Blog di Marco Castellani

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La teoria delle stringhe

Il compito sembrerebbe impossibile: descrivere la teoria delle stringhe senza la matematica, senza alcuna equazione. I nostri amici di Fisicast però non si sono tirati indietro, e hanno appena realizzato una sapida puntata esattamente dedicata a questa teoria così elusiva e affascinante. La settantasettesima puntata del podcast di Fisica (scritta da Fabio Riccioni e Gianluca Li Causi, con Chiara Piselli come altra voce, per la regia di Edoardo Massaro) ci permette dunque di mettere il naso in un regno davvero affascinante.

Sintonizziamoci con la “musica segreta” della natura, accordiamoci alla sinfonia sommessa del mondo subatomico. Un’avventura senza confronti, un’avventura per tutti.

Una trattazione “amichevole” della teoria delle stringhe costituiva d’altra parte una richiesta di molti ascoltatori, avanzata più volte negli anni: richiesta ora compiutamente esaudita. Come riporta la descrizione dell’episodio, la fisica moderna spiega il mondo sulla base di due grandi teorie, la meccanica quantistica e la relatività generale, che tuttavia sono in disaccordo sul modo di descrivere la forza di gravità. Si può riconciliarle? Una possibile risposta consiste nella Teoria delle Stringhe, che propone una nuova visione dei fondamenti della materia. Ma di che cosa si tratta? E perché ne abbiamo bisogno? Proviamo a far luce su una delle più sbalorditive concezioni della fisica moderna.

Poco più di trenta minuti per una esplorazione guidata di uno dei campi più affascinanti (e meno intuitivi) della fisica moderna. La cosa più vicina a quella teoria del tutto che è l’anelito di ogni fisico teorico degno di questo nome. E insieme, una cosa dalle mille risonanze (è proprio il caso di dirlo), una teoria che di nuovo ci porta la sensazione e il gusto di qualcosa di incredibilmente articolato, molto più fantascientifico della stessa fantascienza. Dimensioni spaziali “compattificate” che percepiamo come cariche elettriche, vibrazioni differenti che generano diverse particelle. E molto di più. Ce ne è per tutti i gusti: soprattutto ce ne è per smentire il nostro pensiero un poco pigro, per il quale non ci sia più nulla di cui stupirsi.

Vale la pena prendersi una mezz’ora per scivolare dentro questa meraviglia della fisica moderna. Io ci ho provato, prima di scrivere questo pezzo, e sono rimasto affascinato. Abbastanza digiuno di teoria delle stringhe (purtroppo), ho gustato questa immersione in un territorio quasi sconosciuto, ma soprattutto ho apprezzato la bellezza e anche la maestosità di una costruzione teorica che non rinuncia ad andare al fondo del reale, così come lo vediamo. Che non rinuncia – in questa epoca di pensiero debole, di convinzioni liquide – nell’impresa di cercare quello che è il vero fondamento del mondo fisico. Che in questa epoca di frammentazione dilagante, offre un quadro che recupera, unisce, connette, tutti i vari aspetti dell’esperienza. Giocando con tempo e spazio, sovvertendo i nostri preconcetti, ipotizzando dimensioni nascoste, arrotolate, elaborando una interpretazione “geometrica” del campo elettromagnetico legata proprio a queste ipotetiche ulteriori dimensioni.

D’accordo, non sarà proprio una vera teoria del tutto (come viene spiegato bene in conclusione della puntata) ma è una teoria realmente affascinante. Questo fascino si può avvertire anche senza perdersi dentro equazioni matematiche. In fondo questa è la sfida di fondo di tutto il progetto Fisicast, portare la meraviglia della fisica a tutti, spogliandola di quei dettagli matematici che sono certamente necessari per chi ci lavora, ma a volte ostacolano la visione del panorama a chi, pur non essendo esperto del campo, non voglia comunque privarsi di questa bellezza.

Secondo me, a questo giro era veramente tosta. Forse una cosa da pazzi, affrontare la teoria delle stringhe in una chiacchierata, ascoltabile mentre si guida, o mentre si stira o si prepara la cena. Ma caspita, mi pare ci siano riusciti.

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Fisicast nel portale INFN

Si chiama ScienzaPerTutti ed è il sito di comunicazione scientifica dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. La bella novità che volentieri diffondo, è che il progetto Fisicast cui collaboro (un pochino), del quale cui ho già riportato tracce di attività nel passato, è sbarcato con successo sul portale.

Grazie infatti alla proficua collaborazione con i colleghi dell’INFN, da adesso Fisicast è anche una specifica rubrica del portale ScienzaPerTutti, che pubblicherà ogni lunedì una puntata scelta dall’archivio.

Silenzio, parla… la fisica!

Il post conterrà (ovviamente) il link per ascoltare l’audio del podcast, che sarà presentato da un brevissimo trailer video, e per la prima volta si potrà scaricare anche un pdf con la trascrizione della puntata.

Sicuramente una bella occasione per rivitalizzare l’archivio prezioso di Fisicast e anche un riconoscimento di valore, che certamente non guasta: giusto premio per chi lavora assiduamente (ben più del sottoscritto) al progetto. Ad un anno dalla ripartenza, un sontuoso traguardo per Fisicast, dunque.

Questa settimana si inizia con la puntata n.1, Il Tempo, di Riccardo Faccini. Tema importante per la prima uscita! Poi si prosegue con Le Maree (Fisicast #21) e La Meccanica Quantistica nel Mio Cellulare (Fisicast #12). Si andrà poi avanti con cadenza settimanale, offrendo una strada utile anche a chi non ne fosse venuto a contatto prima, per introdursi nel progetto e iniziare ad apprezzare questo modo preciso e leggero di raccontarsi la fisica.

Perché se è vero (come è vero), che l’universo è fatto di storie, la fisica si deve poter raccontare anche a parole, mettendo da parte le formule più astruse, a vantaggio di una comunicazione più diretta ed accessibile, davvero per tutti. Questi ragazzi lo fanno, con molta passione e viva professionalità.

Che altro aggiungere, se non l’invito a… venire ad ascoltarli?

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Capire di non capire (parole al cane)

Il fatto è che nemmeno io me ne rendo conto. Da scienziato, intendo. Penso quasi sempre nello schema usuale, mi muovo all’interno di quello. Dove non ci sono poi molte sorprese. Mentre l’interessante sarebbe, uscire da lì, non appena si può.

Ci vuole uno sforzo, ci vuole volontà. E percezione della strada da fare, soprattutto. Perché uno si costruisce il suo bel mondo a prova di sorprese, costellato di certezze granitiche, e poi si accorge stranamente (ma non troppo) che gli va stretto. Ed è qui che un animale domestico può aiutare. Un cane, probabilmente, può fare molto, molto di più di mille discorsi. Osservare un cane, oso dire, può valere più di mille corsi di approfondimento sulla percezione e sulla conoscenza.

Sì, sembra paradossale. Ma ora vi spiego. Il punto è semplice, capire che c’è qualcosa da capire, è quasi tutto. Capire che c’è una questione aperta, vuol dire essere arrivati quasi alla soluzione, la maggior parte delle volte. Per le cose che ci sorpassano completamente, per le cose dove non possiamo minimamente nemmeno sperare di poter portare un contributo, non abbiamo infatti alcuna percezione. Non si percepisce il problema, intendo. E non a caso, direi. Se non c’è possibilità di intervento, fai anche fatica a inquadrare la cosa. Troppo sopra di te.

Poncho, in un momento di “battaglia” con un bastone

Va bene per questo guardare Poncho (il mio cane). Io l’ho capito proprio così. Mentre lo stavo portando fuori per la passeggiata nel parco, così oziosamente, mi sono messo a parlargli (va bene, una volta possiamo fare un post sulla mia sanità mentale, ma non è questo).

Apro piccola parentesi. Parlare al cane è più soddisfacente di quanto possa pensare chi non lo fa. Intanto, c’è il fatto che lui ti ascolta praticamente sempre. Non ti interrompe mai, non si mette di mezzo per inserire una sua visione delle cose, non pretende di correggerti. Non ti blocca con le frasi briganti tipo hai ragione, ma non hai riflettuto sul fatto che… Nemmeno, ti si spazientisce mai. Esistenzialmente, la cosa è interessante. A volte uno non cerca necessariamente un confronto serrato, a volte uno ha bisogno di essere ascoltato, e basta. Per questo un cane è insostituibile. Per giunta, ti fa segno che lui ti ascolta, senza fare suoni, che si sovrappongano fastidiosamente ai tuoi: usa semplicemente la coda (un umano non può farlo, almeno non così agevolmente). Se parlo al cane in un certo modo, gentile, morbido, la frequenza e l’ampiezza dello scodinzolamento cambia, in segno di apprezzamento.

Questo lo sappiamo più o meno tutti. Il fatto è che, mentre parlavo, pensavo sì d’accordo ma tanto tu non capisci nulla di quello che sto dicendo. E poi d’un tratto ho capito che tra i due, ero io quello che non capiva la situazione. Tra i due, ero io che non stavo comprendendo, non stavo nel reale. Quello che non stava sul pezzo ero proprio io. Lui comprendeva tutto, o meglio (ed è questo il mio punto) tutto quello che c’era da capire.

Tutto quel che c’era da capire, in quel momento, era la modulazione della voce, indice della mia attitudine verso di lui. Il resto non gli interessava, non gli interessa. Gli interessa quello che gli serve. I concetti che esprimo a parole non gli servono, non stanno nel suo universo, hanno un impatto nullo sulla sua esistenza: lui estrae dal reale tutto quello che può avere importanza per la sua vita e il suo benessere. Il resto per lui non esiste. Il resto, dal suo punto di osservazione, non esiste affatto. E in generale, se una cosa per me non esiste, se non ha alcun modo di entrare nel mio percorso storico e psicologico, posso tranquillamente dire che non esiste affatto.

La realtà fisica che noi pretendiamo di comprendere, scordandoci che siamo esseri limitati: questo è il bello. Questo è l’errore incredibile che facciamo. Come fossimo osservatori distaccati ed imparziali, con risorse di connessione, analisi e comprensione potenzialmente infinite. E siamo pieni di cose che non si capiscono, infatti. Prima di tutto il comportamento bizzarro della materia a piccola scala, la meccanica quantistica (e le sue incredibili connessioni con chi appunto, osserva). Cerchiamo di ricondurre alla nostra logica – derivata dalla manipolazione del reale come più o meno fa Poncho (solo ad un livello appena superiore) – delle cose apparentemente assurde, e giustamente non ci riusciamo. La nostra logica è limitata, ma noi ce lo dimentichiamo (come fa il mio cane, ma almeno lui non pretende di avere tutto sotto controllo e di rado lo vedo pontificare sulla vita, l’universo e tutto quanto).

Osservando Poncho (cosa che mi è stata anche raccomandata per il suo valore terapeutico), ho capito l’approccio al mondo fisico (e tecnologico) che ha. Lui si trova a vivere in un mondo informatizzato e meccanizzato, ma la cosa non lo interessa. Quindi lui adotta un approccio molto pragmatico, in materia. Esemplare in questo senso, il suo rapporto con l’ascensore.

Varie sessioni di accompagno, mi hanno persuaso di quel che ora scriverò. Lui ha capito questo. Entra in ascensore, io spingo un bottone, c’è qualche vibrazione, poi si riapre la porta. Esce su uno scenario diverso da quello da cui è entrato. Ed è tutto. Non si meraviglia, non si chiede nulla. Ha imparato a gestire la situazione, ed è a posto così. Non si chiede come mai cambia la realtà che trova all’apertura della porta, ha registrato la cosa e la usa. Con il tempo ho capito che c’è una differenza di approccio sostanziale, tra il farsi domande a cui non si riesce a rispondere, e il non farsi proprio domande, perché non si vede il quesito. Vedere il quesito è già dimorare nel campo dove (prima o poi) potrà giungere una soluzione.

Poncho non vede alcun quesito nel fatto dell’ascensore. Lo vedrebbe se, dopo la passeggiata, risalissimo ad un piano differente, e dunque uscendo non trovasse la porta di casa. Allora si girerebbe verso di me e mi guarderebbe, aspettando una soluzione. Ma normalmente non vede alcuna necessità di domandarsi qualcosa. Ha imparato a modellarsi su quello che accade, ed è sufficiente.

Mi chiedo a volte cosa accadrebbe se si potesse tornare indietro e parlare di fisica quantistica a Laplace, o di relatività generale a Galileo. A volte penso che non capirebbero proprio l’argomento della conversazione. Troppo fuori anche dalle domande che potevano avere sul mondo fisico.

Alla fine mi sembra che la vera ingenuità è la nostra, ed è quella di pensare che abbiamo un modello di mondo oggettivo e asettico, limpido e preciso, non legato alla nostra esistenza biologica, con tutto quel che ne deriva. Come se la conoscenza fosse insomma di natura puramente matematica, disincarnata. Quando invece, il modello di mondo che abbiamo è declinato secondo le direttive del nostro vivere biologico, e pesantemente influenzato da esse.

Tutte le volte che penso di vedere il mondo, devo pensare che quella che mi arriva è una articolazione di informazioni organizzata e mediata affinché i miei sensi specifici possano lavorarci un’ordine, una consequenzialità, una possibile modalità di intervento. Questo è ciò cui ho veramente accesso (e detto tra noi, non è affatto poco). Sono inserito in un contesto dove tra l’altro alcune cose che a me sembrano “granitiche”, come la realtà oggettiva dello scorrere del tempo, sono (ehm) da tempo messe in discussione proprio dalla fisica fondamentale. Nel complesso, dovremmo andarci molto cauti con i termini “realtà oggettiva”, sospetto che molte volte li applichiamo un po’ fuori contesto.

Ci vorrebbe dunque molta più umiltà, meno presupponenza, a volte, nel crogiolarsi nei risultati della scienza. Soprattutto, sarebbe da abbandonare del tutto (e lo dico da scienziato) l’idea che la visione scientifica delle cose sia l’unica ammessa, l’unica affidabile. Tornare al fatto che sostanzialmente ci sono miriadi di cose che non capiamo, facendo così un buon servizio alla scienza vera. Ce lo scordiamo troppo presto, che siamo in un Universo dove appena il 4% è “materia ordinaria” e il resto, praticamente, non si sa. E qui tornerei a Laplace, che una cosa l’ha vista giusta, quando ha detto che (e sembra siano proprio le sue ultime parole) “Quello che sappiamo non è molto. Quello che non sappiamo è immenso”.

Ma son tutte cose che, del resto, conosce bene (senza saperlo) anche il mio cane. Anzi, mi sa tanto che uno di questi giorni, gliene torno a parlare.

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Fisicast riparte!

Eh sì, abbiamo avuto già occasione di occuparci di Fisicast, il podcast nel quale si racconta la fisica. In particolare ci piace qui ricordare il nostro post con le tre domande che girammo a suo tempo (correva l’anno 2012) ai curatori dell’iniziativa. Ma vale senz’altro la pena riferirsi anche all’articolo apparso su Media INAF, pubblicato l’anno successivo, per comprendere meglio l’idea che è alla base del progetto.

Se non sapete di cosa stiamo parlando, probabilmente la descrizione più concisa ed efficace è quella che compare sul sito stesso del progetto, FISICAST è un podcast audio pensato per tutti coloro che vogliano capire meglio com’è fatto e come funziona il mondo che li circonda. Esso consiste in puntate mensili costituite da brani audio di 15–25 minuti in formato di intervista, dialogo o monologo, musicati per un piacevole ascolto: un modo innovativo di raccontare, spiegandoli alla gente, i concetti della fisica, i fenomeni della natura e le tecnologie di uso comune.

Il tempo passa, e la sua freccia, come ben sappiamo, punta in avanti. Tra una cosa e l’altra, nel trascorrere dei mesi, Fisicast ha messo su un archivio piuttosto rilevante: si contano ormai ben sessantuno puntate, tutte liberamente ascoltabili, con una ampia rosa di argomenti, che spazia da argomenti assai vicini all’esperienza comune, come caldo e freddo a temi decisamente più ardimentosi (almeno per un podcast), come teoria della relatività, meccanica quantistica e onde gravitazionali.

E ovviamente, se non l’avete ascoltata, vi raccomandiamo caldamente e (fate finta di crederci, perfavore) disinteressatamente, di ascoltare l’ottima puntata su Phos, dove si azzarda perfino… una intervista ad un fotone!

Storie di fotoni (e altre minuzie) a parte, quello che qui ci piace sottolineare è l’estrema fruibilità della proposta. Essendo difatti ogni puntata concepita come “a sé stante – e non come un corso da seguire magari in modo progressivo – si può saltare direttamente sopra qualsiasi puntata di interesse, con la ragionevole certezza di passare una mezz’ora in compagnia di un ascolto intrigante ed intelligente, con la confidenza rassicurante di imparare qualcosa, nonché di trovare territorio fertile per lo sviluppo di nuove idee e nuove domande (che poi, la scienza fa così, ogni risposta si porta appresso un’altra domanda). Insomma si può entrare nella fisica, anche la più attuale, in modo morbido, accompagnati da professionisti della ricerca e da allenati divulgatori. Scegliendo il punto di ingresso che più ci piace.

Se vi parliamo proprio oggi di Fisicast è per un motivo preciso. Il progetto infatti è ad una importante ripartenza, dopo diversi mesi di inattività. Dopo aver visti i pianeti di altre stelle, nell’agosto dello scorso anno, ci si era un po’ fermati, per una molteplicità di motivi, che poi fanno parte del gioco.

Eppure non pareva bello abbandonare una cosa così. Non pareva bello nemmeno ai curatori. E difatti, Fisicast riparte, esattamente da oggi. Possiamo testimoniarvi che si è appena riformata una squadra decisamente motivata, e questo ci fa davvero ben sperare per il futuro.

E se l’entusiasmo è nuovo, la sfida è la stessa di sempre.

Si tratta, come ben comprendete, di una sfida antichissima, destinata a durare quanto l’uomo: quella di rendere vere le cose, raccontando. Qui infatti non ci sono lavagne, non ci sono diagrammi da mostrare. Tutto avviene sul filo delle parole, sull’architrave del racconto. Come è sempre stato, dalla notte dei tempi, dagli incontri davanti al fuoco, potremmo dire, fino ad oggi.

La sfida è proprio questa, far passare contenuti semplificati ma mai banalizzati, lineari ma rigorosi, appoggiandosi alla linea delle parole, quella linea magica e misteriosa che unisce – per dire – Fermi ad Ungaretti, scienza a letteratura: che poi è la più propria della mente, la quale, ultimamente, lavora i propri concetti in questo modo, appoggiandosi sul linguaggio. Anche le formule più astruse, infatti, diventano alla fine linguaggio, nella mente dello studioso.

E’ una sfida particolarmente interessante, a nostro avviso. Superare le barriere, la paura della matematica, andare oltre tutto, al fine di dire le cose ugualmente, senza diluirle o banalizzarle. Ovvero, raggiungere una semplicità di secondo grado che peraltro si configura come una acquisizione sempre più necessaria per una nuova ed efficace comunicazione, nel mondo contemporaneo. Per usare le parole di Marco Guzzi, filosofo e poeta, Quello che però viene richiesta urgentemente è una distillazione, è distillare goccia a goccia una semplicità di secondo grado. Che vuole dire di secondo grado? Vuole dire una semplicità che porti dentro di sé, nel suo dirsi, nella sua parola, ma senza nemmeno doverle ricitare continuamente, tutte queste tradizioni, tutta questa forza. Qui la tradizione e la forza specificamente (ma non soltanto) del pensiero scientifico, per come si è costituto pian piano nel suo affidabile deposito di cultura e conoscenza.

Così, grazie all’arrivo di nuovi collaboratori tra INAF, INFN e La Sapienza, grazie al supporto dell’Associazione Frascati Scienza, Fisicast torna gagliardamente alla sua periodicità mensile. E appunto riparte proprio da oggi, sul web e sulle principali piattaforme podcast come Spotify, iTunes, Google Podcast, YouTube e sui social FaceBook, Twitter ed anche (freschissimo) sul canale Telegram.

La puntata fresca di forno si occupa del suono, ed è a cura di Giovanni Organtini dell’Università di Roma “La Sapienza”. Seguirà una puntata dedicata ai raggi cosmici, di Livia Soffi (INFN), e poi “Il fotone oscuro” di Danilo Domenici (INFN). Ma diverse altre puntate sono già in preparazione, in modo da assicurare il mantenimento della periodicità mensile del podcast.

L’invito è di collegarsi tramite una delle tante modalità disponibili, e lasciarsi catturare dall’avventura della fisica moderna. Cioè dall’avventura, sempre viva e nuova, di un racconto.

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Da dove viene tutto quanto?

Possiamo dirlo subito, senza tema di smentita. Siamo fatti di cielo, di polvere di stelle, nella gran parte. Anche se non ce lo ricordiamo quasi mai. Fate caso, chi si sofferma mai la mattina (tra caffè, libri, ragazzi da portare a scuola, traffico, ricerca di parcheggio…) , anche solo un momento, a pensare al fatto che siamo totalmente impastati di cielo? 

E non appena in senso poetico, o metafisico (che già sarebbe tanto, beninteso). Ma in senso veramente strutturale. Siamo fatti cioè di materia che è stata elaborata e prodotta nello spazio. E viviamo grazie a ciò che è accaduto – ed accade – nello spazio.

Per rendersene conto in modo molto diretto e concreto, basta guardare questa particolare  tavola degli elementi.

Crediti & Licenza: Wikipedia: Cmglee; Data: Jennifer Johnson (OSU)

L’avrete riconosciuta: non è altro che la classica tavola periodica di Mendeleev con la piccola accortezza di aver aggiunto l’indicazione – per ogni singolo elemento – della sua sede probabile di produzione.

E si scoprono cose interessanti: cose che non sappiamo (o alle quali, appunto, non pensiamo quasi mai) ma che ci riguardano direttamente, cose che evidenziano e rinsaldano il nostro rapporto costitutivo con lo spazio. Lo spazio, infatti – così ci dice inequivocabilmente questa tabella – non è altro da noi, non è sopra la nostra testa. E’ molto più vicino, perché in qualche modo, ne siamo costituiti.

Prendiamo l’idrogeno, presente nel nostro corpo in ogni sua molecola d’acqua, ad esempio. Sapevate che tale elemento è tra le cose più antiche di cui possiamo fare esperienza? Viene infatti direttamente dal Big Bang: non si dà, a nostra conoscenza, alcuna altra modalità apprezzabile per la produzione di idrogeno nell’intero universo. Il carbonio, così come l’ossigeno, è invece prodotto dall’interno delle stelle. Gran parte del ferro nel nostro corpo è stato poi prodotto durante lo scoppio a supernova di stelle (di massa più grande del Sole) che “abitarono” questa parte di spazio, molto tempo fa. L’orolo abbiamo visto di recente – è stato in gran parte prodotto da stelle di neutroni durante drammatiche collisioni, che hanno prodotto (è proprio notizia di questi giorni) impulsi gamma “a vita breve” ed anche eventi di onde gravitazionali.

Capiamoci, non è sempre tutto chiarissimo: per esempio ci sono elementi essenziali, come il rame, di cui ancora non si conosce bene la specifica modalità di produzione. Tematiche aperte, tanto da essere ancora oggetto della ricerca attuale, tramite osservazioni e investigazioni al computer.

Ma la faccenda resta intatta. Siamo fatti di stelle (in gran parte). E siamo comunque totalmente fatti di materia del cielo.

Potrebbe forse bastare, per la ricorrente domanda (lecita, per carità)  sull’opportunità di investire soldi nello studio del cielo. In fondo, studiare il cielo è studiare noi stessi. Ci potremmo infatti quasi domandare – a questo punto, invertendo totalmente la questione – cosa ci possa mai essere, di più importante…

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Un Nobel… gravitazionale

Il Nobel per la fisica, l’avrete saputo, va ai fondatori e costruttori di LIGO, lo strumento che ha reso possibile per la prima volta la rilevazione delle onde gravitazionali, queste elusive increspature dello spazio, predette dalla teoria della relatività generale di Einstein, ma mai viste fino ai tempi più recenti.  E che ci costringono, come molta parte della scienza moderna, a ripensare l’Universo in termini forse un po’ diversi da quelli un po’ meccanicistici,  ai quali siamo abituati.

Sappiamo che si deve alla coppia di interferometri LIGO, se il 14 settebre dell’anno 2015, siamo stati in grado per la prima volta di rilevare queste infinitesimali deformazioni dello spazio tempo, aprendo finalmente una nuova finestra di indagine sull’Universo.

Il Nobel in questo senso, è altamente significativo. Sancisce indelebilmente il trionfo completo, prima di tutto, della teoria della relatività generale, corroborandone le previsioni con una precisione veramente encomiabile. E allo stesso tempo, donando inaspettata forza sia al nostro modello scientifico di Universo (fortemente plasmato sulla teoria di Einstein, appunto) sia alle ricerche più attuali su oggetti così esoterici e bizzarri come i buchi neri di massa intermedia.

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Il sistema planetario più piccolo

E’ proprio un momento particolare, per la scienza. Stiamo vivendo ai confini di qualcosa che non abbiamo completamente compreso, ma sempre più informa la nostra vita, le nostre percezioni, il nostro sentire.

Stiamo vivendo in un Universo fisico che ci regala nuove sorprese momento per momento. Dopo una apparente stasi, in cui sembrava non ci fosse alla fine niente di nuovo da scoprire, niente di nuovo da capire, ecco che torniamo avanti, che siamo sbalzati immediatamente alla frontiera, che il flusso delle cose torna nuovo, torna sempre ed ancora nuovo.

Non si contano quasi, le avvisaglie di quel mutamento profondo che è segnalato da tanti tanti spunti: le onde gravitazionali, di cui si è avuta appena adesso la conferma del terzo evento, gli esopianeti, con Proxima B straordinariamente vicino e straordinariamente simile alla Terra. Ed ora si affaccia un’altra scoperta straordinaria, che tocca l’infinitamente piccolo, come sappiamo intimamente connesso con l’infinitamente esteso: così connesso che non si può studiare l’Universo nella sua genesi senza sprofondare nel regno delle particelle elementari, come sappiamo.

La notizia in sé l’avrete già saputa: l’esperimento LHC del Cern ha riportato l’osservazione di una nuova particella, che è stata chiamata double charmed Xi, contenente quattro quark, due di tipo charm ed un quark up.

Il simbolo della nuova particella, appena scoperta al CERN

Ora, sappiamo bene che – secondo le attuali teorie – i quark sono proprio quei “mattoncini elementari” che costituiscono tutte le particelle, appaiono insomma come i costituenti ultimi della materia nell’Universo: a quanto pare non mostrano più una struttura interna, ogni tentativo di guardarci dentro produce la mutazione in nuove particelle, composte anche esse di quark. Siamo arrivati veramente alla base di tutto, con i quark.

Per dire, le particelle alle quali siamo familiari, sono ben spiegate con il modello a quark: il protone è composto di tre quark (due up ed uno down) e il neutrone pure di tre (due down ed uno up). Dunque, in parole povere, montando insieme i vari quark, si possono ottenere tutte le particelle di cui abbiamo esperienza, incluse alcune così esotiche che vivono appena pochissimi istanti negli esperimenti di laboratorio, e poi scompaiono trasformandosi in altre particelle più “consuete” e magari in energia.

Qual è allora la straordinaria novità di questa scoperta? E’ proprio nel modo in cui questa particelle è costruita, e segnatamente nel fatto che contiene due quark “pesanti”, quale appunto il quark charm. L’esistenza di questo tipo di particelle era prevista in base alle teorie attuali, ma (come per la rilevazione delle onde gravitazionali) la rilevazione empirica tardava a venire. Ora con la scoperta di questa nuova particella (di massa 3621 Mev, circa quattro volte più pesante del protone), un altro piccolo ma importante tassello della nostra concezione del mondo fisico, viene a mettersi – assai confortantemente – al suo esatto specifico posto.

Sembra nel complesso che i segnali dall’Universo ci dicano che il modo in cui lo interpretiamo sia sostanzialmente corretto, anche se – attenzione – lo stesso messaggio ci rivela in maniera incredibile quanta parte di “non conoscenza” ancora abbiamo davanti e alla quale non possiamo che guardare con umiltà e pazienza, doti del resto essenziali per la ricerca.

Interessante, in questa sede, la stretta analogia che anche a parole viene tracciata tra i sistemi planetari e le dinamiche interne di questa nuova particella. Come dice  infatti Guy Wilkinson, ex coordinatore della collaborazione scientifica che ha portato alla scoperta,

«in contrasto con gli altri barioni finora noti, in cui i tre quark eseguono una elaborata danza l’uno attorno all’altro, ci aspettiamo che il barione con due quark pesanti agisca come un sistema planetario, dove i due quark pesanti giocano il ruolo di stelle che orbitano l’una attorno all’altra, mentre il quark più leggero orbita intorno a questo sistema binario»

E’ certamente una analogia, e non va portata troppo oltre: però ci aiuta comunque a capire, anche con la semplice scelta delle parole (le parole sono importanti, lo sappiamo), come sempre più la ricerca fisica-cosmologica sia un tutto intimamente connesso, un sistema sul quale non si può più tentare il vecchi approccio riduzionistico di isolare per capire, ma va tenuto sempre tutto in conto, nella consapevolezza sempre più chiara di quella intrigante ed incredibile complessità che ci circonda, e che chiamiamo mondo.

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Il tempo e il senso comune

Decisamente, l’epoca moderna ha assistito ad una sorta di accelerazione nel progresso delle scienze fisiche e nell’astronomia – in particolare – che è probabilmente sconosciuto a diverse epoche passate. Tanto veloce che a volte, mi pare, si lasci indietro qualcosa. O piuttosto, qualcuno.

Sì, credo che a rimanere indietro siamo noi stessi. Tutti noi, in qualche misura.

Siamo proprio noi, infatti, che non riusciamo a metabolizzare compiutamente le acquisizioni (ormai robuste e sperimentalmente ben comprovate) della nuova fisica. E nemmeno tanto nuova, dovremmo aggiungere. Più precisamente, oserei dire che non riusciamo in realtà a digerire le idee di tutta la fisica moderna, quella per capirci che si muove appena oltre il perimetro della cosiddetta “fisica classica” di impronta galieiana/newtoniana.

Il mondo è irriducibilmente più complesso e articolato dei nostri tentativi di interpretarlo. Che rimangono comunque indispensabili

Il mondo è irriducibilmente più complesso e articolato dei nostri tentativi di interpretarlo. Grazie al cielo!

Digerire, appunto. Questo è forse un punto importante. Non appena comprendere, intendo, ma assimiliare, come quasi fosse il risultato di un moto di ingestione, qualcosa che rende il concetto veramente assimilato nelle fibre del nostro essere. “Un’idea un concetto un’idea / finchè resta un’idea / è soltanto un’astrazione / Se potessi mangiare un’idea / avrei fatto la mia rivoluzione” cantava saggiamente Giorgio Gaber, alcuni anni fa.

Basti questa frase di Minkowski, a capire quanto siamo indietro biologicamente rispetto a quanto noi stessi abbiamo scoperto:

« Le concezioni di spazio e di tempo che desidero esporvi sono sorte dal terreno della fisica sperimentale, e in ciò sta la loro forza. Esse sono fondamentali. D’ora in poi lo spazio di per sé stesso o il tempo di per sé stesso sono condannati a svanire in pure ombre, e solo una specie di unione tra i due concetti conserverà una realtà indipendente. »

La frase si riferisce al contesto dell’introduzione del concetto di “spaziotempo quadridimensionale” che poi è alla base della formulazione della relatività, sia ristretta che generale. Tale spaziotempo è una creazione matematica appunto di Hermann Minkowski.

Niente di cui stupirci, insomma: chiaro che per assimilare queste cose ci vuole il suo tempo (appunto). Se non fosse che questa frase è del 1908. Ovvero, in parole povere, antecedente perfino alla Prima Guerra Mondiale.

E’ dunque interessante sorprenderci, alla luce di queste parole – robustissime ancora oggi, sotto il profilo fisico/matematico – ed accorgerci come per noi questo concetto illustrato più di un secolo fa, sia ancora “esterno”, in grande misura. Siamo ben lungi dall’averlo mangiato, se mi permettete il termine.

Quello che è ormai evidente in senso fisico/matematico, cioè il modello che meglio risponde all’interpretazione del reale, rimane per noi difficile da assimilare. Resta lontano, astratto. Diciamo infatti, nella vita ordinaria, frasi come dove ci si trova? Oppure quando è successo? E per noi spazio e tempo non potrebbero per noi essere più lontani tra loro, più distanti. Più distinti, nella loro intrinseca natura. Per noi il tempo, ad esempio, è una entità assoluta e sganciata da ogni altro riferimento, anche biologico,  laddove è l’esperienza stessa – ad un esame attento – che ci potrebbe dimostrare agevolmente il contrario.

Tutto questo, si badi bene, senza scomodare le acquisizioni della fisica quantistica, dove ci sarebbe da scrivere libri e libri sullo scarto – per certi versi drammatico – che si è consumato tra percezione del mondo e modello del mondo. Il modello del mondo derivante dallo studio dei quanti è così bizzarro e per noi incredibile, così carico di implicazioni anche culturali e addirittura (oso dire) spirituali da superare probabilmente ogni più estrema architettura narrativa di impianto fantascientifico.

Il che, a pensarci, va anche bene. Siamo fatti in un certo modo, siamo fatti probabilmente nel modo più adeguato a muoverci dentro il reale. E per avere un quadro lavorabile del reale ci servono rappresentazioni mentali di spazio e tempo distinti, forse.

Allora il fatto che la fisica ci dice – da tempo – che le cose non stanno come le vediamo non ci interessa, se non in un astratto senso intellettuale? Tutt’altro, a mio avviso. Ci dice una cosa fondamentale, per la nostra esistenza: che ciò che vediamo non è ciò che esiste. Che la realtà supera abbondantemente la nostra percezione usuale.

Avverte Henry Margenau  che

al centro della teoria della relatività c’è il riconoscimento che la geometria… è una costruzione dell’intelletto. Solo accettando questa scoperta, la mente può sentirsi libera di modificare le nozioni tridimensionali di spazio e di tempo, di riesaminare tutte le possibilità utilizzabili per definirle, e di scegliere quella formulazione che più concorda con l’esperienza.

E credo – per mettere un primo punto ad un discorso che certo non può fermarsi qui – che il sano dubitare sulla nostra percezione del mondo – che è appunto una percezione e non una fedele rappresentazione – non sia da intendersi in accezione negativa o tantomeno nichilistica, ma sia fondamentalmente da accogliere come una buona notizia.

Ragionare su questo ci porta infatti a fare un passo indietro nella pretesa di conoscere tutto, che spesso inconsciamente ci muove. Ci aiuta nel fare spazio ad altre possibilità, altre storie, nel riconoscere una parte di mistero che se adeguatamente ricompresa può aiutarci anche – paradossalmente, ma non troppo – ad indagare con rinnovato trasporto ed emozione proprio il cosmo nel quale ci troviamo immersi.

Che non conosciamo completamente, e mai conosceremo in forma totale.

Ma che ci parla, in un linguaggio che  – miracolosamente – possiamo capire.

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