Blog di Marco Castellani

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Quel ritmo delle cose

Di solito non mi piacciono molto le varie riedizioni “deluxe” dei dischi di qualche tempo fa. I dischi con i quali sono cresciuto, praticamente. Li conosco in un modo, li conosco così e non mi fa impazzire che tu, cara mia casa discografica — per simulare qualcosa di diverso, per farmi pensare che questo mi manca, lo compro — mi aggiunga un CD al CD che già ben conosco, rappezzando in studio tutte le prove lasciate (giustamente) come prove dagli stessi musicisti. Proprio quelli che, che grazie al cielo e alle sue stelle, hanno trovato una soluzione migliore per un pezzo, un arrangiamento, qualcosa insomma. E giustamente, sono andati avanti.
Questo è. E sicuramente non sono il solo a pensarla così. Però ammetto anche che ascoltare di queste “prove” a qualcosa serve. Ti fa capire molto. E ti fa capire molto oltre la musica, molto oltre le canzonette (qui con Bennato, proclamo con solennità che sì, che sono solo canzonette, metto platealmente le mani in avanti, in modo da sottrarmi fin da subito ad ogni ammuffito e prevedibile dibattimento sulla “grande” musica e sulla musica “commerciale”).
Tanto per spoilerare me stesso e dove andrò a parare: ti fa capire che ogni opera è (solitamente) una costruzione, una lenta costruzione. Che ogni diamante nasce dalla terra, parte con due o tre idee, due schizzi sul foglio. Parte piccolo, (molto, molto) perfettibile. Questo me lo devo ricordare. Me lo devo proprio ricordare, quando inizio a scrivere qualcosa e mi sembra intollerabilmente incompleto e precario. Mi devo ricordare di non smettere, di lavorarci, di lavorare. Di starci.
Devi starci, come con tutto. Scappare non vale, non paga.

Però adesso torniamo indietro, a dove l’ho capito (con la testa l’avevo già capito da un pezzo, purtroppo con la testa e basta non si capisce niente per davvero, niente di ciò che conta).
Questa qui è la versione che ho sempre ascoltato, di una canzone splendida, con un testo altrettanto splendido. Mi sono sempre chiesto, tra l’altro, come hanno fatto questi ragazzetti norvegesi, negli anni ottanta, a comporre una cosa così, a scrivere una cosa così.


E poi qualche giorno fa, insomma, dopo una lunga storia di amore con questo disco e soprattutto questa canzone, mi sono ascoltato quasi per caso, su Spotify, la Demo #3 della canzone.

E allora ho capito.
Insomma qui la canzone c’è già, c’è tutta. Ma manca qualcosa di essenziale. La chitarra è molto più consueta, più ascoltata: vorrebbe graffiare, essere aggressiva, ma è abbastanza innocente. La canzone va, ma non c’è quel quid che la rende speciale, insostituibile, unica. La tastiera fa quel giro armonico (o come si dice) che è molto più inoffensivo. Ecco, quello definitivo è molto più asciutto, ed è sparato subito all’inizio del brano. E’ la vera cifra risolutiva di tutto, e ti viene presentata subito. E’ essenziale, come il testo è essenziale, senza orpelli. Ecco, è come se dalla demo avessero scavato via tutto quello che era inutile, era decorativo, come se avessero portato alla luce quello di bello che c’era già, dentro. C’era dentro, ma era come coperto, reso appunto più inoffensivo, meno capace di mordere, di colpire.
Però a questo punto, mi viene anche l’idea che magari a voi degli a-ha non vi importa moltissimo. E’ possibile, sì. Ritengo, sebbene un po’ a fatica, che sia possibile. Allora volevo dare un tono un po’ più generale al post (se ancora qualcuno mi sta dietro).
E’ che da questa demo si percepisce carnalmente (e non intellettualmente, lì son buoni tutti) una cosa generale, in effetti. Per cui forse vale la pena scriverne.
Che una cosa bella, davvero bella, usualmente non piove dal cielo già bella e pronta. Che magari, invece, parte in tono sommesso, mischiata a tanti errori, tanti giri decorativi, inutili, aggiustabili, migliorabili. E poi, scavando, lavorando, lavorandoci, assume quella fisionomia inconfondibile, perfettamente imperfetta, dolcemente, docilmente definitiva nel suo ambito.
E dici, finalmente dici: ecco, è questa.
Che è perfettamente integrata nel suo tempo, che risuona del suo tempo, anche. E’ lì dove deve essere. Per dire, nelle demo di The Wall, procedendo verso la versione definitiva, c’è come in filigrana, come in presa diretta, il passaggio esatto dagli anni ’70 agli anni ’80. Nell’arrangiamento, l’intonazione, tutto. Andate a sentirle, è stupefacente. Un mondo che cambia, come fotografato in musica. Ma questo sarebbe già un altro discorso, da approfondire un’altra volta.
Insomma, quel ritmo delle cose, per restare nel titolo del brano di cui si parlava, si acquisisce, si trasmette, non d’improvviso, ma con un lavoro umile, semplice. Con una dedizione tranquilla, nei giorni. 

“È dalla terra, dalla solidità, che deriva necessariamente un parto pieno di gioia e il sentimento paziente dell’opera che cresce, delle tappe che si susseguono, aspettate quasi con calma, con sicurezza. Occorre soffrire perché la verità non si cristallizzi in dottrina, ma nasca dalla carne.” (Emanuel Mounier)

Nel tempo, tutto avviene nel tempo.
Anche una canzone.

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Leggere, digerire

C’è voluto il passaggio al digitale, in un certo senso. C’è voluto – come spesso accade – il transitare in un altro territorio, per tornare arricchito di una consapevolezza diversa. Che poi, uno nemmeno si rende conto che sia davvero una nuova consapevolezza, o chissà che altro. C’è che una cosa a cui eri abituato, improvvisamente ti sta stretta. 

C’è voluto questo, per me. L’abituarsi alla lettura di ebooks ha comportato un diverso modo di avvicinare il testo. Sì perché il mezzo non è irrilevante, quello che fruisci è tutto un misto tra quello che è davvero scritto e i modo con cui ti arriva. E’ così tutto intimamente legato e non riesci a separare, a dividere i vari fattori. Grazie al cielo. 

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Photo Credit: pedrosimoes7 via Compfight cc

Nello specifico, la lettura in digitale mi ha riabituato – senza che lo mettessi a programma – ad un certo lavoro sul testo (quello che dirà è vero principalmente per i saggi, ma non ne sono completamente esclusi nemmeno i romanzi). Il fatto tecnico assai banale, se vogliamo, per il quale si può agevolmente evidenziare un passaggio – senza di fatto alterare o rovinare il libro – mi ha riportato inevitabilmente all’attitudine di leggere sottolineando i brani più importanti, le frasi che più mi colpiscono: insomma, quelle che vorrei ricordare, o perlomeno alle quali vorrei poter tornare, per digerirle meglio.

Il libro digitale ha un grosso limite, comunque, allo stato attuale. E il grosso limite è che non vi si trova tutto: molti libri sono ancora, e forse lo saranno sempre, disponibili esclusivamente in formato cartaceo. Quello glorioso, quello di sempre (la carta, la sua consistenza, il suo profumo.. etc etc..). Non è come per la musica digitale, lì più o meno se cerchi bene, trovi l’emmepitre praticamente di tutto. Qui no. Diversi saggi ed anche romanzi, o libri di poesia – anche di recente pubblicazione – vivono allegramente (e misteriosamente) soltanto nel formato cartaceo. 

Allora, ecco. Se mi trovo a leggere un saggio pubblicato su un libro di carta , ora sento che mi manca qualcosa. Mi manca la possibilità, appunto, di sottolineare. Per chiarire, va detto che io aderivo, fino a poco tempo fa, a quella disgraziata corrente di pensiero per la quale il libro non può essere alterato in alcun modo (facevo eccezione per la firma e la data di acquisizione nella prima pagina, come avevo visto fare da mio nonno materno). Ovvero, a parte un libro di testo, non reputavo ragionevole sottolineare un libro che leggo per interesse.

E infatti comprendo che il motivo è tutto lì. E’ lì il fraintendimento.

Perché in fin dei conti dietro il fatto che il libro debba rimanere intonso il più possibile, c’è l’idea che tu ci debba passar sopra in modalità leggera e non invasiva, come a volo d’uccello, immergendoti in modo elegante e discreto in quello che ha da dire, per poi salutarlo lasciandolo il più possibile senza traccia del tuo passaggio.

Eh no, invece no. La cosa non funziona così.

Il rapporto con un libro è un rapporto carnale, un rapporto in cui i due partecipanti si modificano, si compenetrano, si sporcano l’uno dell’altro. Non si può far finta che non sia mai avvenuto (io? Quel libro? no, no mica l’ho mai toccato… non è come pensi, posso spiegarti tutto…). Perché le idee non le sorvoli elegantemente. No, con le idee ti devi misurare, ci devi lottare, devi permettere che ti saltino addosso, devi respingerle o accoglierle, resistere e poi cedere, oppure cedere subito e poi cambiare idea. 

Così diceva Giorgio Gaber, in una della sue intuizioni più folgoranti, Se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione. L’idea va ruminata, andrebbe fatta propria, perfino mangiata, se possibile.  

Così anche mi conferma una frase di un poeta, Davide Rondoni, quando nell’Avvertenza che prelude al bel libro (cartaceo, soltanto) sulle poesie di Ada Negri, Mia giovinezza, mette in guardia, Si legge per crescere in umanità. Leggere fa parte del lavoro.

Così maturo il distacco dalla scuola il libro non si tocca con un senso di sollievo, finalmente. Perché c’è anche la concezione che leggere sia un passatempo, una cosa per riempire i vuoti. No, non sono d’accordo. Leggere è qualcosa che arricchisce, è proprio un lavoro. E questo vale anche per molta letteratura leggera, secondo me. Puoi imparare molto, da come sono messi in fila aggettivi, avverbi, dalla lunghezza delle frasi, dalle situazioni. Leggere accende sempre la mente. Io sospetto che un si impari di più, per dire, da un brutto libro – ma uno scritto proprio male, vorrei dire – che da uno spettacolo televisivo di qualità media (eccezioni ve ne sono e ve ne saranno sempre, ma in media mi sembra sia così).

Beh, tutto questo per dire che ad un certo punto di questa evoluzione (o involuzione, a seconda di come la pensiate) ho guardato con occhi diversi quell’evidenziatore giallo: quello che era qui appoggiato sul comodino, a non far nulla.

Ecco (i puristi smettano di leggere) … l’ho preso, ho preso il saggio che stavo leggendo (Dennis Gira, La scelta che non esclude. Buddismo o cristianesimo), e ho iniziato a sottolineare. Prima con un senso di disagio, come mi guardassi nell’atto di compiere una marachella. Poi con un vero senso di liberazione. Finalmente. 

E poi ancora, emozionato dalla mia trasgressione, invece di smettere e pentirmi, ho continuato. Le altre vittime sono state, per ora, Imparare ad amare, di Marco Guzzi, e lo stesso libro delle poesie di Ada Negri (limitatamente alla parte di Rondoni).

Niente va perduto, niente è sprecato. Leggere fa parte del lavoro (e anche l’evidenziatore giallo  ne fa parte, aggiungo di mio). Che bello che sia così. Che bello che il libro sappia di me, dopo che l’ho incontrato. Vuol dire che se qualcuno viene dopo di me a leggerlo, sarà non appena un lettore, ma un testimone di un passato incontro d’amore. 

Passato, sì: ma sempre rinnovabile.

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Fabio sognava (scrivere è attraversare la paura)

“Fabio sognava di correre insieme con Liliana. Erano in un campo vastissimo, pieno di sole e di fiori gialli gialli. Lui correva e cercava di acchiapparla, lei correva più veloce di lui, gli sfuggiva sempre per un pelo. Poi alla fine lui riusciva a prenderla, ma con la sensazione che lei si fosse lasciata prendere per essere baciata. Come quando erano fidanzati, lui la stringeva a se e lei faceva la faccia con il broncio.”
E’ un po’ che ci gioco, con questo brandello di trama venuta su così, quasi senza volere. Che parte da alcuni luoghi, da una geografia prima che da una vera e propria storia. Orbetello, Montreal, St. Moritz… Luoghi e personaggi. Così accade che mi trovo a rileggere la parte iniziale del romanzo, che vorrei percorrere piano piano, facendolo crescere, lievitare come una torta, con pazienza e applicazione. E mi domando perché sia ancora lì, fermo.

Vediamo, cerchiamo di fare luce.C’è stato l’inizio, con l’entusiasmo tipico di ogni inizio. C’è stata poi la paura. La paura che tutto questo sia una perdita di tempo, che io non sia veramente in grado di scrivere una buona storia. Insomma tutte le paure più classiche che si possono avere: io ovviamente me le sono ritrovate addosso (io le paure le me le attiro addosso abbastanza bene). Così vi sono state sessioni di scrittura faticose – perché non convinte – e soprattutto lunghe fasi di stasi. Che come tutte le fasi stazionarie, non hanno risolto nulla.
Così ora che inizia un nuovo ciclo, un nuovo anno (per me l’inizio di un nuovo ciclo annuale è circa poco dopo ferragosto, è lì che riparte tutto: dopo la pausa estiva), ora che penso a come veleggiare attraverso l’autunno che sta arrivando, e poi l’inverno, ecco che capisco che ci forse ci manca un ingradiente, alla mia analisi.

Beh, avete probabilmente già capito quale.

Il bello è questo. Attraversare questa paura e scrivere. Allargo un attimo il quadro, permettetemi. E’ bello, gustoso, attraversare ogni paura che viene. A volte mi pare di capire che sia ben di più che un atteggiamento terapeutico. Di qualcosa da raccontare all’analista. E’ qualcosa di strettamente legato al mio compito, al motivo per cui sono qui, per cui sto vivendo. Nella disposizione interiore, che si traduce in una modalità di reazioni di fronte alle circostanze, vi è il nocciolo sacro della libertà, è misterioso ed ha connessioni misteriose e profonde con tutto quanto.

Venendo poi a scrivere. Scrivere è sempre rischioso (un rischio salutare) e scrivere un romanzo è molto rischioso, è come lasciare il porto e fare rotta verso un punto lontano. Verificare le dotazioni di bordo e andare. Del resto, dice qualcuno, le barche in porto stanno sicure: ma non sono fatte per rimanere in porto, le barche.
Allora il viaggio di quest’autunno, di questa fine anno e inizio del prossimo, potrebbe essere questo. Potrebbe essere far crescere un secondo romanzo, dopo Il ritorno. Scrivere un romanzo è una cosa, ma farne un secondo ha una portata profonda (vorrei dire, a prescindere dall’esito). Vuol dire riconoscere che non si può stare lontani dal raccontare storie. Vuol dire che non era una tantum. Vuol dire che non puoi farne a meno, no. 
Che la vita risulti scolorata e tesa quando uno non scrive, quando tenta di legarsi le mani (senza riuscirci) per risparmiarsi questa complessità e eludere ogni incertezza, è un segnale. Forte, netto, che deve essere assimilato. Non è certo completamente in mio potere decidere di scrivere bene. Ma è in mio potere accogliere questa (pressante) richiesta a scrivere, o rifiutare. Rifiutare però vuol dire comprimersi sulla superficie, mancare in profondità, perché il no avvelena e corrompe. Così devo passare oltre la mia autosvalutazione e dire sì. 
Alla fine è semplice: devo fare questo, devo andare a vedere. Devo vedere cosa succede nella storia di Fabio e di Liliana. Perché si sono allontanati, se si potranno riavvicinare, per che motivo, o per chi. Non devo creare, devo soltanto ascoltare i miei personaggi. Fare pace e silenzio dentro di me, perché loro mi parlino. E tenere traccia umilmente di quanto mi vogliono dire. Del resto, lo stanno già facendo. Mi stanno già parlando e io devo solo abbassare lo strato protettivo di distrazione e affanno per lasciar emergere quanto mi dicono. A piccoli passi, con pazienza. Baby steps, sempre.
E’ il tempo giusto per farlo, probabilmente. 
E’ sempre, questo tempo. Ma è soprattutto adesso, mi sembra.

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Professionismo

Sono andato a correre al parco – oggi pomeriggio – con Paul Simon nelle orecchie, per la precisione l’ultimo disco, Live in New York City. Mi veniva in mente correndo, a parte che è proprio bello, ma mi veniva in mente cosa vuol dire essere un professionista. Non è legato immediatamente al percepire un profitto per quello che si fa. Essere un professionista ha a che vedere con l’atteggiamento che si tiene davanti ad una certa cosa. Sentendo coma canta adesso Paul Simon – a più di settant’anni – come lima e interpreta ogni frase di ogni canzone, come non scivola mai pigramente sulla melodia ma vive ogni passaggio, mi sono detto ‘ecco, questo è un professionista’. 

Come intendere questa parola? Secondo me vuol dire questo, disporsi nell’atteggiamento migliore perché si possa mettere a frutto il proprio impegno. In pratica, rendersi trasparenti all’emergere del positivo di sè. Questo può voler dire che ci possono essere persone geniali ma non professionali, per cui il loro talento va ampiamente sprecato. E ci possono essere persone che attraverso l’applicazione  e la perseveranza superano anche molte iniziali difficoltà o apparenti incompatibilità.

Turning pro è dunque una faccenda piuttosto fondamentale, e riguarda l’atteggiamento prima di ogni altra cosa. Come si guarda quella cosa. Vale la pena di farlo, prima di tutto per il lavoro. Esattamente. Tutti i problemi “mi piace, non mi piace, con Tizio lavoro benino, ma Caio non lo sopporto… oggi mordo perché ho dormito male, graffio perché mia moglie/marito mi tiene il broncio…” si superano (o si mitigano) attivando in sé un atteggiamento da professionista. Anche il fatto “lo so fare, non lo fare, chissà se sono capace”, è in realtà un residuo di immaturità dell’ego, anche quello può essere lasciato indietro se ci disponiamo ad una attitudine da pro.
Così davanti ad un problema, una noia, una rogna supplementare, ad una giornata storta, ci si può chiedere, ma come reagirebbe un professionista? e cercare di agire di conseguenza. Non per dimenticare che siamo uomini (o ancor meglio, donne…), ma per onorare la cosa che stiamo facendo, dargli il giusto credito perché è una parte importante della nostra vita. Una cosa così fa bene al mondo.
E’ ora di smettere di chiedersi se vale la pena o no, se è giusto o no, etc. Una volta deciso, andare. E agire da professionista, fregando tutti i dubbi. I dubbi abbandonano un pro perché si accorgono seccati che non lo condizionano più. Che ne dite? Se risuona anche con la vostra esperienza (o anche no), sentitevi liberi di lasciare un commento al post.

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Positività

Il lavoro è precisamente questo, rintracciare la positività in tutto quello che accade. Anzi, di tutto quello che accade. Allora ogni cosa diventa un’occasione, e non è più un lamento.

Non mi è possibile passare dal lamento alla sfida senza questa accanita ed appassionata ricerca della positività. E’ un lavoro, appunto. Un lavoro che va fatto da mattina a sera (e spesso anche la notte).  Un lavoro che può fare la differenza (ecco perché è ragionevole farlo), dare grossi risultati, nei rapporti personali, nei rapporti affettivi, come genitore, nel sesso, ovunque..

Smile!

Un lavoro che passa necessariamente nella vita ordinaria, come attitudine ad abbracciare le circostanze.

Ci stavo pensando stamattina, in palestra. Per un momento sono riuscito ad osservarmi come dall’esterno, e non essere automaticamente invischiato in ogni cosa che penso. Ho capito allora quanto spesso la mente mi “vende” pensieri ed atteggiamenti negativi, rinunciatari, quante volte passa il pensiero tanto io non ci riesco oppure tanto non sono in grado oppure anche, davanti ad una difficoltà anche minima, ad un lieve imprevisto ah ma ci mancava anche questa ora.

Fermi tutti. Come sarebbe? Ora basta. Non sono più disposto a comprare tutto quello che mi vende la mente. Non più. Questo è il lavoro. Sostituire delicatamente i pensieri negativi perlopiù (grazie al cielo) immotivati, con pensieri positivi e costruttivi. Passare ad uno stato energetico migliore, a frequenze più elevate, diciamo. 
La bassa frequenza è tristemente contagiosa. Tende ad autorinforzarsi. L’ho notato anche ieri. Più vedi cupo più vuoi vedere cupo. Perché è così? Perché a volte ho questa paura di essere felice? Tante volte me lo sono chiesto, ma adesso mi pare di avvicinarmi per la prima volta ad una risposta. Perché nella felicità l’ego si ridimensiona, scompare. L’ego vive benissimo nel conflitto, nell’infelicità, nella tensione. Ci sguazza. La felicità è inevitabilmente uno stato prossimo ad una armonia universale, come tale l’ego viene messo in crisi. Intendo l’ego come la parte più impulsiva, reattiva, in un certo modo infantile, che ci portiamo dentro. Quella che vuole incondizionato amore e attenzione, che non è disposta all’attesa per avere qualcosa. Quella che non concepisce che esista altro oltre le cose che vedi e tocchi.
Mi dico, quello che mi ci vuole è guardare le circostanze con occhio diverso. Perché poi alla fine sono loro, le circostanze, che per me esistono davvero. E’ il modo in cui la realtà mi tocca.  
Luigi Giussani l’ha espresso bene. La vocazione è andare al destino abbracciando tutte le circostanze attraverso cui il destino ci fa passare

Andare al destino è realizzare se stessi. Essere felici profondamente.


Nella vita di chi Egli chiama, Dio non permette che accada qualche cosa, se non per la maturità, se non per una maturazione di coloro che Egli ha chiamati.

Quindi tutto ha senso. Tutto.

Davanti a ogni circostanza e a ogni sfida, che sono costanti, io sono costretto a decidere se rimanere nel lamento oppure se guardarla come la possibilità attraverso cui il Mistero chiama me al rinnovamento della mia autocoscienza. 

C’è molto da lavorare, per me. Guardandomi da fuori, scopro finalmente che l’attitudine al lamento è diventata quasi una abitudine, senza che l’avessi mai pianificato. Si è consolidata durante anni e anni, un atteggiamento non programmato ma comunque vissuto. Però la cosa non mi spaventa, fintanto che vedo una strada che si può percorrere. C’è una strada da poter camminare, e io la voglio fare. Poi il passo sarà anche lento, ma cerco di non preoccuparmi. L’importante è camminare.

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Cinque giorni a Cambridge…

Così, eccomi per la seconda volta a parlare di un soggiorno a Cambridge, sempre per il progetto Gaia dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA). Stavolta c’era da fare parecchio, risistemare le procedure di riduzione dati in vista di una maggiore efficienza. Il giorno si stava all’Istituto di Astronomia, il pomeriggio e la sera si gironzolava per Cambridge, magari con una sosta in qualche pub.


A spasso per Cambridge… 🙂

Arrivare a Cambridge non è cosa da lasciare indifferente il mio cuore. E’ come un anticipo di autunno, ma dell’autunno che piace a me, dove i colori risaltano e si è come attratti da una prospettiva di intimità con il proprio cuore, dalla possibilità che risuoni con la natura, con i parchi verdi, l’aria tersa, che si allarghi nello spazio intorno…

Poi certo, c’è il lavoro, la sua sfida. Le conquiste e le tensioni. La soddisfazione di un attimo, il timore dell’attimo successivo. Discese ardite e risalite. E’ giusto il codice? Va cambiato? Il lavoro fatto finora è adeguato? Lo sto facendo sufficientemente bene? Tante volte mi sono risuonate in testa queste domande (e la risposta dipendeva dall’umore del momento….)

Poi le sere a parlare con i colleghi di Roma, compagni di questa buffa avventura. Capire che ogni persona è un universo, un insieme di giudizi e valutazioni e un punto unico sulla vita e sul mondo. Viene fuori meglio la sera parlando, quando magari si è a stretto contatto per una settimana, che nella routine lavorativa ordinaria. In orario di ufficio si è tutti più trattenuti.

Il contatto discreto con la moglie, come una cornice a tutto quel che succedeva. Due parole al telefono, la sera. I messaggini, più affettuosi del solito, segnali di riferimento per non perdere il tragitto. Seguire il sentiero. Parlavano, anche sotto le parole. Quel che per pudore non veniva scritto a lettere, era comunque chiaro. Dicevano io sono con te, stai tranquillo. 

La sera in stanza leggevo qualche pezzetto di Tracce e di una rivista di computer (il primo per farmi “sentire” sul cammino, il secondo per sgombrare la mente stanca dal giorno passato alle riunioni). Avevo anche La storia infinita ma sono andato avanti poco.
 

Alti e bassi. Ma la cosa di cui sono davvero grato, è che in ogni momento, in ogni giornata, c’erano sempre due o tre cose che capitavano, a volte anche piccole piccole, ma che sembravano arrivare con un significato specifico. Spesso usando la posta elettronica (ma il mezzo è quanto mai ininfluente). Una cara amica che si faceva sentire, un apprezzamento inatteso di un lavoro di qualche tempo fa… Come dire, ecco dove puoi guardare oggi, per sentirti confortato. E’ ragionevole ma non viene imposto. A te la scelta….  

Senza forzare la  libertà, ma come suggerendo delicatamente…

Su tutto, la sensazione che malgrado tutte le debolezze, i limiti, esista una strada, che si può percorrere…

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Seguire la linea…

.. e non è stato forse bello, ieri, affrontare le proprie piccole spigolosità, con il pensiero dolce e “riordinativo” di avere un ruolo, un compito su cui svolgere la vita, che è quello di amare mia moglie (amare! Apparentemente semplice, perennemente rivoluzionario. Al di là del conto spicciolo di quanto dò e quanto ottengo), e di applicarmi nel lavoro (non pretendendo più la perfezione, ma accettando il mio ruolo così come viene declinato nella vita pratica…)?

Mi sono accorto anche che le cose si declinavano meglio, più ordinate. C’era meno senso di dispersione. Ero all’inaugurazione della Torre Solare a Monte Mario, e sentivo che non c’era niente da eccepire, da riflettere, da ruminare. Ero lì perchè dovevo stare lì (forse non si capisce… però è così) E la cosa era pacificante. Accettavo il mio ruolo. Facevo quello che dovevo fare: ma non “dovevo” nel senso di costrizione.. piuttosto, nel tentativo (imperfetto quanto si vuole) di adesione alla linea della mia vita. Allora anche le cose si sistemavano un pò più accoglienti, i rapporti con le persone si addolcivano (e si facevano migliori), la curiosità per il lavoro e le cose intorno poteva emergere…

Lo scambio di parole con il direttore (che ha ringraziato anche me per essere stato presente), i colleghi. Gli amici.

La linea della mia vita (hold the line…). Che non è da inventare, ma da riconoscere…

Posted via web from mcastel’s posterous

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Quinto giorno a Leiden


Leiden
Inserito originariamente da Eisbeertje

Arrivo un pò in ritardo.. ad appuntare qualche nota del giorno di venerdì scorso, ultimo della mia breve permanenza a Leiden.

La mattina colazione in albergo, come al solito, a noi però si è unita la ragazza olandese (che parlotta italiano) che avevamo conosciuto il giorno prima. Dopo colazione a prendere i bagagli chè si deve lasciare l’albergo.

Dopo aver pagato, io e Luigi ci dirigiamo alla fermata. Hester non c’e’, probabilmente ha già presto l’autobus. Dopo un pò che parlottiamo, noto un biglietto incastrato in un angolo appoggiato al vetro del gabbiottino della fermata; con sorpresa ne scopriamo la natura, un breve messaggio di saluto indirizzato a noi dalla ragazza bionda. Penso, forse non abbiamo fatto una pessima figura come italiani, in questa occasione. Una conversazione gentile e null’altro, può far nascere un’amicizia, una cordialità? Siamo noi italiani troppo chiusi e “cinici”, talvolta, mi dico.

La mattina all’istituto ancora lavoro, che si protrae nel pomeriggio. Questo è bene perchè riusciamo a chiudere una procedura ancora “pendente” in maniera soddisfacente, il chè dà un bel senso di compiutezza – pur nelle mille cose ancora da fare – al nostro soggiorno di lavoro.

Poi si va in aereoporto. Si fanno un pò di spese, si mangia qualcosa e si va. La KLM ci tratta bene e ci mangiamo un curioso cibo (olandese?) freddo con frutta verdura e altre cose, e poi anche pastigliette di cioccolato a mò di dessert.

Penso ancora che se ho imparato qualcosa, è che uno deve far bene il proprio lavoro, e preoccuparsi meno del resto. E’ quello che uno può fare, è la ragione per cui ci hanno pagato il viaggio, l’albergo e tutto il resto. Semplice ma a volte non così evidente, per me: bene che me ne ricordi!

Arriviamo un pò tardi per via di un ritardo nella partenza dell’aereo; stanchi ma tutto sommato contenti. E’ stato un viaggio utile; ora siamo a casa.

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