Blog di Marco Castellani

Categoria: Giussani

Sailing

Salpare. Smetterla con questa vista già ben saputa, di barche ormeggiate al porto: alzarsi ogni giorno, colazione e quotidiano e chiacchiere per convincersi che no, oggi forse fuori c’è maretta, meglio non muoverci. Aspettare, non rischiare più di tanto, rimanere in porto…. Invece no. Salpare. Andare in mare, perché la barca è fatta per questo. Vivere ogni situazione fino in fondo, vivere sempre intensamente il reale (L’unica condizione per essere sempre e veramente religiosi è vivere sempre intensamente il reale, senza rinnegare e dimenticare nulla dice Don Giussani, e quanto viene dimenticato quando non fa comodo al nostro gioco di sponda, di piccole infelicità covate, di quieta invidia per una vita piena).

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Vivere sempre tutto, anche gli sbagli viverli – quando capita di sbagliare – e poi si può comunque tornare indietro a chiedere scusa, a chiedere perdono. Non siamo perfetti non pretendiamo da noi stessi la perfezione. Smettere di stare a valutare la robustezza dello scafo, a fare conti sterili su quanto e dove potrebbe portarci se solo ci decidessimo. No no, invece partire salpare prendere il largo. Onorare la vita che ci chiede di vivere. Sentire il vento sulla faccia lo spruzzo dell’acqua fredda e salata che ti urta ma ti fa capire ti fa sentire che sei vivo e che stai facendo quello che devi fare, vivere. 

Cast the lines away

From the dock at the harbour bay

All those cares and worries and woes

You can save them for another day

Because we’re sailing, sailing

Yes we’re sailing, sailing

(Mike Oldfield, Sailing)

Lasciamo la paura di sbagliare dietro, lasciamocela scorrere sulla pelle e disperdersi nel vento. Paura di sbagliare? Ma  certo che sbagliamo, come possiamo evitarlo? Io ho sempre fatto solo sbagli ma uno sbaglio che cos’è cantava Lucio uno dei grandi della nostra canzone (uno dei due grandi). E anche un tipo che magari non è stato sempre nelle mie preferenze musicali, Noi siamo liberi, liberi, liberi di sbagliare siamo liberi liberi di volare… Che poi uno che ha scritto una canzone come Sally e soprattutto l’ha affidata alla Mannoia, che gli vuoi dire… 

Ora stavo pensando comunque che la frase di Vasco liberi di sbagliare mi piace molto molto di più di una frase che uno potrebbe dire liberi di far ciò che vogliamo … Sì la seconda mi sembra più fredda, liberatoria solo in apparenza. Perché nella prima si sente la presenza di un sistema di riferimento, nella seconda, nell’apparenza di una permissività globale, in realtà c’è il triste segno di un nichilismo sconsolato, per dire alla fine è tutto uguale, siamo soli… Orribile a dirsi, orribile e invalidante solo a pensarsi. Lo sbaglio è più dolce della tentazione dell’autonomia perché c’è qualcuno (o Qualcuno) che ha cura di te, non è tutto freddo e uguale, c’è una strada. Come dire, vivere e (anche) sbagliare sapendo che c’è comunque un papà che ti guarda, che ha cura di te, non è la stessa cosa che far quel che ci pare perché tanto a nessuno importa di ciò che fai (purché non lo disturbi). Io la leggo così. 

Comunque questo è anche per salutare il ritorno di un mio vecchio amico, uno di quelli con cui ho condiviso tanti anni. Uno di quelli che quando serve è sempre lì, a volte non sai cosa dire ma non fa niente, lui non ha bisogno di parole ti offre la sua musica e tu lasci che sia lei a parlare, lasci che sia il suo ritmo a scaldarti il cuore quando sente freddo (I let the drums do the talking, cantava Nik Kershaw tanti anni fa, in uno splendido pezzo). Come un riepilogo veloce – quando ne avessi bisogno – del fatto che le cose belle ci sono, esistono

Mike Oldfield è così. Uno di quelli che ha fatto sempre musica della più varia possibile, dai pezzi sinfonici alle suite progressive fino alle canzoni più commerciali. Ma l’ha fatto e lo fa a modo suo, personalissimo (come ogni vero artista) e io riconosco e leggo e avverto il codice sottotraccia che attraversa tutta la sua produzione, dai pezzi ambiziosi e folli e fantastici come Amarok alle canzoni – se vogliamo – più radiofoniche come quelle di Man on The Rocks. Il messaggio di speranza  (parola forte eh) che passa in tutta la sua produzione, mi arriva nelle cellule, le riorganizza, riattiva le dinamiche virtuose sopite, mi rimette in assetto, mi restituisce un po’ di allegra baldanza.

E’ musica – finalmente! – non intrisa di relativismo o nichilismo, è musica che dice quello che il tuo cuore cerca, esiste e lo dice in ogni nota, lo dice in una canzonetta con voce e chitarra o in un pezzo complicatissimo e progressivo. Ti dice che puoi navigare, che è bello navigare, perché la vita in fondo è buona. Ti dice che in fondo vale la pena. E’ semplice, non so come è, ma l’avverto subito. Ascolto due o tre note in fila, la sua chitarra, e avverto sempre questo messaggio, vale la pena. E così lo avverto in questo ultimo lavoro. D’accordo, sono canzonette (ma di che qualità, comunque), se proprio volete dir così. Ma la struttura interpretativa del reale che trasmette, è quella che più mi fa bene, mi costruisce, mi fortifica. 

Bentornato. 

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Benvenuto papa Francesco

Sono rimasto un attimo interdetto, quando ho sentito il nome. Come molti, probabilmente. Eppure mi è bastato attendere qualche momento, vederlo affacciarsi con quel modo così affabile.. è bastato quel Buonasera con cui si è presentato, misto di gentilezza e premura…

Stavo portando mio figlio in palestra, erano da poco passate le sette di sera. Mi arriva un SMS da mia moglie con scritto soltanto papa (mia moglie è ampiamente sintetica nei messaggi). Per un attimo penso papà. Qualcosa a  che fare con i figli. Mi sarò scordato qualcosa? papà devi fare questo, mi devi portare… Boh. Eppure arriva da mia moglie. Poi capisco. Papa. 

Porto Andrea in palestra. Faccio un giro con la macchina e poi ritorno a prenderlo all’uscita. Cavoletti, vorrei andare a casa ma c’è troppo traffico: non ce la faccio ad arrivare in tempo per vedere la diretta. Ormai andare direttamente a San Pietro non è praticabile, arriverei tardi e sarà già pienissimo di persone. Ritorno alla palestra di Andrea anche se è presto.
Come da copione, sono in anticipo e devo aspettare mezz’ora. Che faccio? Mi metto nel parcheggio e inizio a guardare la diretta dall’applicazione ThePopeApp dall’iPhone. L’avevo scaricata qualche giorno fa, quasi per curiosità. Ora che ci sia bella pronta e disponibile è – possiamo dirlo – quasi una benedizione. Sono un po’ a corto di batterie, speriamo di farcela… 20%… 10%… Ce la faccio, ce la faccio ancora. Così riesco a non perdermi i momenti in cui papa Francesco si affaccia, seguo il suo discorso, posso ricevere la sua benedizione.
(Però andiamo, chi ci avrebbe mai pensato, che avrei seguito i primi momenti del nuovo pontefice in un parcheggio di una palestra, seduto in macchina con l’iPhone che trasmette lo streaming…!)
Così posso stupirmi dell’essenzialità che Francesco porta, la sua mite gentilezza fa breccia in quell’attimo di iniziale incertezza. Avevo le mie ‘simpatie’, come tutti, com’è naturale, probabilmente. Ma pure – almeno un pochino – la consapevolezza che grazie al cielo c’è Chi interviene e dunque mi posso pienamente fidare.

E a casa mia moglie mi ricorda che l’abbiamo anche “incontrato”. E’ venuto tempo fa, a celebrare delle cresime nella basilica dove andiamo di solito. Amico del sacerdote che abbiamo seguito per anni. Poco dopo, la sorpresa di ascoltare l’intervista in televisione a Don Donato, che ha battezzato due dei miei figli, parroco di una chiesa non lontano da casa mia. 

Così tutto si incastra, per me. Segni di una storia personale che continua. Una traiettoria che nonostante tutte le resistenze e le deviazioni, invita sempre di più ad affidarsi al Mistero, a dire Sì a Cristo e a dirlo spesso
C’è una Storia grande che si riverbera in tante storie personali, in un modo misterioso e penetrante e adeguato ad ognuna. Non so spiegare come mai, ma lo avverto in modo sempre più netto, limpido: le circostanze sono per me, sono un invito alla mia libertà. 
Dice Don Giussani, in una frase che mi risulta sempre più vera, fino a diventare quasi un criterio di interpretazione del reale…. Le circostanze per cui Dio ci fa passare sono fattore essenziale e non secondario della nostra vocazione, della missione a cui ci chiama. 
Sono perché cresca, perché io cresca: così sono aggangiato a tutti e (quando ho questa coscienza) tutto mi interessa. Così – oso dirlo – anche questo papa, questo regalo dato alla Chiesa, in fondo, è per la mia crescita, per il mio percorso di guarigione/conversione, è… per me.

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Pazienza

Questa è una cosa che voglio impazientemente. Eh sì, perché con ciò mostro subito il fianco, espongo il punto debole. Sono impaziente, lo ammetto. Impaziente di ottenere quello che voglio, impaziente di uscire da ogni forma di disagio (fisico, psicologico). Ecco come sono, interiormente impaziente.

Poco giova appoggiarsi alle usuali considerazioni di come il vivere moderno favorisca, insieme con una certa inconsapevolezza esistenziale, anche una marcata impazienza. Basta mettersi in macchina, per capirlo. Abbiamo tutti fretta di arrivare da qualche parte, in qualche luogo, per parlare con qualcuno, vederlo, fare, decidere. Non sopportiamo ogni piccolo impedimento. Io per primo, in auto devo lottare contro la mia impazienza. Se uno va piano davanti a me sono impaziente, se uno mi lampeggia dietro sbuffo.

Traffic ?
Ecco una classica (e ben nota) occasione di pazienza…

Forse è un indice di come spesso non stiamo bene con noi stessi. Ci portiamo dietro i problemi irrisolti, le incomprensioni coniugali, le frustrazioni lavorative, il senso di felicità insoddisfatto. Ci illudiamo che spostandoci rapidamente possiamo lasciar dietro il disagio. Invece spesso esponiamo noi e altri ad inutili rischi. In ultima analisi perdiamo di vista la sacralità dell’esistenza, che è di ogni istante.
Forse è anche che la nostra società è impostata sul fare. Rimanendo in superficie, è inevitabile che il fare abbia il predominio. Ti illudi di salvarti (ovvero, come proiezione immediata, di trovare il senso) facendo e riuscendo nel tuo fare.  Quindi uno è sempre inquieto, non riesce a riposarsi a lungo perché ogni acquisizione è temporanea e soggetta a variazioni.
E’ un segno della mancanza di profondità. Mi colpisce la frase di Don Giussani che leggo oggi su Tracce di novembre, perché capovolge il punto di vista (quello che tante volte è esattamente il mio). Era in una lettera a delle persone che andavano in Brasile per seguire la propria vocazione, ma mi pare abbiano una portata universale:

Non è importante quello che riuscirete a fare: è decisivo quello che riuscirete ad essere. Noi vogliamo il Regno di Dio: per il Regno di Dio – da Cristo in poi – è importante quello che si é, non quello che si riesce a fare… 

Il Regno implica la discesa nella profondità di noi. Cadere nel centro di noi stessi, dove ci aspetta l’Assoluto. Restare in superficie è restare invischiati in questa frenesia del fare. 
Il fatto è che non si riesce ad aver pazienza gratis. Non ci si acquieta senza la percezione di un bene in atto, di un presente positivo. Anche se il giorno prima fosse successa la cosa più bella del mondo, ho bisogno che succeda qualcosa adesso. Altrimenti, annaspo, non respiro.
Quindi la pazienza vera si incontra con la contemplazione. Percepisco qualcosa di bello che mi aiuta a vivere non uscendo dai miei guai ma attraverso i miei guai. 

La pazienza cresce e si modula attorno alla consapevolezza delle cose belle. Alla percezione, che penso possa essere educata (attraverso un lavoro), che la realtà è positiva. Ed è all’opposto della rassegnazione, perché la prima ha come una energia buona, una frequenza alta, la seconda no. Nella prima si è in accordo con il cosmo, con la totalità. E’ un “assenso” anche faticoso, ma fecondo; nella seconda ci troviamo in sterile “opposizione”.
Dice ancora Giussani (in Certi di alcune grandi cose):

La pazienza è il modo di portare la totalità o di portare tutto verso la totalità. E’ una energia, la pazienza, non un subire o una rassegnazione. La rassegnazione è la non vita, la pazienza è la dinamica del vivere. “Nella vostra pazienza possiederete voi stessi” – dice Cristo -. Questa è la pazienza,  è la strada al possesso.

Che la pazienza sia strada al possesso è una cosa quasi paradossale, contro la quale gran parte di me si ribella (diciamo, contro la quale il mio ego fa una battaglia furibonda). Se non fosse, che quando alla fine cedo a questo, ecco. Mi sento immediatamente meglio…

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Quando fuori piove…

Fuori piove, ascolto smooth jazz negli auricolari. A casa le persone sono dietro le varie attività, computer, televisioni. Vedo gocciolare dalla finestra. Davanti al mio naso, non molti metri in linea d’aria, c’è un bel pino grande. Sta in silenzio, assorbe l’acqua che gli cade addosso. Oserei dire che è contento.
Alle volte sono nervoso, teso. Misteriosamente. Spesso lo sono in molti, del resto. Chissà perché mi viene in mente di nuovo, che la conversione non è, come avevo spesso immaginato, uno sforzo morale o ascetico, un nuovo obiettivo da raggiungere, un salire. Ora mi viene in mente, come mi veniva in mente qualche tempo fa, che è un nuovo modo di guardare, più rilassato, tranquillo, benevolente. Uno scendere. Come quando sai che non tocca a te di fare tutto, di sistemare tutto quanto. Tranquillo, mi dico: non tocca a te sistemare nemmeno te stesso.

Rain Texture


Ridurre la fede ad etica, a morale, è quanto di più pericoloso ci sia per il cuore dell’uomo. Poi non si capisce più nulla, basta vedere (o immaginare) che un uomo noto (magari un politico) dichiaratamente cattolico, sbagli, e subito si grida allo scandalo. 
Perdendo di vista che la partita che ci interessa non è innanzitutto per la moralità, la partita vera e decisiva è per la felicità. 

Soprattutto non si capisce che la fede non è un’ennesima sovrastruttura, qualcosa per fissati. Ma è qualcosa per gente che si vuole davvero godere la vita, attimo per attimo. E siamo sempre in viaggio, sempre soggetti ad errori. Ma la strada è bella, e non è definita dagli errori. Abbiamo ancora un lungo cammino davanti e siamo felici di poterlo percorrere”, come dice Carron nella bella lettera a La Repubblica del primo maggio.
Fuori piove e io (ri)scopro, che se porto intorno questo sguardo, questa coscienza più tenera e rispettosa di quanto esiste dentro e fuori di me, sono meno nervoso, meno teso. Mi piacerebbe essere così, come un albero che aspetta il sole e la pioggia, e respira. 
Questioni di essere presi in braccio, alla fine. Come la frase di Sant’Ambrogio che era cara a Don Giacomo Tantardini, che tanto ha insistito, fino alla fine, sulla semplicità della fede.

Vieni dunque, Signore Gesù… Vieni a me, cercami, trovami, prendimi in braccio, portami. 

Quando comprendiamo che abbiamo davvero bisogno di essere portati in braccio, possiamo vedere accadere miracoli. E’ quando finalmente cediamo ad un Altro, che comincia lo spettacolo.
E’ molto più bello essere cercato dalla Verità, che cercarla. Credere è ammettere di poter essere cercati, in fondo. Questo ribalta tutta la questione. Cambia il verso della freccia. Ci permette una salutare passività. Non oziosa, ma contemplativa. Come davanti ad una cosa bella.

Che bello quello che ha detto Carròn ai funerali“don Giacomo ci ha testimoniato la bellezza dell’essere cristiano e ha trascinato tanti di noi dietro di lui. “

L’albero davanti a me. Ecco. Un albero non si giudica, per esempio. Vive e respira. Le radici ben piantate nella terra, sa cosa lo tiene in piedi. Io non giudico nessuno, nemmeno me stesso esortava tanti anni fa Don Luigi Giussani. 
Rileggo. Volevo dare a questo post un’atmosfera, un senso meno diretto, più allargato, errante. Un procedere in linea curva, docile, non rettilineo. Come pensieri durante un giorno di pioggia… Non so se ci sono riuscito, alla fine mi faccio prendere la mano, cerco istintivamente di trovare una tesi e dimostrarla… e non è quello che conta, non contano le parole. 
Anzi, alle volte ci vuole un vuoto di parole, uno spazio di silenzio.
Perché conta questo, la dolcezza del cuore, quando si sente grato.

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Ciò che rende uomo l’uomo

Lo dico. Mi sembra a volte di giocare in posizione di difesa. Giocare troppo corto, anche quando non ce ne sarebbe bisogno. Quando la partita non è messa male, non ci sarebbe necessità di arroccarsi. Catenaccio completamente inutile, direbbe il cronista. Perché mettere i gomiti davanti? Ricadere nel pensare gli altri come soluzione dei propri problemi? Pretenderla dagli altri, la soluzione?
Non mi è concesso più, di relegarti i miei casini
Mi butto dentro, vada come vada
(Lorenzo Cherubini, Mezzogiorno)
Dice bene Lorenzo. C’è come un’aria velenosa di rinuncia preventiva, un’idea di rimanere sul solito percorso, magari giudicandolo insoddisfacente ma non facendo davvero nulla per cambiarlo.

S’è avvolto nelle tenebre il mondo, non temere.
Non credere durevole tutto ciò ch’è oscuro.
Sei vicino ai piaceri, amico, alle valli, ai fiori:
osa, non ti fermare. Ecco, già sorge l’alba!

(Costantino Kavafis)

Ecco, la vita è lì, variegata ed imprevedibile in ogni istante. Colorata e multiforme. Sono i pensieri a bassa energia che ci trattengono. Sono tutto questo. Ecco. I pensieri a bassa energia, i pensieri stinti, sono la vera volgarità: sono tutto il contrario dell’arte.

Che c’entra ora l’arte?

Secondo me c’entra, eccome. L’arte è come la testimonianza impudica che una felicità concreta esiste e si allarga nel tempo. Io penso che il mondo abbia sempre avuto una grande necessità dell’espressione artistica. 

Sei qui. Io smaniavo, ti volevo.
Sei ventata d’aria fresca sul cervello incendio di passione.

Sembrano versi moderni, più moderni anche di Kavafis. Io li vedo così, vi passa attraverso tutta la tensione del contemporaneo, innervata d’impazienza – ci leggi l’impulsività, la forza della passione. Li vedo passare bene nell’aria di oggi, attraverso le strade, i palazzi, i negozi. La gente che si incrocia, si rincorre, si evita, si cerca.
Sei qui. Io smaniavo, ti volevo.

C’è tutta la rapidità quasi informatica del tratto, la forza che nasce dell’aver assorbito e superato ogni accademia, ogni forma retorica. Il contenuto che detta la forma stessa, l’urgenza espressiva che regna. Il sentimento, così esplicito. Insomma, niente di più attuale. Non dice avrei piacere della tua gentil presenza, oppure come la lontananza tua il cor mi ferisce, no no. Dice  proprio smaniavo, ti volevo.

Come quella incredibile canzone che chiude il primo lato di Abbey Road.

I want you,
I want you so bad.
It’s driving me mad,
It’s driving me mad.

(The Beatles, I Want You)

Insomma, siamo nella modernità. Tu pensi, finalmente l’espressività moderna ha superato ogni convenzione, si è affrancata dalle sovrastrutture formali. Pensi finalmente insomma.

Poi scopri che questi versi proprio modernissimi no, non lo sono. Sono di Saffo, una poetessa greca che scriveva circa seicento anni prima di Cristo. 
Allora questi versi, che si agganciano così bene agli scenari di palazzi, strade, automobili? Non c’è qualcosa di eterno nell’arte, qualcosa che ci ricorda che noi siamo più di un conglomerato di atomi e molecole sapientemente combinati? Per me è così. 
E’ perché Saffo ha scritto questi versi, in un attimo magari, un impulso di un istante, ha voluto fermare una sensazione. E dopo migliaia di anni, migliaia, queste poche parole mi parlano e si allargano nel cuore. Trovano un significato; una corrispondenza. 
La poetessa Saffo
Perché questo riverbero positivo? Azzardo un’idea. La faccio breve, ci sarebbe da scrivere molto di più, arrivarci per gradi. Invece vengo al punto. Perché il positivo? Perché queste persone, scrivendo questi versi, testimoniano – in ogni epoca – di prendere sul serio la propria umanità, di volerle bene. Di volersi bene. 
Hanno cioè mostrato in atto, con l’atto stesso di scrivere, quella che Luigi Giussani chiama una coscienza tenera e appassionata di sè. Tutto il contrario rispetto alla tentazione della trascuratezza, di cui si parlava all’inizio del post.
Prendere sul serio la propria umanità è la chiave per aprirsi, mettersi in gioco, lanciarsi finalmente alla ricerca del significato. Di una Presenza innamorata di noi.

“Non sarebbe possibile rendersi conto pienamente di che cosa voglia dire Gesù Cristo se prima non ci si rendesse ben conto della natura di quel dinamismo che rende uomo l’uomo. Cristo infatti si pone come risposta a ciò che sono “io” e solo una presa di coscienza attenta e anche tenera e appassionata di me stesso mi può spalancare e disporre a riconoscere, ad ammirare, a ringraziare, a vivere Cristo.”

(L. Giussani, All’origine della pretesa cristiana, citato qui)
Penso sia impossibile essere artisti senza aprirsi, mettersi in gioco, assecondare la natura di questo dinamismo. Non sto parlando di artisti cristiani, sto parlando di artisti. Del movimento primigenio fondamentale che mette in gioco l’arte, questa incredibile connessione tra i millenni. Figlio di quel dinamismo che rende uomo l’uomo. 
Così la vita entra nelle parole. E le parole trattengono la vita e tu ne vieni a contatto, anche dopo migliaia di anni.
Perché la vita entra nelle parole
come il mare in una nave…
(Luis Garcìa Montero)
Ciò che fa sì che mi possa rivestire dei versi dei poeti come uno strato intermedio tra me e l’esterno, come una possibilità più morbida di vivere il reale. Per essere più umano. Più vicino al cuore.

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Un quadro, del settantatré

Domenica pomeriggio, mettiamo su i quadri. Sono appoggiati in camera da letto da una vita, ormai. Su quel carrello ormai vecchio e rovinato, che dobbiamo buttare. Scomoda, come sistemazione. Anche perché c’è il fatto che se ti alzi di notte per andare in bagno ci puoi sbattere contro (succede, succede…).   A dire la verità, niente come l’iPod Touch – o roba simile –  per muoversi a mò di felino a notte alta con un minimo di luce (se poi non ti riviene sonno, puoi leggere qualcosa o controllare la posta… anche se, chi ti scrive a quell’ora di notte?)
Ma sto divagando…Torniamo ai quadri. E’ incredibile come cambia l’aspetto della casa mettendo due o tre quadri appena. Io e Paola li prendiamo uno alla volta, li puliamo, cerchiamo di capire dove stanno meglio. Ne giro uno, fatto da mio nonno materno (dipingeva per hobby, ma dipingeva bene, secondo me). Vedo la firma e la data. Aldo Poli. Settembre 1973. 

Faccio un rapido conto, e mi colpisce una coincidenza. Mio nonno lo dipinse quando io avevo l’età di Agnese, la nostra bimba più piccola. Quante ne ha viste passare quel quadro! E ancora è lì, ancora svolge la sua funzione. E’ ancora bello. Ancora mi trasporta indietro, mi fa pensare all’infanzia, al nonno. E’ un bel quadro. Ma anche se non lo fosse, sarebbe lo stesso importante, per me. Per la mia famiglia.
Dipingere
Il fatto di creare ha qualcosa dentro, un mistero che non puoi esaurire, comprendere. Spesso ragiono – nel giudicare i miei tentativi letterari-  per categorie semplificate; o una cosa è pienamente riuscita, è un’opera d’arte, diciamo, o non lo è. E se non lo è quasi non si capisce perché uno abbia perso tempo, magari molto tempo, per realizzarla. 
Però questo ragionamento semplificato manca diversi punti. Uno è che creare di per sè è un’attività terapeutica d’eccellenza. Seguendo la spinta interiore a creare capisco meglio il mondo e me stesso, mi muovo verso un equilibrio, affermo la positività ultima del reale (anche se scrivo una tragedia… se sto scrivendo di per sè è come se dicessi vale la pena). Reprimere un impulso a creare non fa mai bene alla salute. A prescindere dal “valore” di quello che riesci a creare. Il secondo punto è che – sappiamo bene – tra il capolavoro e il tentativo da buttare esiste uno spettro larghissimo di possibilità; il mondo è sempre più vario e sorprendente di come riusciamo ad immaginarlo. 
Inoltre dimentichiamo spesso che dietro tantissimo capolavori c’è il lavoro paziente e tenace, ci sono tanti tentativi parzialmente riusciti, che dunque acquistano un loro specifico valore, come può essere la strada che conduce (in un tempo e in un modo non deciso da noi) alla realizzazione di sè.
Assecondare la propria vocazione, mi sembra analogo ad accettare di stare su una strada, di rimanere in un cammino, di cui magari vedi appena pochi metri avanti. Ci sono tante curve, non vedi oltre la prima. A volte ci può essere nebbia. O ti trovi a percorrere una selva oscura, magari. Sei inquieto o triste o insoddisfatto, forse non sai nemmeno perché. Non per questo, devi smettere di camminare: “Guarda che dopo splende il sole; sei dentro l’onda, ma poi sbuchi fuori e c’è il sole” (Luigi Giussani). 
Non per le difficoltà, il tuo diventa meno ragionevole. 

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Dal parco, guardando le case

Stamattina siamo andati io e Agnese. Oggi pomeriggio siamo tornati, e c’era anche Simone. Tutti al parco sotto casa, a prendere un pò d’aria fresca, e a esplorare lo spazio dell’allenamento ginnico, con i nuovi attrezzi che – mossa molto oculata, una volta tanto – una qualche amministrazione ha fatto istallare nell’aera del parco stesso.
In due posti diversi del parco ci sono questi attrezzi belli nuovi, una sorta di palestra all’aperto, accessibile a chi voglia fare un pò di allenamento nell’atmosfera rilassata del parco. Bello. Aiuta a rendere il parco stesso un luogo di uso del tempo libero più completo, diversificato. Bello vedere un altro papà che spiega al figlio i vari esercizi possibili, lo introduce e lo guida alla verifica di se stesso, lo controlla, vigile.
Nel pomeriggio ci tratteniamo all’area attrezzata più vicina alla nostra casa. Il parco corre vicino ai palazzi, in questa zona. Sta pian piano arrivando il buio, noi siamo pronti a rientrare verso casa, ma ci fermiamo un pò. I bimbi apprezzano la compagnia del papà, parlano e chiedono intanto che provano a fare la loro ginnastica (graduale, come necessario).
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Dal parco, al tramonto…

Nella tonalità azzurrina sempre più scura, spiccano come contrasto, come ideale complemento, le luci calde che provengono dalle finestre e dai balconi. Il papà adesso muove lo sguardo sull’ampio palazzo. Miriadi di ambienti che lasciano immaginare di sé. Immagina famiglie, segnali di vita, percorsi, traiettorie di esistenze. Come un immenso mosaico che si compone ordinato, ora, decorando la dominante l’azzurro-verde che prevale nel parco, con le sue tonalità calde. Come dire, c’è un riparo. Guarda che c’è un riparo. Puoi andare fuori ad esplorare, puoi vedere il mondo, andare nel parco, correre, e c’è un riparo. Anzi, tu – bambino, adulto – vai a imparare il mondo, perché sai, o senti, che c’è un riparo. 
E se sei nella tempesta, se non senti qual è il tuo riparo, sai che un riparo c’è. Sei autorizzato a credere che c’è un porto. Che devi passare la tempesta, ma poi “sbuchi fuori, e c’è il sole” (Giussani).
Ora mi è più chiaro di un tempo. La capacità del percorso, della lenta costruzione, si deve appoggiare a qualcosa. Anche nella tempesta, c’è la prospettiva, per tutti, di sbucare fuori, infine vedere il sole. 
Allora sì, si può costruire. Finalmente si può.

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La bellezza e la gabbia…

Era così. Senza dirlo, senza dirmelo esplicitamente, era così. Da più giovane avevo come tutti, le mie brave idee. Come essere un buon fidanzato, un buon marito, un padre affidabile, presente. Come vivere in famiglia, come vivere sul lavoro. Come affrontare le varie cose. Con le mie idee, i miei valori. Le mie priorità.
Pensavo (e a volte penso ancora) di dover essere, in questo modo, in quest’altro. Dover essere. E di comportarmi in maniera conseguente. Essere percepito dagli altri, in modo coerente con questo, anche. 
E così mi costruivo da me stesso, con le mie migliori energie, una bella gabbia dove rinchiudermi. Una gabbia dove, tristemente (e nonostante potessi dire il contrario) c’era sempre meno spazio per le sorprese, per le sorprese vere.
Qualcosa sta succedendo, in questo periodo. Qualcosa che mi costringe a lavorare per uscire dalla mia gabbia dorata. Anche qualcosa che, sul momento, punge e fa male. Piccole e grandi frustrazioni; poi il toccare con mano concretamente le mie miserie, che stridono con la pretesa di autosufficienza. Le incoerenze cocenti. Che indicano qualcosa di altro, di diverso. Rimandano ad una prospettiva più ampia.
“la prima condizione per capire la risposta all’umano che Cristo pretende di essere è di sentire fino alla sofferenza la propria domanda umana inevasa” (Luigi Giussani)
Oggi pomeriggio ho portato la piccola Agnese al parco. La natura rivestita dei colori di primavera, mi ha allargato il cuore, ha placato un poco le inquietudini, addolcito il misterioso e doloroso senso di  insoddisfazione. Agnese era semplicemente deliziosa, una deliziosa piccola bimba in un parco delizioso. Una bimba bellissima che vuol bene al suo papà, così com’è:  le basta un mio sorriso. Allora un pò ho capito. Vedevo succedere delle cose. Ora, in questo momento. Succedono delle cose.
Una foto presa al parco, oggi pomeriggio…
Io capisco questo. Qualcuno mi vuol bene, conosce il punto specifico del mio cammino, i sui lati belli e le sue fatiche e i dubbi,  e mi parla anche attraverso cose piccole e meno piccole, cose che mi capita di vedere, di attraversare, ogni giorno.
Ce ne ho messo di tempo, per capire. Se non vedo succedere delle cose, davanti a me, in fronte al mio naso, non duro. Se non vedo succedere delle cose, ogni giorno, non posso far nulla di quanto pretenderei, non posso fare un passo verso quei cambiamenti che penso necessari. Per quanta dedizione ci metta, non posso. Ho bisogno di veder succedere delle cose, continuamente. Un amico che si fa sentire, una nuova saggia amica che mi scrive, la natura bella, il suono delle campane che dice (come diceva oggi pomeriggio, l’avrei giurato) “siate felici, siate felici!”

“l’entusiasmo della dedizione è imparagonabile all’entusiasmo della bellezza”
 (Luigi Giussani, citato qui)

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