meno (per dirla alla romana, tanto per fedeltà alla location).

L’amore di Alessia, la sua morbidezza, il suo stesso seno che viene incorniciato in molte sequenze (vabbé, io ci ho fatto caso, lo ammetto…) come silenzioso ma tenace contraltare alla violenza efferata di diverse scene, come vera bellezza disarmata, rimando ultimo ad una possibile promessa di dolcezza, di accoglienza totale… Ecco cosa compie il miracolo, ecco cosa rende Enzo capace di cose che non avrebbe mai pensato di poter fare. E soprattutto, non avrebbe mai pensato di voler fare. 

Perché l’amore sboccia dove vuole, e quando vuole. E ognuno può essere salvato, e può a sua volta salvare, se preso in braccio da questo amore. Ognuno, sempre. Sì fa fatica capirlo davvero, perché capirlo vuol dire, in fondo, rinunciare al nostro delirio di progettualità e alla nostra ipertrofia del giudizio (sugli altri, e su noi stessi).

Vuol dire solo questo, arrendersi a questo Amore. 

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Ripartire dalle emozioni

Due cose mi vengono in mente, dopo aver assistito alla proiezione di Inside Out. Due cose diverse ma abbastanza congruenti, assolutamente compatibili. Una più generale, ed è posta alla  radice stessa – mi sembra – del percorso di realtà come Darsi Pace: quel “ripartiamo dalle emozioni” che segna tanto il primo paragrafo dell’omonimo testo di Marco Guzzi, quanto percorre in sottotraccia tutto l’arco di questa deliziosa pellicola. Ecco, ripartiamo dalle emozioni, e ripartiamo da tutte le emozioni. Senza censurare nulla. 
Così mi pare che il messaggio di Inside Out sia duplice, essenzialmente. Non solo ripartire dalle emozioni, ma anche, non escludere niente a priori. Tutto ha la sua funzione: perfino la tristezza. Addirittura la rabbia, serve, è utile. Senza voler svelare nulla, possiamo senz’altro dire che è piuttosto scoperto il ruolo che queste emozioni apparentemente “negative” (dalle quali fuggiamo in ogni modo, appena si può) rivestono nel cooperare affinché la gioia di vivere possa ritornare ad avere dimora stabile nella mente dell’uomo (della piccola Riley, in questo specifico caso). 
Rabbia, disgusto, gioia, paure e tristezza… tutto serve, se ben composto.
E’ vero che le emozioni non sono tutto. D’accordissimo. L’ideale sarebbe un interscambio virtuoso tra ragione ed emozione, un dialogo continuo ed amichevole che informi e guidi la percezione del mondo e le scelte conseguenti. E’ pur vero, però, che veniamo da un lungo periodo in cui, direi tristemente, si è posto molto l’accento sul razionalismo anche in molti processi conoscitivi e segnatamente scolastici. Identificando totalmente l’essere umano con la sua parte logica, raziocinante, spesso (con molte virtuose eccezioni…) trascurando o anche censurando la sua parte emotiva, si è proceduto – spesso senza intenzione – a produrre delle persone fragili, essenzialmente impaurite dal proprio oceano emotivo interiore, rimasto alla mercé di sé stesso, assolutamente ineducato.

Avverte Marco Guzzi, in apertura appunto del libro Darsi Pace, come “dal punto di vista emotivo la nostra umanità sembra sempre più fragile e infantile, sembriamo spesso inconsapevolmente posseduti da flussi emotivi, da passioni mai seriamente indagate, come diceva Jung, che possono diventare tempeste collettive quando si scaricano sui teatri ormai planetari della storia.”

Ben venga dunque un richiamo a riprendere familiarità con i nostri stati emotivi. A cercare di riprenderli, riabilitarne la dignità, comprendere come servono alla vita, alla vita vera. Un primo atto di riconciliazione con sé stessi, che è anche inevitabilmente un atto sociale e politico, nel senso che incide radicalmente nella percezione che abbiamo di noi e degli altri, e dunque inevitabilmente sui rapporti più risanati che diveniamo capaci di intrecciare.

Una seconda cosa che mi è tornata in mente, in relazione al film, è un passaggio della bella canzone Fango di Lorenzo Cherubini, “L’unico pericolo che sento veramente, è quello di non riuscire più a sentire niente…” Ecco. Questo nel film è palese, scoperto, manifesto. Il momento più terribile, direi quasi orribile, non è affatto uno di quelli nei quali la simpatica protagonista agisce dominata da una emozione magari “sgradevole” (rabbia, disgusto, paura, tristezza). Assolutamente no. E’ invece quello in cui lei stessa perde il contatto con le sue emozioni. Di qualsiasi tipo possano essere.

Scrive assai lucidamente Claudio Risé, in un articolo su Tempi, che ” …il guaio oggi non è lo strapotere delle emozioni, ma il fatto che non ci siano quasi più. Nessuno che prenda a pugni un tavolo come fa Rabbia (rosso, basso e inquartato, grande casinista), o che sia gioiosamente pazzoide come Gioia, radicalmente pessimista come Paura (che a un certo punto esclama: «Ottimo, oggi non siamo morti»), schifato come Disgusto davanti al broccolo, esausto e contagiosamente melanconico come Tristezza (che quando tocca un bel ricordo, lo rompe). Tutti neutri, beneducati, che non si capisce cosa pensino. Un vero guaio, anche per la psiche. Che senza emozioni si spegne.”

E’ quello il momento davvero pericoloso. E’ lì che si perdono i colori del vivere. Per il resto mi sono accorto che sono uscito con un senso di pace. Come se già riconoscere le emozioni, accettarle, fosse già una azione, una minima azione, terapeutica.

Riconoscere che la salute mentale è anche nel permettere l’avvicendarsi delle emozioni (senza “bloccare” per forza quelle che non ci aggradano) vuol dire essenzialmente volersi bene.  E’ l’inizio di una insurrezione benefica, un cammino nuovo di amicizia con la vita, dopo tanto freddo esercizio di logica. Eccole qui: rabbia, disgusto, tristezza, paura, gioia. Le prime quattro le bandiresti dal tuo orizzonte interno, potendo. Vorresti essere un uomo migliore, una donna perfetta: concederti queste passioni non è bene, non è adulto. Non si fa… Eppure sono proprio loro che  – in uno splendido gioco di squadra – renderanno possibile il ritorno della gioia nella vita di Riley.

Davvero tutto coopera a rendere colorata la vita, a vivere sempre intensamente il reale (per riprendere una bella frase di Luigi Giussani), se davvero niente si censura, nulla si esclude.

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Niente più concreto, di un mondo segreto

Sono grato a quei film che mi fanno pensare, magari imperfetti, qui e là, ma che mostrano degli squarci di bellezza. Che mi aiutano nel lavoro quotidiano, del cedere all’evidenza del reale, sopra tutti i pensieri e oltre tutte le congetture. Così la visione di Epic – il mondo segreto mi ha inaspettatamente fornito degli spunti preziosi.
Il film è ben fatto. Su una trama di base abbastanza semplice, costruisce una storia interessante e sufficientemente intessuta di sentimenti umani veri da consentire di essere percorsa senza noia, per grandi e piccoli. Così le battute scoppiettanti possono divertire sul momento senza pregiudicare  l’effetto più permanente, il retrogusto piacevole di una riflessione onesta sul reale, senza sovrastrutture ideologiche.
Il logo del film
Credo che uno dei pregi del film sia proprio la plasticità dello schema narrativo, le cui suggestioni sono abbastanza morbide da poter essere accolte ed esaltate in taluni aspetti particolari, a seconda delle inclinazioni di chi guarda. Proprio come farò io, qui di seguito.
C’è una scena in particolare che mi ha colpito. Il cui significato reale è balzato subito alla mia coscienza. E’ quella in cui Bomba, il padre dell’adolescente Mary Katherine (simpaticissima), decide di lasciar perdere il suo sogno. Bomba è uno scienziato un po’ eccentrico che ha dedicato una vita a cercare le prove di una civiltà di persone minuscole, senza averle mai visto direttamente. Dopo la morte della moglie, la mamma di Mary Katherine, vive da solo in una casa in mezzo alla foresta, tutta piena di monitor ed apparecchiature dedicate alla sua ricerca, finora infruttuosa. 
Allora. C’è questa sequenza – che per me è drammatica sia a livello del significato contingente sia in quello del significato più profondo – in cui Bomba si sente forzato dagli avvenimenti – dalla sua interpretazione degli avvenimenti – a prendere una decisione. E si convince a lasciar perdere la sua ricerca. Troncarla, interromperla, bruscamente. Con rabbia.
Bomba sembra vinto. Accetta di normalizzarsi, di diventare uno come tanti. Spegne i monitor uno ad uno. Spegne i sogni, uno aad uno. Decide di non dar loro più ascolto, di non dar loro spazio. Avevano ragione gli altri, avevano ragione tutti. Il sogno l’ha portato lontano, l’ha portato in uno spazio tutto suo, l’ha portato fuori dal mondo…
Fuori dal mondo. Ecco l’obiezione che ci facciamo spesso. Non seguo i miei sogni, lascio che siano lì che mi chiamano, ma non mi volto. Non mi chiedo neanche più perché siano lì che chiamano, che mi implorano ogni giorno, mi supplicano di dar loro attenzione. Mi dimentico del fatto che i momenti in cui sono stato meglio, più contento, più ottimista, sono stati quelli in cui ho seguito i miei sogni, le mie aspirazioni. Ho dato loro fiducia. Non ci penso. Meglio essere concreti, stare con i piedi per terra. La vita è dura, d’altra parte. Non si può sognare sempre, si dice.
Che tragico errore. Quanto male ha fatto e può fare questo errore. 
Perché la verità è all’opposto. La vita è dura se non si sogna. Se non si segue quello che il cuore ci suggerisce. Allora sì che è dura. Perché è dura una vita da cui sfuggiamo il significato. E stare con i piedi per terra è questo, è guardare in alto. E’ seguire una vocazione.
Il film lo dice senza dover spedire troppe parole. Lo dice molto efficacemente. Anzi meglio: lo mostra, questo errore, lo mostra in atto. Ne mette in luce la portata drammatica. Tutto il rischio terribile di rinunciare ai propri sogni, di normalizzarsi e buttare alle ortiche la propria unicità, il motivo per cui siamo al mondo. I monitor che vengono spenti – proprio mentre vengono spenti – trasmettono le immagini della figlia che dalla foresta, proprio nel momento culminante della battaglia tra il bene e il male,  gli chiede disperatamente aiuto. Ma lui non guarda, ha già deciso di rinunciare al sogno. E (curiosa “coincidenza”) già non guarda, non guarda più il reale. Non vede. E’ il dominio totale della mente, del ragionamento che prevale sulla realtà. Le cose succedono ma tu non le vedi più. Pensi troppo e vedi poco.
Diceva Alexis Carrel (anche lui scienziato) che “poca osservazione e molto ragionamento portano all’errore, molta osservazione e poco ragionamento portano alla verità”
E’ la realtà è dove succedono le cose, non la nostra testa. E’ la realtà che è un campo perpetuo di possibilità, come un campo quantistico dove spuntano continuamente particelle ed antiparticelle.  E’ la realtà che ti può sorprendere sempre, in ogni momento. Ecco perché la vita è bella, perché niente è mai “scritto”, perché la sorpresa è sempre possibile.
La scelta è quella di ogni giorno, di ogni momento. Quella fondamentale. Stare alla realtà come ci arriva, stare alle circostanze con cui la realtà ci tocca, oppure violentarla sovrapponendo ad essa un proprio schema, una propria interpretazione. 
L’errore è mostrato, quasi gridato, nel film. Il professore se ne salva per un pelo. E non solo se ne salva, ma accettando di vivere il proprio sogno – e solo così – diventa parte attiva e fondamentale nella dinamica della storia, e nella lotta del bene contro il male (non dico di più per non rovinare la trama a chi volesse vedere il film). Ma la lezione è chiara. Seguire i propri sogni non è egoismo. Seguire i propri sogni è una delle cose più altruistiche che si possono fare. Perché se segui i tuoi sogni ti rimetti in gioco, sei attento al mondo. Sai che fai quello per cui sei stato messo sulla Terra.
Se segui le tua inclinazioni sei attento, aperto, collaborativo. Se ti opponi, sei in lotta con le cose, con la struttura fine della realtà, con la trama dell’universo. Ecco che arrivano il malessere, il senso di vuoto, il peso: indicazioni preziose per correggere la rotta. In un certo senso non c’è niente di più immediato del cedere. Tuttavia la resistenza è forte, perché si tratta di bucare lo strato protettivo e ossessivo dell’ego, per arrivare al sé. Alla consistenza di sé stessi, alle nostre vere aspirazioni. Ad ascoltare la voce dell’Assoluto, che ci ha fatti unici. E ognuno con un compito. Un compito che nessun altro può svolgere.
Certo, ci sarebbe molto altro da dire. Questa – si sarà capito – non è affatto una recensione del film. E’ soltanto un affondo in verticale, che prende spunto quasi integralmente da una sola sequenza. 
Morale: sono entrato in sala con qualche perplessità, ma ne sono uscito contento. Perché alla fine il film mi ha catturato (soprattutto nel secondo tempo), perché le immagini ed anche la musica sono molto belle. 
E soprattutto per questo, perché ho trovato preziosi semini per continuare a riflettere su ciò che mi è più caro. Davvero, niente di più concreto, di un mondo segreto…

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