Blog di Marco Castellani

Categoria: Jannacci

Il telegrafista ed il meeting…

Quello che emotivamente mi colpisce, mi muove subito qualcosa, è l’accenno alla canzone Giovanni Telegrafista che è presente in due begli articoli sull’imminente Meeting di Rimini, una intervista a Giorgio Vittadini del 17 agosto e un suo pezzo apparso il giorno successivo, cioè oggi (entrambi su Il Sussidiario).
Del Meeting  – dirò subito – se ne parla in moltissimi posti, dunque è forse inutile aggiungere altre parole se non, forse, scegliendo una tonalità emotiva, affettiva, che allacci questa manifestazione con la storia di chi scrive, in una sorta di intreccio “virtuoso” per cui la storia interna e personale illumina quella esterna e sociale – come quella di una manifestazione così grande – e viceversa. 
Ecco perché articolo questo pezzo sul Meeting a partire da una osservazione apparentemente marginale,  come il rimando alla canzone di Jannacci. Non penso sia tanto marginale per Vittadini, che appunto la ripropone a breve distanza in due occasioni (trattasi a mio avviso di una celeste ripetizione, che rallegra, come certi passaggi nella musica di Bruckner). 
E’ un messaggio, mi dico, è un punto importante, per lui. Cerco di capire, allora. Ritorno alla canzone, al testo, alla musica. E’ una canzone in cui l’urgenza del cuore, quella incredibile nostalgia che abbiamo tutti in fondo al cuore – che quando affiora ci stordisce, ci confonde, quanto è potente – quella urgenza viene esplicitata, cantata, senza finzioni. Vien minuziosamente descritta, con la poesia malinconica ma efficacissima che solo uno come Jannacci poteva avere, e con una meravigliosa sintesi. 
Giovanni telegrafista e nulla più… urgente.
Mi conforta proprio tanto questo accenno, questo ripetuto rimando ad un brano dove il grido del cuore è così scoperto, così “indifeso” e non si nasconde, come avviene in troppi discorsi, troppe volte. Mi conforta sul fatto che il Meeting, che ho visitato varie volte e Deo concedente vedrò anche in questa occasione, non è – prima di tutto – una questione di politica o economia o cultura, in senso astratto, o nemmeno di religione: è essenzialmente una questione di cuore.
Mi conforta, dicevo, perché più vado avanti nella vita, più le altre cose, gli altri temi, non mi interessano. O meglio, mi interessano nella misura in cui dialogano con questo cuore lacerato, scoperto, che è sempre il cuore dell’uomo. Chi non dialoga con questo cuore, di qualsiasi cosa parli, sia un laico o un prete o un presidente del consiglio, è un mentitore. Nella misura in cui non dialoga con il cuore, lui mente, disperde parole inutili, non aiuta, non conforta. 
Il grido del cuore di Giovanni (il telegrafista) l’ho sentito già molti molti anni fa, da piccolino. Mio papà non ascoltava molta musica “leggera”, ma aveva una predilezione speciale per due cantautori: Fabrizio De Andrè (quante volte l’ho visto ascoltare quasi religiosamente  il disco La Buona Novella) ed Enzo Jannacci. Ho imparato a rispettare questi due artisti, tramite il rispetto che aveva per loro mio padre, che assorbivo da lui. 
Mio papà aveva questo 45 giri (di tonalità verdina ricordo, nella zona interna ai solchi), con due canzoni, come consuetudine per questi piccoli dischetti, uno per lato: Vengo anch’io da una parte, e appunto Giovanni Telegrafista sul lato opposto. La prima la conoscono quasi tutti, è una canzone orecchiabile e svelta, piena dell’umorismo più solare di Jannacci, una canzone che anche a me bambino divertiva moltissimo. Chissà, forse è per questo che il disco era finito nella mia collezione, che per lo più era composta dai dischi delle Fiabe Sonore, quella bellissima collezione che ascoltavo e riascoltavo, nel mio mangiadischi di colore rosso (con una striscia bianca nella parte anteriore). 
Se Vengo anch’io scorreva così, con questa deliziosa e irriverente leggerezza, il lato opposto era sorprendentemente diverso. La canzone Giovanni Telegrafista si percepiva da subito, aveva una nota dolente, uno struggimento così ben trasmesso dalla voce di Enzo. A ripensarci mi viene la pelle d’oca, anche senza riascoltarla. 

Giovanni telegrafista e nulla più,
stazioncina povera c’erano piu’ alberi e uccelli che persone
ma aveva il cuore urgente anche senza nessuna promozione
battendo, battendo su un tasto solo…

Non capivo quasi niente, non comprendevo la storia raccontata (e forse non mi sforzavo nemmeno di farlo, a quell’età), ma questo senso di struggimento così profondo, quello mi arrivava comunque al cuore, mi parlava anche senza la comprensione del messaggio verbale, anche assai prima della sua piena fruizione. L’intreccio della voce di Enzo e della musica, compiva questo miracolo di comunicazione. Sento che ancora lo compie, a distanza di molti molti anni. 
Questo struggimento, ora mi accorgo, non è un’emozione fine a sé stessa, non è inutile. Perché parla del primato del cuore, dell’irriducibilità dell’esigenza di essere felici, di essere compiuti, oltre ogni accadimento esterno. Nelle comunicazioni di Giovanni infatti passano le cose del mondo,  “passò prezzo caffé passò matrimonio Edoardo VIII  oggi duca di Windsor, passarono cavallette in Cina,  passò sensazione di una bomba volante…” ma quello che lo colpisce, che lo inchioda che lo fulmina, è la notizia di Alba, della “sua” Alba. Quello che si intravede come compimento del cuore vince su tutto, sorpassa ogni cosa, se solo siamo sinceri con noi stessi.
Riconoscere questo, è a volte doloroso, ma liberante. Il cuore non è un accidente scomodo, da mettere da parte al più presto, è una risorsa da conoscere, da riconoscere. E’ il punto sacro che ci rende umani. 
Come ha detto Juliàn Carron ai partecipanti alla Macerata-Loreto, quest’anno, 

 “noi siamo sete di vita e non ci accontentiamo finché non troviamo ciò che la sazia. Possiamo fare di tutto per mettere a tacere il cuore, possiamo perfino pensare di essere sbagliati non essendo mai soddisfatti da quello che troviamo, e invece questo è proprio il segno della nostra grandezza.”

Ecco, questo cuore così pulsante nella canzone di Jannacci, questo cuore riconosciuto e da riconoscere, sempre e di nuovo, è al centro gravitazionale del Meeting: lo capisco proprio dai riferimenti continui di Vittadini. Lo capisco e mi conforto, mi tranquillizzo, mi rallegro. Sono contento che esista un posto così, che esista una storia così. 
Voglio andare a vedere, allora. Voglio portarmi il mio Giovanni, quello della mia infanzia, quello legato al ricordo di mio padre (e ricordo che Jannacci lo intravidi di persona solo una volta, ed era proprio al Meeting…). Voglio portare il mio cuore e farlo respirare, farlo espandere e farlo sentire riconosciuto. Un lavoro di ogni giorno, anzi il lavoro di ogni giorno. Per cui ogni occasione valida bisogna sfruttarla, per cui il senso di andare a vedere diventa quasi urgente. 
Come quell’urgenza di Giovanni, né più né meno.

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Ciao Enzo

Mi viene come un ricordo, riaffiora dall’abisso di anni lontani lontani. Era un disco 45 giri con la parte centrale (interna ai solchi, intorno al foro) di colore verdino. Su un lato c’era Vengo anch’io e l’altro lato aveva Giovanni Telegrafista. Era di papà ma era finito insieme ai dischi di noi bimbi; le favole di A mille ce n’è, qualche canzoncina. Lo sentivamo nel mangiadischi di colore rosso, con il davanti bianco. Cose perse in anni lontani dell’altro millennio. Da lì in poi Enzo, in varie forme ed intensità, non si è mai allontanato. 
Con De André, pensare ad Enzo era un modo per pensare a papà, in fondo. Non ascoltava molto le canzoni, papà, piuttosto aveva pochi autori che amava molto. Erano suoi. Così Fabrizio De André, così pure Enzo. Quel disco con le canzoni in dialetto milanese, così strano alle orecchie di me bambino, nato e cresciuto nella capitale. Era una delle prime evidenze, misteriose, della presenza di altri mondi, di altri modi di esprimersi, di pensare, di parlare. Un posto lontano poche centinaia di chilometri ma totalmente diverso. 

Fiore di Pesco
Sfiorisci bel fiore….
(Foto di 
g33k0 su Flickr)


Il ponte sulla diversità però c’era, c’è sempre stato. Il ponte è la musica. La melodia parla un linguaggio universale, così alla fine non fa molta differenza se il testo è un inglese – magari perfetto ma largamente incomprensibile all’adolescente di allora – oppure il dialetto milanese più stretto – parimenti incomprensibile (allora e adesso). La musica ti faceva innamorare anche di un pezzo del cui testo non capivi nulla: ma è come se lo capissi lo stesso, in fondo. Lo respiravi ugualmente.
Enzo capace di canzoni allegrissime e divertenti, come L’Armando, che fin da piccoli ci appassionava con la sua galoppante inventiva e garbata irriverenza. Poi, altre di una tristezza misteriosa, una dolorosa mestizia, quasi cosmica: il racconto delle esistenze ai margini, del cuore insoddisfatto, del cuore… urgente, come appunto quello di Giovanni Telegrafista. Enigmatica controparte della scoppiettante ilarità di Vengo anch’io. In fondo penso che in quel 45 giri c’era già tutto Jannacci – in due canzoni di tanti anni fa, era come già presente – compresso ma anche completo – il suo larghissimo arco espressivo.
C’era – anche – la scoppiettante inventiva del puro cabaret e poi canzoni di tenerissima dolcezza, come in Sfiorisci bel fiore. Davvero, una tenerezza immensa.
Per me in particolare, c’era questo valore aggiunto, nelle sue canzoni. Enzo era tra i pochissimi italiani, tra i dischi di papà. Aveva tanti dischi perlopiù di musica etnica, di melodie e canzoni di terre lontane. Forse perché aveva sempre viaggiato molto. Papà non era un tipo da mettersi ad ascoltare le “normali” canzoni, di solito. Diffidava di quanto poteva sembrare troppo commerciale. Quindi i dischi di questo tipo che trovavo nella discoteca di casa avevano un valore particolarissimo.  Era come un segnale di merito. Erano anche loro un ponte, erano una terra di mezzo – un aggancio più facile ed immediato, tra la mia vita e la sua.
Così anche quando crescendo, complice Alberto il compagno di banco milanese, avrei iniziato ad esplorare la produzione di Jannacci in maniera più ampia e articolata, non avrei mai potuto togliermi di dosso il fatto che parte del valore mi sfuggiva dalle mani, era come andasse al di là della mia esclusiva valutazione, si appoggiasse a quella di papà. Come una garanzia di radice più forte.
Enzo l’ho visto solo un volta, di sfuggita. Era tra il pubblico del concerto jazz del figlio Paolo, questa estate al Meeting di Rimini. Concerto bellissimo ed emozionante quello di Paolo, tra l’altro. Lui era lì, con qualche persone che lo accompagnava. Non mi avvicinai molto (mi bastava che ci fosse) e lo intravidi parlare, salutare, sorridere. Ora magari sorriderete voi se lo dico, ma se ci penso era come se in qualche modo dovessi incontrarlo di persona, almeno di sfuggita, stare con lui nello stesso posto, sancire finalmente – con la pura presenza fisica – un nodo, un incontro di tragitti. Per le mille misteriose combinazioni del vivere. 
Era necessario, forse, prima che andasse. Ora è lì, e mio papà li ha riguadagnati tutti e due.

Chissà che bella musica fanno, lassù.

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