C’è sempre da stupirsi, di quanto un’opera di poesia, che sembra (a primo pensiero) quanto di più personale possa esserci, si possa rivelare inaspettatamente corale, posa dispiegare una sua potenzialità relazionale. Che certo all’inizio, non avresti detto.
No, affatto. Tu avresti pensato magari a lasciare questi tuoi versi in un cassetto, in un angolino di un hard disk, di un server di qualche grande azienda, in qualche Silicon Valley molto linda e molto all’avanguardia, dove tu incidi per un pezzettino, un pezzettino appena. Dove ci stanno le tue parole, riposano e respirano.
Poi la strada, sai. La strada. C’è la strada. Fatta di occasioni, di incontri. Quello con Marco Guzzi, intanto. Indubbiamente importante, per i tuoi anni recenti. Tanto che tu, vincendo la timidezza, avresti poi chiesto proprio a lui la prefazione per Imparare a guarire, il volume di poesie. E questa prefazione che c’è, ora c’è, c’è da tempo, ed è bella e solida e impreziosisce davvero queste pagine, le radicano più decisamente in un cammino di possibile guarigione, le restituiscono un accordo armonico di terapia, personale e forse anche un po’ comune. Che è poi quello che desideravi, quello che speravi.
Poi le cose ti sorpassano, e questa in effetti è (sempre) la tua unica speranza, che le cose appunto ti sorpassino, ti sorprendano e ti superino alla grande, e tu con tutte le immagini che hai di te, appesantito da tanti inutili pensieri, ecco, tu stesso rimani indietro. Ma sei felicemente indietro, perché se loro vanno avanti, va bene, lo sai che va bene. Va molto bene. Che diciamocelo pure, ormai è parecchio evidente, è chiaro, certo non sarai salvato per una tua abilità, per qualche tua guittezza, semmai, ma per una sovrabbondanza che arriva gratis (in allegra spudorata violazione di ogni regola di mercato) e che appunto ti sorpassa. E di molto.
Così dopo la lettura di Fabio Fedrigo di una poesia del volume, di cui hai già scritto, ora c’è questo altro regalo, la lettura che fa Pasqualino Casaburi di una particella dell’introduzione di Guzzi, e di alcune tue poesie (bella scelta, mi viene da dire).
Così mi scrive lui stesso,
Un filo sottile unisce le cose e tutte le creature. L’arte poi ha un suo particolare privilegio. Quello di lasciare dove passa una scia invisibile agli occhi, un’ armonia che RI-suona vibrando nel cuore. Quando le passi accanto succede anche questo.
Pur non conoscendo Marco Castellani di persona (e poi, voglio dire, in questo periodo sarebbe stato oltremodo difficile che ciò fosse avvenuto) mi sono incontrato con il suo scrivere, ed è stato un colpo di fulmine. Il gancio è stato la sua vicinanza ai gruppi Darsi Pace, laboratori creati da Marco Guzzi, una persona alla quale mi sento molto legato per le affinità di pensiero.
Dai testi poetici del filosofo e poeta Marco Guzzi è stato appena un passo per ritrovarmi dentro l’atmosfera dei versi di Marco Castellani. Ho apprezzato così il suo lavoro di astrofisico, lo studio della fisica dell’Universo, come territorio infinitamente esplorabile come del resto quello della sua poesia che mi si è presentata davanti un giorno, grazie ad una piccola raccolta dal titolo accattivante, Imparare a guarire.
Ho trovato in quelle parole uno spiccato senso di profondità dell’essere ed allo stesso tempo la semplicità e la gratitudine di esserlo.
Questo mi ha portato a provare a far RI-suonare quelle parole con la mia voce per vedere le emozioni di ritorno.
Dapprima ho fatto e riascoltato gli audio. Poi avendo saputo, tramite Elena, una mia amica di Roma, dell’iniziativa culturale ideata da Happening Cult ho provato anche io a fare un piccolo video con alcune poesie di Marco ed inviarlo alla redazione.
Happening-cult in questo periodo di chiusura in casa ha creato questa vetrina di poeti in erba e non, ma anche di semplici lettori, che prestano la loro voce e diffondono ancora di più la bellezza della poesia.
È stato un’esperienza nuova per me dovermi cimentare con la dizione (le pause soprattutto) ma soprattutto dover citare espressioni e parole che comunque fanno parte di un universo intimo. È per questo che non finirò mai di ringraziare Marco Castellani.
Vorrei correggere il tiro, solo per l’ultima frase, un po’ eccessiva magari. In realtà sono io a ringraziare Pasqualino, per la sua dedizione appassionata a questa piccola opera. Che nella misura in cui è la guarigione nostra, sorpassa e lascia indietro anche ogni valutazione sulla capacità poetica, essendo questi testi “a servizio” per un cammino.
Così che anche in questi periodi di chiusura, la realtà ti viene a trovare e ti stimola, ti porta ad una apertura inattesa. A uscire dalle tue private lamentazioni, e tornare a fare i conti con il noi. L’opera della guarigione è comune, è sociale, è politica.
Capita che una poesia, nel tempo, si scavi un suo sentiero. Si provi a vivere anche in altre forme, esplori altre modalità comunicative. Capita che una poesia sia così, rappresenti una occasione di relazione e dialogo, un pretesto per stabilire ponti, rinsaldare connessioni. Esplorarne di nuove, anche.
La poesia che si è data da fare, che si è scavata il suo sentiero, è stata Adesso, che compare nel volume Imparare a guarire (Di Felice Edizioni, 2018).
Un amico, è stato il tramite. Perché le cose vanno in questo modo, corrono lungo il filo di amicizie, su binari invisibili e forti, di reciproca stima. Usano questi canali, questi ponti meravigliosi e lucenti tra le nostre interiorità. Quelle nostre parti interne così spesso avvertite come chiuse, come ambienti senza finestre, senza comunicazione.
Il pensiero creativo è fatto così, è relazionale, direi coniugale per eccellenza. Tende sempre a mettere insieme, mai ad isolare. A far baciare le cose tra loro, non a metterle di schiena. Parlo di creatività e non specificamente di arte, per riposare su un termine che non spaventa (o spaventa di meno), e perché non mi sto riferendo tanto al risultato quanto alla attitudine.
Porsi in attitudine creativa è come iniziare a cucire. A cucire dei ponti. Primo, tra le parti interne di me stesso, lenendo ed unificando, ammorbidendo le asprezze, realizzando connessioni tra l’inconscio e la parte razionale, tra le varie parti di me che normalmente non vogliono parlarsi, non desiderano veramente coniugarsi, appunto, e ordinariamente si voltano di schiena. Secondo, tra me e gli altri. Ma è un movimento inevitabile: nella misura in cui sono più unificato, mi relaziono più naturalmente con l’altro, lo vedo meglio, e mi faccio vedere allo stesso tempo, in modo più autentico. Sono un pelo più tranquillo, abbasso le difese, permetto all’altro di entrare in me (se lo desidera), lasciando uno spazio più largo di accoglienza. E’ come dire, vieni, non ti verrà fatto del male. Frase che ci fa sempre bene ascoltare, che fa bene al cuore, alla pelle, al sorriso, agli organi interni. Rimette a posto un sacco di cose, dentro e fuori di noi. E lo fa (appunto) adesso, lo fa nel momento presente, nell’attimo preziosissimo che stiamo vivendo.
Fabio Fedrigo, che ho sempre ammirato moltissimo per la sua abilità con cui “interpreta” alcuni testi del poeta e filosofo Marco Guzzi, si è reso disponibile a questa avventura. Di Fabio, mi rapiscono totalmente le sue letture, della poesia L’ora della ricreazione, ad esempio. Ma soprattutto, quella. Se c’è una poesia dove sento l’interpretazione di Fabio come parte integrante del processo creativo, come componente imprescindibile della riuscita, è certamente L’ultima lezione. Estrae dal testo, ogni significato più nascosto, lo porta in evidenza in modo brillante, perentorio. Così perentorio che mi lascia senza fiato, alla fine. Il suo lavoro di scavo nelle parole mi arriva, come un dono.
Questa ampiezza timbrica ed espressiva di Fabio la sento presente anche nella mia piccola poesia. Aggiunge quel qualcosa che già legittima, a mio avviso, il passaggio della poesia dal testo al video, al multimediale. Non è più solo mia (se mai lo fosse stata), ormai è frutto di una collaborazione, è un’opera comune.
Un’altra amica, Antonietta Valentini, si è resa disponibile e ha messo a servizio la sua perizia nella gestione e montaggio video, accostando in modo elegante la voce di Fabio ad alcune immagini che ho scattato nel parco sotto casa, in tempi diversi.
Vi risparmio considerazioni riguardo il significato della poesia. Mi appare supponente ogni atteggiamento che voglia indirizzare la comprensione della propria (piccola, piccola) opera, privando così il fruitore di una libertà essenziale – quella dell’interpretazione personale – attraverso la quale partecipa come protagonista nella dinamica del processo creativo.
E’ uscito venerdì scorso (per ora soltanto in formato ebook) il nuovo libro di Julián Carrón, Il risveglio dell’umano (BUR Rizzoli). Il testo è una conversazione del teologo spagnolo con il giornalista Alberto Savorana. A tema, come ci si potrebbe attendere, la presente emergenza sanitaria e le sfide che questa comporta nelle vite personali di ognuno.
Una lettura semplice (ma non banale) che finalmente, al di là delle cifre sui guariti e sui deceduti che ci viene fornita quotidianamente con precisione esasperante, aiuta nel cammino di trovare un senso a quello che sta accadendo. Cosa ancora più importante, un senso personale. Un significato non “precotto” o fornito intellettualmente, peraltro.
E’ piuttosto un significato che richiede, in ogni persona che accolga la sfida, una postura attiva e non meramente recettiva. In accordo con la “scuola” dell’Autore (che è alla guida del movimento ecclesiale di Comunione e Liberazione), infatti, il libro è un invito gentile a mettersi all’opera, a mettersi al lavoro nel cammino di scoperta di come questo periodo apparentemente “sospeso” possa essere usato per incamminarsi con più decisione verso la verità di sé.
Niente astratte dottrine, niente regole disincarnate, ma l’attenzione cordiale verso testimoni di una possibile pienezza, verso ogni “segnaletica” di un modo più vero di stare nel reale. Un testo che procede in un dialogo fitto e costante con quanto è stato detto e scritto sulla presente emergenza relativa al Coronavirus (al proposito si apprezza decisamente non solo l’ampiezza ma anche la freschezza dei riferimenti proposti, alcuni così recenti da arrivare alla data del 5 aprile di quest’anno).
L’uomo che si risveglia, si comprende dalla lettura, è l’uomo che riscopre, o meglio ricostruisce con questo lavoro di cesello quotidiano, la propria identità. E torna bene una frase che estrapolo dal libro di Marco Guzzi, Dizionario della lingua inaudita, laddove egli avverte che
Dobbiamo ricostruire la nostra identità, capire chi siamo in quanto occidentali, europei, cristiani e nichilisti. E per fare questo dobbiamo confrontarci, anche solo culturalmente e a prescindere da qualunque adesione di fede, con la novità assoluta della rivelazione cristiana, su ciò che fa dell’evento di Cristo l’inizio di una storia nuova sul pianeta.
Non è un libro che cambia la vita, questo di Carrón: è un libro che semmai aiuta a porsi in una strada per cui la vita può cambiare. O meglio, può cambiare la percezione che ne abbiamo, rinegoziando nel profondo le cose che crediamo di sapere. Ed anche – ed è forse il suo valore più denso – può aiutare a scoprire una utilità anche in questo periodo apparentemente “sospeso”.
Per tutti, non solo per chi lotta in corsia, ma anche per chi deve “semplicemente” rimanere in casa.
Devo ammettere che all’inizio ero anche un poco perplesso, approcciandomi al volume “La vitaèl’opera“, una autobiografia di Marco Guzzi, ideatore deigruppi Darsi Pace(con i quali lo scrivente entrò in contatto ormaidiversi anni fa). Essendo dichiarata come autobiografia, il timore di una operazione con una certa dose di connotazione narcisistica, devo dirlo, mi è inizialmente affiorato alla mente.
Abbiate pazienza, con me. Non avevo ancora capito (e qui mi permetto un gigantescospoiler) che avevo tra le mani uno dei pochi libri che si possono davvero leggere, adesso.
La faccenda, se vogliamo dirla tutta, è che il sottotitolo – come capisce ogni lettore dopo aver voltato anche un modesto numero di pagine – è fondamentalmenteuna balla.
Sì care Paoline, stavolta avete barato: giunti al ventunesimo volume dellagustosissima collezione Crocevia(le cui variopinte copertine formano adessouna allegra adunanza di colori, nello scaffale), chissà come mai, ma l’avete fatta sporca. Il sottotitolo,una biografiaè chiaramente una deviazione dalla verità, non ci sono scuse.
Unafelice deviazione, dovrei aggiungere a questo punto. Una sperticata sottovalutazione, nel complesso.
Perché è ben di più di una biografia, ed al contempo (come vi dicevo poco fa) è l’unico modo possibile,adesso, per ragionare su alcuni temi importanti, mantenendo alto l’interesse di chi legge.
Perché l’autobiografia è così avvincente, adesso? Perché proprio adesso, in questi tempi estremi, abbiamo bisogno ditestimoni, non appena di incontrare verità disincarnate. Il fatto che tutto l’argomentare sia innestato su una vita reale, che sia non appena proclamato mavissuto, rende le cose più vere, le rende potenzialmente vivibili anche per noi. Le rende esattamente, unaproposta per noi.
Quello che disse Luigi Giussanigià negli anni Novantaparlando ad un gruppo di responsabili del suo movimento, risuona oggi di una attualità quasi sconcertante,«Il grande problema del mondo di oggi non è più una teorizzazione interrogativa, ma una domanda esistenziale. Non: “Chi ha ragione?”, ma: “Come si fa a vivere?”».
La cosa stupefacente, per me, è capire come questa frase oggi, proprio in questi giorni, si possa prendere alla lettera, anzi che lo si possa faresoprattutto oggi: sì oggi, barricati in rifugi domestici per il virus, chiusi in ambienti fisici (e spesso mentali) ristretti, desiderosi quanto mai di unafinestra di apertura, di unpunto di fugache però non sia una diversione sterile, ma sia piuttosto un radicamento, forte, in cose che contano, inpoche grandi cose(per dirla ancora con Giussani). Ma per carità, in un modo vivo e fresco, di nuovo finalmente vivibile, gustabile, direi quasi spalmabile sulla pelle. Respirabile, se volete. Insomma, molto concreto.
In fondo è la rassicurazione robusta e lieta, delsi può vivere cosìche ci serve, in questo periodo. Non ci serve veramente altro. Dice Guzzi in un altro testo (e lui sa che mi piace da matti), che noi esseri umani“non abbiamo bisogno di molto altro, ma solo di infinita consolazione”(per il dettaglio, si trova adesso all’apertura del volume“Facebook, il profilo dell’Uomo di Dio”). Ed allora, facciamola corta. Basta con i discorsi. Solo di questo abbiamo bisogno.Infinita consolazione.Di verità disincarnate ed astratte, di speculazioni intorno aimassimi sistemidavvero non sappiamo più cosa farne.
Non sappiamo che farne perché non ci sono utili, non ci aiutano più, perché ormai la nostra coscienza moderna, la nostra potenziale consapevolezza – ci piaccia o no – èoltrel’asfittica disamina di torti e ragioni, di istruzioni per l’uso della vita che non abbiano sangue e carne, dentro. E’ inevitabilmente, storicamente oltre, e nessun ritorno indietro è più tollerabile. Soprattutto ora, che siamo stanchi di giochetti dialettici, che i giochetti dialettici sono fragorosamente saltati in aria, spazzati via finalmente, da questa infausta ed inattesa emergenza sanitaria.
E per inciso, sedopo, si tornasse come nulla fosse, alla contrapposizione dualistica di torti e ragioni, al combattimento fragoroso ed inutile delle mille opinioni, rimbalzate da un pagina di giornale ai social e viceversa, beh avremmo davvero perso una occasione.Che è presente, senz’altro presente, pur in mezzo a tanta sofferenza.
Che poi se vogliamo, non c’è che da riscoprirla questa verità, in fondo non c’è da inventarsi nulla.
Perché questo è anche il centro del messaggio cristiano, come evidenziato nel libro:nessuna verità disincarnata, la verità è una Persona.Lo ripetiamo da millenni, ma forse non l’abbiamo ancora ben capito, nel complesso. Meglio, non abbiamo assaporato tutta la aerea, sconfinata benefica larghezza ed inedita spaziosità di questa posizione, sempre nuova. Ma addentrandosi nel testo, questo si può anche non capire chiaramente, o non capire subito, e il fascino ti raggiunge ugualmente. Non ci sono ulteriori concetti da mandare a memoria, ci sono – Deo gratias! – cose che accadono.
Non è appenachi ha ragioneche ci interessa, macome si fa a vivere, perché la faccenda è questa, nel periodo presente, ogni sistema astratto che ci appagava tanto (in apparenza), è semplicemente saltato. Così è un aggancio biografico che appena ci può interessare, adesso. Così questo libro – e certamente altri, sullo stesso registro – oggi ci interessa particolarmente. O meglio, solo questo tipo di libri oggi si può realmente leggere, come saggio.
Certo ci sono i romanzi, un buon romanzo attraversa i tempi ed è fruibile in ogni situazione. Ma come saggio, ecco, siamo qui,questo è ciò che è possibile leggere. Nessuna trattazione formale oggi regge. Questa sì, perché una vita è lo specchio di mille vite, ogni vita è una proposta alla nostra vita.
Un libro esattamente per questi tempi, dunque. Sono tempi estremi, in cui solo una verità incarnata, una verità vivente, una verità non di concetti, ma disangue circolante, ci può prendere.
Perché adesso ogni ulteriore diversione, deviazione, è semplicemente intollerabile. E allora si attraversano i temi eterni della cultura, della fede, della tecnica e dello sviluppo dell’uomo, della felicità e della politica, del matrimonio e della sessualità, della psicologia e del rinnovamento nella Chiesa, della morte e della creatività ma in modo ancora possibile, in modo ancora felicemente, carnale.
Ed è un piccolo ma robustoinno alla gioiaquello che ne deriva, capace di ristorare e rincuorare il lettore smarrito di fronte agli eventi, donando un senso e una direzione, ragionevoli e (nonostante tutto) gioiosi, perché alla fine – fatemi dire così – non si tratta della vita di un tizio, che puoi conoscere o meno, puoi aver incontrato o meno. Non si tratta di essere esposti ad altre nozioni, a dotte speculazioni, riguardo la biografia diMarco Guzzi, riguardo igruppi Darsi Pace, riguardo a questo o quello. Non sono ennesimi appigli perché tu “ti faccia un’idea”, metta un’etichetta alla cosa e passi avanti.
No, ed è questo il bello. Alla fine capisci chesi tratta della tua vita,e l’abilità semplice e potente di chi intervista (Francesco Marabotti) e chi racconta semmai, è sul rimanere ancorati a cose concrete di una vita,che scopri con piacere che riguardano direttamente la tua, di vita.
Così scrive don Julian Carronnella bella lettera pubblicata sul Corriere di oggi.
“Dio non ha vergogna di noi, della nostra fragilità, delle nostre ferite, del nostro essere sballottati da tutte le parti”
Un Dio così è veramente interessante, è veramente “amabile”. Vale la pena, mi dico, lavorare per togliere dalla mente le altre immagini di Dio e tutte le paure, lasciando entrare questa, risanante e tranquillizzante.
Lasciando che questa “nasca” in noi, trovi dimora, riparo.
Una immagine di Dio che ci può fare compagnia, che se impariamo a fare nostra, a farla entrare dentro di noi, può aiutarci e sostenerci. Nella vita normale, intendo. Ci vuole qualcosa proprio per la vita normale, la vita che viviamo fuori dalle festività. Ci vuole una ripartenza, una diversa esistenza, proprio per quello. Ci vuole un mondo nuovo, esattamente per il mondo ordinario. Mentre camminiamo, ci fermiamo, mangiamo, leggiamo, mentre siamo in un negozio, in un bar, mentre scorre la vita, ecco, ci vuole l’idea di una prospettiva diversa, fragrante, morbida. Su cui fermarsi a pensare e a volte, anche, fermarsi per gioire.
Gioire da fermi, pensando. Pensare in modo morbido e aperto, se da qualche parte c’è una gioia, diventa in qualche modo possibile, ritorna possibile in diversi modi, per l’alba di diversi mondi. Di pianeti che sono lo stesso nostro pianeta ma diversi, anche, e dove c’è vita ma più vita di qui, anche se siamo qui.
Ci vuole un’altra vita, come cantava Franco Battiato tanti anni fa. E così si dicono Anita e la sua mamma, questi giorni, sotto un cielo di stelle di puntini piccoli piccoli luminosi invadenti impertinenti. Lievemente, giocosi.
Lo sappiamo che ci vuole un’altra vita, lo sentiamo tutti che questa, per molti versi, ci sta stretta. Il fatto è che niente, a volte non lo riteniamo possibile. E questo c’entra con le immagini del divino, secondo me, c’entra parecchio, ci si professi credenti o no. Insomma una immagine così di un Dio amico e vicino e che “non ha vergogna” fa piazza pulita di tante incrostazioni mentali, e ci fa ripartire.
Certo la mente è quello che è e le incrostazioni mentali tornano, amano tornare, a volte si trova una via luminosa e viene voglia di dire ma ecco è così! Ci siamo, ci siamo è così! e la vita ordinaria aspetta e vuole riprenderci nelle sue dinamiche e così i pensieri, nei soliti collaudati e un po’ esauriti pensieri.
Ecco perché penso che queste buone notizie sono, possono essere, l’inizio (o la ripresa) di un lavoro, su di sé, e quindi ipso facto sul mondo, sul cosmo (fin fino alle lontane stelle,sì). Ci si può applicare, siamo lavorabili dice il poeta e filosofo Marco Guzzi, e il fatto che siamo lavorabili è una gran buona notizia, una notizia che spesso ci dimentichiamo. Il lavoro ha alti e bassi e siamo spesso “sballottati da tutte le parti” (almeno io, lo sono), e il fatto che c’è Chi non ha vergogna di questo, ci aiuta e ci intriga,ci incolla di più in questo lavoro, della vita.
Come passa il tempo! E non potrebbe iniziare in modo differente questo post. Ora che Gmail ha appena compiuto il suo quindicesimo anno, mi viene da ripensare ai primi momenti di vita, al suo esordio. Che io ho praticamente vissuto, insieme con lei.
Ricordo bene l’entusiasmo dell’inizio, di quando Gmail stava aprendo progressivamente al pubblico, e veniva distribuito ad inviti. Ogni iscritto aveva a disposizione, mi pare, appena una decina di inviti. Mi è stato detto che venivano anche messi in vendita su Ebay. La gente aveva davvero voglia di provare qualcosa di nuovo, per la posta elettronica. Si era nel 2004, ma già quel senso di novità premeva. Il protocollo email del resto è una delle cose più antiche che abbiamo nel campo delle comunicazioni telematiche, che resiste splendidamente anche a coraggiosi (e defunti) tentativi di innovazione.
E quella trovata dello spazio disponibile, che aumentava piano piano? Una cosa in completo stile Google, ovvero con quell’idea di divertimento che aleggia anche su progetti su cui si punta molto. Ma era così. C’era un contatore, nella propria area email, che segnava momento per momento l’ammontare di spazio di archiviazione a cui si era arrivati. Tutto cominciò, come sappiamo, da 1 gigabyte, che a suo tempo sembrava uno spazio assolutamente immenso. A quel tempo, gli account gratuiti offrivano ambienti di qualche decina di megabyte, più o meno. Un gigabyte sembrava una cosa del tutto impossibile da riempire, nemmeno in una vita. Sappiamo bene che non è così, soprattutto al giorno d’oggi e con l’aumentare dei contenuti multimediali trasmessi anche via email; a quel tempo, la situazione era davvero diversa.
E fu il mio inizio. Senza troppo sperarci, chiesi su un forum un invito a chi ne aveva disponibili, e mi arrivò (gratis, grazie al cielo). Così registrai subito il mio account m.castellani e iniziai, iniziai questa avventura. Da allora non sono più sceso da gmail, mi trovo bene e apprezzo molto le sue qualità. E’ il sistema di posta elettronica, per me.
Tanto più vero, da quando anche il mio istituto si è affidato a Google per la gestione della posta, e dunque anche i mail di lavoro li leggo sempre con la interfaccia Gmail (che uso da anni tramite l’ottimo e robusto MailPlane, che mi libera dal dover usare il browser per leggere i messaggi di posta, regalandomi la flessibilità e l’indipendenza di un programma dedicato).
Così Gmail ha assorbito integralmente le mie modalità di fruizione della posta elettronica; nel tempo, ha lavorato sui fianchi tutte le altre soluzioni e le altre possibilità. E’ rimasta solo lei. Fino a che qualcuno oserà di nuovo, proporrà una visione più ampia, farà il prossimo passo avanti.
Ma ora, accantonata anche la parte più biografica, vorrei concludere con un piccolo pensiero, giusto per provare ad allargare lo sguardo.
Gmail è stato coraggioso fin dal suo sorgere. Innovativo in una grande quantità di modi, ha mostrato nel 2004 che su Internet c’era ancora posto per la creatività e per una sana innovazione. Ha costretto molte persone a ridefinire l’idea della posta elettronica, traghettandola definitivamente nel nuovo millennio.
Adesso il rischio è perdere questa spinta, lasciarla svaporare, acquietarsi su una rete che appare propagazione irriflessiva dello status quo e specchio troppo fedele dell’onnipresenza della pubblicità, unica entità veramente indiscutibile in un modo telematico, un tempo felicemente disordinato ed anarchico, ora troppo dominato da logiche commerciali. Una rete che – di conseguenza – è più che mai, alla ricerca di un senso.
C’è bisogno di rischiare qualcosa di nuovo, sulla rete. Rischiarla in nuova progettualità, delle aziende, delle associazioni, dei singoli. Perché a volte questo (ragionevole) rischio, paga.
Il significato che trasporta è dirompente, scardina ogni logica a cui il mio sistema di pensiero si è abituato. Questa frase presa sul serio, forse solo questa (o qualche frase che comunque esprima lo stesso equivalente concetto), può bucare la retorica dei discorsi d’occasione, solo il rilancio di questo perpetuo scandalo di ogni porzione benpensante in noi, questa ingiustizia bellissima. Questo svincolo soave dall’ansia di prestazione, dalle logiche di marcato, dal dare per avere. Avere gratis, furfanti come siamo. Questo è veramente qualcosa che interessa, che ancora desta curiosità.
Nella radicale delicatezza di una promessa di amore, si salvano le sfumature…
Avverte Don Giussani, nella frase che è stata posta nel volantone di Pasqua di quest’anno, che io resto quel povero cristo che sono, ma con Cristo sono certo, ricco.
Se ascolto il mio cuore, sento che è il suo desiderio più grande, più bello e più grande: essere amato senza condizioni. Le cinque parole più belle del mondo. Fatemi una frase più bella di così. Se ci riuscite. Io non riesco. Riprendo la poesia di Marco, perché mi fa respirare, e mi allargo, espando e riprendo le parole antecedenti, anteriori di quella bellissima frase…
“… posso amarlo senza paura, abbandonarmi a Lui, alla Vita, con tutto il cuore colmo di speranza, perché Lui mi ama senza condizioni.”
Questo è estremamente liberante, a pensarci già zampilla un inizio di gioia, già zampilla una nascosta Pasqua, può zampillare perfino tra le pieghe dolorose di un Venerdì Santo, dei tanti venerdì santi della mia inadeguatezza congenita ( e santa, in qualche modo, perché amata). Già c’è, lo sento. Perbacco! Essere amati senza condizioni è la buona novella, la più buona novella immaginabile. L’unica buona novella che ancora possa sorprenderci, l’unica buona novella in assoluto. L’unica novità perpetuamente più moderna del nostro sentirci moderni.
Ormai non abbiamo voglia di sentirci dire null’altro. Meno che mai ammonimenti morali. Ma per carità!
Non abbiamo che voglia di persone (qualsiasi cosa credano) che ci ricordano – prima ancora che con le parole, con il volto – la scommessa più alta in gioco, qui ed ora: la scommessa di un amore eterno e invincibile, inarrestabile ed immutabile.
Questo mette in salvo la mia vita, se ci credo, ammorbidisce le asperità, quando ci credo, e mi apre sempre, quando mi affido, un riposo di mille sfumature tutte da esplorare, da guardare, da accogliere.
Che importa, mio Gesù, se cado ogni istante, in questo modo vedo la mia fragilità ed è per me un grande guadagno… Voi, in questo modo, vedete ciò che posso fare e sarete così più tentato di prendermi in braccio.
Essere presi in braccio. Essere amati, sempre e comunque.
Custodisco questo pensiero, provo a giocarci un attimo, a nutrirmene.
No no attento, una parte di me dice no, c’è il trucco, si pretenderà pur qualcosa. Devo essere all’altezza, devo cambiare.
E’ dura questa parte, è incattivita e rabbiosa. Va bene, la lascio essere, non devo essere cattivo con lei, chissà cosa ha sofferto. Che poi lo so, cosa ha sofferto, cosa ho sofferto. Decenni di separazione, di angoscia, di richiesta disperata d’amore, in me. Il vuoto addosso, e un grido d’amore, perfavore amami, ti prego, perfavore salvami.
Decenni, in me. Millenni, dietro di me, ancora dentro di me.
Va bene, ci lavoriamo. Dovrò amare anche il mio bisogno d’amore. O piuttosto, lo dovrà amare Lui, io non posso. Non riesco, non capisco.
Capisco che Lui può, è la prova gustosa dell’Onnipotenza. Che bello che Lui possa, amare ciò che io non riesco. Dà gusto. Così io intanto riposo, avendo affidato a Lui il compito di amarmi.
Certo. C’è tutto un lavoro che dovrò fare, che devo fare, di emersione dalla paura, di guarigione. Per capire, per lasciarmi insegnare, per lasciarmi guidare dai maestri, per ambientarmi, mettere casa nell’idea che niente, che non c’è da aver paura, non c’è troppo da aver paura. Ma capirlo con delicatezza, con limpida precisione. Già e non ancora, esattamente.
Riprendo il pensiero, lo guardo, come un dono.
Davvero, senza condizioni? Ma come può esserci qualcosa più bello, più bello di così? Quel senza condizioni allora è un proiettile, è un moto di rivoluzione (personale e sociale), è una alleanza mistica di parole, è un soffio, un’idea pazza, santamente pazza, che sgretola millenni di sensi di colpa e inadeguatezza. Ogni volta, ogni giorno, li sgretola di nuovo.
Se lui mi ama senza condizioni, quando io lo sento, io sono il furfante, il brigante più leggero di tutti: il più contento.
Davvero interessante la prima puntata del 2019 di Eta Beta, la trasmissione di Radio 1 condotta da Massimo Cerofolini, sull‘ambigua spiritualità del web. Con Massimo, erano in dialogo Marco Guzzi (filosofo, fondatore dei gruppi di ricerca interiore Darsi Pace), Vito Mancuso (teologo, autore del libro La via della bellezza) e Paolo Benanti (docente di Etica delle tecnologie all’Università Gregoriana e autore di Realtà sintetica. Dall’aspirina alla vita: come ricreare il mondo?).
Difficile, farne un resoconto. Anzi, improponibile. D’altronde, con ospiti di questa natura si crea invariabilmente una rete di connessioni e di ramificazioni di pensiero, tali che una semplice puntata di una ventina di minuti è sufficiente appena ad aprire delle piste, a suggerire degli approfondimenti, e non certo a ragionare esaustivamente sul tema – peraltro di per sé stesso davvero importante e complesso, anche profondamente controverso.
Dunque il rimando all’ascolto attento della puntata è tutt’altro che di prammatica, ma risulta fondamentale, proprio per sviluppare autonomamente quelle parti che risultano più risonanti, nelle proprie corde interiori.
Personalmente, mi ha colpito molto il comprendere come anche la fede cambia con l’avvento del digitale: non è mai da intendere come un universo a sé stante (e come potrebbe, del resto?) ma riflette e riverbera ogni impulso, ogni segnale che attraversa il mondo “secolare”. La spiritualità autentica è sempre in dialogo con il mondo, e non è impermeabile nemmeno a quelle acquisizioni della tecnica che rimodulano potentemente il nostro approccio con il reale (e va da sé che Internet e l’avvento dei social network è proprio una di queste).
Importante notare come questa riflessione avvenga in un momento della storia in cui l’entusiasmo incondizionato per le possibilità e la “virtuosità” della rete mondiale – rispetto a ad alcuni anni fa – è drasticamente calato, tanto che tra i propositi del nuovo anno, può starci (e ormai nessuno si meraviglia) quello di “usare meno Internet”, come recita un articolo pubblicato su Internazionale.
Ma il ventaglio di proposte (perché le intenderei esattamente così, come proposte lasciate al libero approfondimento) della puntata è assai vasto. Penso ora a certi temi sollevati da Guzzi, penso all’irriducibilità della coscienza umana ad una macchina digitale, ad esempio. Se la macchina non sostituisce il cervello, e non lo farà mai, resta aperta la questione della incommensurabilità del nostro sistema della coscienza rispetto a qualsiasi interpretazione meccanicistica. Rimane tutta viva la nostra misteriosa, splendida singolarità. E sempre da questo intervento, trovo suggestivo la lucida constatazione che i cosiddetti big data non risolvano o mitighino questo “problema della coscienza”, ma semmai lo rilancino, a nuovi emozionanti livelli.
Evidente, come ricorda Guzzi, che le tecnologie siano del tutto “neutrali”, né negative né salvifiche. E’ un pensiero errato quello che porta ad esprimersi diversamente, a demonizzare Facebook oppure ad incensarlo. La verità – dice sempre Guzzi – è che ci vuole una formazione, per usare questi strumenti evoluti.
L’esposizione di Vito Mancuso si gioca, mi pare, su di un registro più critico riguardo sull’impatto di queste tecnologie sulla vita reale. Bello e validissimo in ogni caso il richiamo di Mancuso al fatto che la bellezza è creativa, e non può essere digitale o automatica, in nessun modo. Suggestivo anche il suo connettersi alla imperfezione analogica come via perpetua di bellezza e dunque di fascinazione (sto leggendo il suo libro sulla bellezza, ma sono ancora un po’ all’inizio, abbiate pazienza).
Sul cambio di paradigma in rapporto alla spiritualità si sofferma debitamente Paolo Benanti, per il quale il digitale cambia proprio il modo di vedere la realtà. Riformulando perfino categorie come “salvezza” o “giustificazione”, un tempo prerogativa dell’approccio spirituale alla vita. E non solo, perché la fede si viene a modificare con il cambiamento stesso della relazione di natura “credente” che ora viene influenzato in maniera tutt’altro che trascurabile dal web e dall’uso che ne facciamo per “recuperare” informazioni e orientamento nel mondo.
Vorrei però terminare riprendendo quanto dice Marco: Internet è uno strumento formidabile di connessione tra gli umani, uno strumento in sé assolutamente neutrale. Dovremmo guardarci allo specchio, e capire che la stupidità di Facebook è il riflesso di un nostro modo “stupido” o istintivo di agire, di manifestare delle parti di noi che ancora attendono di essere guarite. Un modo che possiamo correggere, con pazienza, lavorando su noi stessi.
In sintesi, ci vuole realmente una educazione e formazione all’uso del mondo digitale. Proprio per la sua importanza, e proprio nella coscienza che siamo in una epoca di modificazione accelerata di sistemi di pensiero e di credenze che hanno resistito per secoli, sostanzialmente uguali a sé stessi.
Dobbiamo mettere a tema argomenti che rischiano di passare sottotraccia come scontati, sui quali invece la riflessione è più che mai necessaria. Proprio per la consapevolezza che vogliamo acquisire nell’uso della tecnica, perché dispieghi il suo carattere creativo (tecnè vuol appunto dire arte, in greco). Sempre di più, a vantaggio di una umanità davvero “nuova”, anche nell’uso di questi strumenti.