Pensare è un’attività favolosa, senza confronto. Una meraviglia quotidiana a cui siamo fin troppo abituati. Ma bisogna anche utilizzarla bene, questa meraviglia. A volte il pensiero lo uso indebitamente, fuori dal suo ambito. La cosa più incredibile è che non mi accorgo nemmeno di farlo.

Così affondare nei pensieri per risolvere qualcosa è l’errore più grave che posso fare. 

Perché – detto in termini diretti – il pensiero può violentare la realtà. Ecco il grande pericolo. Può fare questo. Disperdere la sua incredibile e multiforme complessità forzandone i tratti dentro uno schema necessariamente povero e precostituito. Povero perché non ammette l’imprevisto, non tollera minimamente di essere sorpreso. Nel suo delirio di onnipotenza (nel nostro), vogliamo tenere in controllo ogni fattore, ogni variabile. Non lasciamo spazio a quello che esce dal nostro quadro.
Può far tutto questo, e a noi sembra niente. Davvero, sembra niente ma è tutto.
Ci pensavo qualche giorno fa, guardando dalla finestrina delle rampa delle scale. Prendiamo un albero. Ecco, sì. Anche quell’albero là, quello là davanti a me. E’ così evidente – se solo mi fermo un poco a guardare, sì a guardare prima di pensare – che il mio modello di realtà è inadeguato. Che pretendo di controllare qualcosa la cui giocosa complessità mi sfugge in ogni direzione. 
Che ne sai tu di un campo di grano? Ma davvero…

Le foglie, i rami. La complessità impressionante che governa tutto questo. Non posso circoscrivere nemmeno con precisione tutte le informazioni che definirebbero una singola foglia. Non dico una foglia in generale (terribile problema della generalizzazione!), intendo una di quelle foglie che sto guardando. Ognuna diversa, unica. 

Ho fatto un piccolo gioco. Ogni piano che scendevo, mi fermavo alla corrispondente finestrina. Guardavo l’albero. Da ogni piano era una prospettiva diversa, ogni finestra apriva su una visione diversa dello stesso oggetto, nel suo rapporto con le cose circostanti.

Una bella lezione.

E io che cerco ancora di cavarmela dicendomi di aver visto un albero. Che drastica semplificazione ho apportato, alla complessità del reale! Così funziona, di solito: io mi faccio velocemente un modello del mondo, nella fretta di iniziare ad intervenire. Ecco che ho già sostituito alla quieta contemplazione, la fretta di raccogliere i dati sufficienti a manipolare il reale.
Il pensiero va bene per costruire, edificare. Se ho un problema scientifico certamente devo ragionare, fare ipotesi, elaborare teorie. Ma stare a ragionare intorno ad una situazione, è totalmente inutile. Peggio, è usare uno strumento inadeguato. Come voler misurare la temperatura con un metro. Vuol dire non rendere omaggio alla complessità mirabolante di quello che esiste, di cui riesco a trattenere solo una piccolissima parte. Tutto il contrario di quello che dovrei fare, di quello che mi farebbe davvero respirare, arrendermi. 
I mistici, i poeti, lo hanno sempre saputo. Shakespeare ha ragione. Vi sono più cose in cielo e in terra che nella nostra filosofia.
Così mi ripeto che non è il metodo giusto, non è la scelta corretta. Se già un albero è così complesso, così intrinsecamente inconoscibile nella sua totalità di esistenza, come sarà ancora più complessa una qualsiasi situazione umana. 
Come sarà complesso, un amore. Un’amicizia, un rapporto.

L’altro giorno passavo in auto vicino ad un piccolo parco urbano. Mi è venuto da pensare, ma anche se io circoscrivessi appena un metro quadro di questo parco, mi mettessi a studiarlo, analizzarlo, misurarlo… potrei mai dire di conoscerlo? Riuscirei a darmi ragione del numero e della posizione dei fili d’erba, del loro colore, del loro modo di muoversi al vento, delle interazioni reciproche? Che ne so di questo metro quadro, in realtà? Che ne so dei rapporti di questo piccolo pezzo di realtà con il resto del reale? Riecheggiando Battisti/Mogol, mi chiedo, ma che ne so io di un campo di grano, veramente?

Eccoci. Di fronte all’albero, di fronte al prato, io allora mi devo arrendere. Devo deporre le armi, le mie pretese razionalistiche occidentali postmoderne di conoscenza aggressiva e invasiva. Non è facile per me, non è facile per niente. Sono troppo abituato ad un sistema di rapporto diverso con la realtà. Un sistema malato, perché genera disagio. Un sistema cui mi sono abituato e mi hanno abituato, certo con le migliori intenzioni. Ci ho messo tanto per capirlo, ma ora mi sembra di essere finalmente sulla strada per iniziare a comprenderlo.

Perché non è facile? Non è facile perché per farlo devo convertirmi ad un alto sistema di rapporti. Non posso farlo dall’interno da un sistema di pensiero aggressivo e ultimamente disperante. Non posso prenderla come una ennesima acquisizione, un’ulteriore annessione. No, devo cambiare io.

Così di fronte ad una difficoltà, ad un problema – quanto può essere più complesso di un albero, di un prato, di una foglia! – Io devo fare lo stesso, mi devo arrendere. Così lascio fare a forze che mi trascendono e possono lavorare al problema molto meglio di me. Ammetto finalmente che non posso reggere il mondo sulle mie spalle, non posso tenerlo su io: ecco le assurde pretese dell’ego! L’ego non ammette niente che lo trascenda, in ultima analisi, e non si fida di nessuno. Bisogna arrivare a scontrarsi con il fallimento del suo modello, per iniziare a vedere una nuova luce.

Questo è veramente un punto decisivo, del mio lavoro personale. Il mio pensiero lavora sul già visto, non ammette la novità. Il mio ego vuole avere tutto sotto controllo, vuole che il mondo vada come dico io.  Non è facile per niente mollare le redini, eppure ad un certo punto diventa necessario. Se voglio guadagnare una pienezza di vita più grande, è realmente necessario.

Perché io, di un campo di grano, non so proprio nulla…

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