Siate affamati, siate folli…

Così Steve ci ha lasciato, dopo aver combattuto per anni la sua battaglia contro il terribile male. In questi momenti in rete si moltiplicano i commenti e le analisi di ogni tipo. Da chi lo delinea come un geniale comunicatore e un efficiente manager  di sé stesso e della sua azienda, a chi lo ricorda come un maestro di pensiero, quasi come un guru dei tempi moderni. Chi è Steve Jobs, e cosa ci lascia? Sono d’accordo con Licia Troisi (che tra le opposte tendenze, riesce a mio avviso ad essere felicemente equilibrata)  sul fatto che ora, innanzitutto, non pensiamo al venditore, pensiamo all’uomo.
Più esplicito ancora, in questo senso, è il pezzo di Gigio Rancilio su Avvenire. Per quanti i-gadget posso avere in casa, quello che più mi colpisce di quest’uomo è il discorso che tenne a Stanford nel 2005 (visibile anche nel bel post di Antonio Spadaro su cyberteologia.it, che efficacemente mette in evidenza le possibili risonanze tra il discorso di Jobs e l’insegnamento di Ignazio di Loyola). 

Steve Jobs R.I.P.

Sicuramente Jobs è stato un creativo geniale, sicuramente il suo Think Different ci ha aiutati a sentirci “speciali” contornandoci dei suoi prodotti (che comunque funzionano, e spesso anche bene) dimenticandoci forse che sempre di marketing aziendale si tratta, di una azienda con luci ed ombre come molte altre. Coraggiosa e innovativa, sia pure, ma pienamente integrata nel sistema.
Tuttavia, quello che più mi colpisce non è quanto è riuscito a produrre, o cosa è riuscito a venderci, ma cosa ha cercato di trasmettere, soprattutto in quel famoso discorso. Un discorso “scomodo”, perché vero. Perché mette in campo quello che tutti cerchiamo di rimuovere (rovinandoci la vita), ovvero la certezza della morte. Sapere di dover morire (e non voler morire) secondo saggisti come Valerio Albisetti, è esattamente il centro da recuperare per dare senso alla nostra vita. E’ comprensibile: se sai che la vita non dura per sempre, ogni giorno, ogni minuto acquista più valore. Soprattutto, non sovrapponi una menzogna  alla realtà, non ti muovi come se vivessi per sempre ma sapendo che la tua vita su questa terra ha un arco finito.
Così, anche su di un sito non certo sospettabile di propensioni macchistiche, come LinuxJournal, appare un interessante articolo che ripercorre il percorso che ha portato Steve Jobs ad intrecciare la sua vita con la tecnologia degli ultimi anni. A Steve viene riconsciuto in apertura di articolo il titolo di “innovatore tecnologico”; probabilmente anche linux (è l’ipotesi con la quale si chiude il pezzo) sarebbe stato in qualche modo diverso, senza di lui. 
Di converso, non mi provocano nessun particolare entusiasmo, se devo dirlo, le parole piuttosto dure di Richard  Stallman (che probabilmente ha perso una meravigliosa occasione per stare in silenzio). Posso dissentire in qualche misura dalla filosofia Apple, ma di certo mi riconosco sempre meno in talune posizioni estreme che trattengono ancora il gusto troppo forte di qualcosa di (tristemente) ideologico.
Ma ritorniamo ancora al discorso di Stanford.
Così esordisce Jobs “Ricordarsi che morirò presto è il più importante strumento che io abbia mai incontrato per fare le grandi scelte della vita”.  L’invito di Jobs a seguire il proprio cuore, la sua esortazione “dovete trovare quel che amate” è l’invito a guardare dentro di sé per scoprire la propria vocazione, quello a cui siamo stati chiamati, quello che ci dà  entusiasmo e passione, che dà colore alla vita, ai giorni. Assecondare la propria vocazione, “cedere” ad essa, fidarsi dei propri sogni. 
Siate affamati, siate folli per me vuol dire questo, non accontentatevi di niente di meno del cuore.
E’ un lavoro, da riprendere. Adesso più che mai. Grazie, Steve.
Elaborazione di un post originariamente pubblicato su /home/mcastel

Loading

Niente più carta per Linux Journal

Sono abbonato a Linux Journal in formato digitale, anche se a dir la verità, a volte capita che faccia passare un numero senza consultare il relativo file PDF, oppure dandone appena una scorsa. Sarà che comunque una rivista cartacea si porta in giro meglio (al bagno, in balcone, nella borsa, appoggiata sul sofà…) laddove un computer, ancorchè portatile, è molto più di impaccio (e molto più fragile).
Chiaro, anche il digitale ha i suoi bravi vantaggi. Posso sottoscrivere una rivista la cui redazione si trova agli antipodi, senza correre il rischio di pagare più per spese di spedizione che per i fascicoli stessi. La rivista la posso leggere l’attimo dopo che è stata pubblicata. Posso memorizzare tutti i miei numeri su un disco rigido, portarmeli dietro in una chiavetta USB. Annotarli, evidenziare delle frasi, fare ricerche per parole, e così via.
Piaccia o non piaccia, comunque, i tempi stanno cambiando, e il digitale avanza in maniera inarrestabile. Ricevo oggi un mail da Linux Journal che mi informa del fatto che la rivista cartacea sarà abolita, e LJ sarà dunque 100% digitale.
Nel relativo post sul sito si trova una sintetica ma attenta analisi delle ultime tendenze nel mercato dell’editoria (insieme con un parallelo del cammino della rivista con il progresso stesso di linux). Il passaggio al digitale sta interessando varie testate, imponendosi come un fenomeno tutt’altro che episodico, ma di una inesorabilità difficilmente evitabile. Il taglio dei costi è uno dei motivi fondamentali, ma non è certo l’unico: la maggior flessibilità delle versioni digitali gioca anch’essa un ruolo importante, ad esempio.
Non bisogna essere acuti futurologi per capire come in un tempo relativamente breve, sarà la rivista cartacea ad essere l’eccezione. Prima che questo avvenga davvero, però, si dovranno verificare un certo numero di cose. Tra queste:

  • la diffusione di massa di tablet e dispositivi “leggeri” idonei alla fruizione comoda delle riviste e dei contenuti digitali in generale. Come dicevamo all’inizio, non è certo comodo leggersi la propria rivista preferita davanti al computer, fosse pure un portatile. Questi dispositivi – iPad, Android, o altro – si dovranno dimostrare facili da usare, sufficientemente economici, e realmente affidabili.
  • i prezzi delle sottoscrizioni digitali dovranno essere percettibilmente più bassi dell’analogo cartaceo (quando ci sia), in modo che la convenienza spinga gli indecisi e i lettori più “tradizionali” alla migrazione al nuovo formato
  • si dovrà evitare ogni sistema “vessatorio” di protezione dei contenuti, in modo che la gente possa magari spostare una rivista da un dispositivo ad un altro senza essere costretta ad astruse procedure per convincere il sistema che non sta “diffondendo impropriamente” la rivista medesima
  • la tecnologia di lettura dovrà dimostrarsi facile ed accattivante; dovrà essere semplice isolare un articolo, vederne le figure, ingradirlo o rimpicciolirlo, arrivarci dall’indice, etc… (il PDF non mi sembra la soluzione ideale, ad esempio)
Intanto dovremo presto fare a meno di Linux Journal cartaceo. Beh, non l’ho mai avuta una copia cartacea di Linux Journal. Vuoi vedere che ero già più avanti io….? 🙂

Loading

Se il leone ruggisce (male)…

La celebre canzone recitava Il coccodrillo come fa… In questo contesto mi viene piuttosto da pensare Ma questo leone come fa… ruggisce? O ha il raffreddore?

Infatti l’ultimo aggiornamento di Mac OS X, nome in codice Lion, ha portato una serie di interessanti novità (debitamente raccontate sul sito di Apple), epperò ha pensato bene di introdurre – perlomeno per molti utenti –  una serie di fastidiosi problemini (o problemoni), decisamente insoliti e non troppo nello stile Mac. 

Sono sbarcato su Mac OS X nel dicembre del 2008, con un MacBook da 13” che uso tuttora con buona soddisfazione. Utente Linux da molto tempo, ero abbastanza diffidente verso il sistema Mac (anche per motivi ideologici, diciamo la verità); la spinta al (parziale) salto è stata data da motivi di compatibilità con il resto del team che lavora (qui a Roma) nel progetto GAIA di ESA. Tuttavia con il tempo ho dovuto ancheprendere atto – quasi mio malgrado – che lavorare entro l’ecosistema Mac ha i suoi vantaggi. 
Mi sono anche abituato ad avere un sistema che funziona senza storie, senza dover per questo immettere astruse stringhe a linea di comando, e nel quale batte un solido cuore Unix. Ottimo per l’attività desktop, con potenti strumenti per lo sviluppo, solido e affidabile nell’utilizzo. Così pure passare da Leopard a Snow Leopard è stato semplice e deliziosamente lineare (a parte il fatto di dover pagare l’aggiornamento, com’è ovvio)
Così non è stato per il passaggio dal leopardo della neve al leone. Pur apprezzando il prezzo irrisorio dell’aggiornamento (per confronto, non so se qualcuno si ricorda i prezzi di listino di prodotti “imbarazzanti” come Vista Ultimate, ad esempio…), pur apprezzando moltissimo le innovazioni desktop, come le nuove gesture, che ne fanno un sistema operativo davvero comodo, per la prima volta in ambito Mac, ho dovuto registrare una serie di problemi che affliggono il “sistema desktop più evoluto al mondo” (sic). E poi mi sono accorto che non sono affatto solo miei: basta dare uno sguardo ad uno dei tanti topic nel forum di Apple che riguardano Lion.

Un magnifico Leone bianco (Crediti: Stano Novak, CC BY 2.5)

Due sono le noie principali che ho individuato nel mio Mac: 

  • l’indicizzazione Spotlight ora non riesce ad essere portata a termine (si avvia un processo decisamente avido di CPU, con conseguente ebollizione del portatile e ventola che gira all’impazzata, senza apparente via di uscita diversa dal killare il processo)
  • il disco esterno USB che uso “da sempre” per il backup via Time Machine, viene sì montato correttamente, ma il sistema non riesce più a produrre il backup.
Sono problemi – appunto – ampiamente condivisi, come ci si può accorgere girando un pò in rete. E probabilmente non sono i soli. Insomma, Huston abbiamo un problema. Più precisamente, Something is cleary wrong with Lion, come recita sconsolatamente un utente nel forum di Apple.
Decisamente. Rinunciare (ancorchè temporaneamente) ai backup di Time Machine e all’indicizzazione del disco rigido per Spotlight – due delle più comode caratteristiche di Mac OS, è seccante. E il primo aggiornamento non ha risolto nessuno dei due problemi.
Irritante.
Hanno avuto fretta con questo Leone? A parer mio, molte di queste cose si sarebbero potute risolvere con un “testing” molto più esteso del nuovo sistema operativo (e va anche detto che Apple ha vita facile per i test, perché la varietà dell’ hardware su cui deve girarare il suo sistema è molto circostritta e assolutamente controllata dalla stessa Apple.. pensate ad una distribuzione Linux, al confronto, ma anche una release di Windows…)
Ora non vorrei dire qualcosa di “ideologico”, ma ecco… davanti a questi problemi, non ho potuto non pensare al modello open source, per il quale le nuove release – poniamo – di Ubuntu, sono disponibili per l’intera comunità, che può sperimentare e segnalare bugs e problemi per tempo. Certo, anche lì poi possono venir fuori problemi “post rilascio”, non siamo ingenui. Va anche detto che fino a Lion il sistema sembrava funzionare egregiamente.
Epperò sono persuaso che qualche guaio del Leone, oso dirlo, potrebbe essere proprio dovuto al modello di sviluppo e al testing “chiuso”. Esagero?

Loading

Ma dove sono tutti i libri? (II)

(La prima parte del racconto la trovate a questo link).

“Dunque quello che devi sapere non è molto…”, Iniziò Stefano con la sua aria più saccente, quella che così facilmente le dava sui nervi. Giada avvertì un brivido lungo la schiena, la sensazione di stare scivolando lungo un copione già preparato. La sensazione era che le sue obiezioni, lungi dall’aver smosso le acque, fossero già stata accuratamente prevista, già messe in debito conto. Si sentì piombare addosso un senso spiacevolissimo di inesorabilità.

Rimaneva un tentativo da fare, probabilmente inutile. Sicuramente, inutile. Però, insomma, andava fatto.

“Beh Stefano, a pensarci bene, sai…”, Giada inghiottì un pò di saliva, “non mi serve che mi spieghi anche questa cosa nuova qui, questo… lettore”. Disse appunto “lettore” con tutta la distanza che riusciva a mettere in una sola parole, con tutta l’alterità possibile che lei, da donna, riusciva a mostrare per qualcosa che non la coinvolgeva. Tanto per dire: io e lui non abbiamo niente in comune, non abbiamo intersezioni, interazioni, siamo su due mondi diversi, lontani, mutuamente indifferenti, se non antagonisti, opposti. Perlopiù ci ignoriamo completamente; anzi, io mi vanto di ignorarlo, il lettore e tutto il suo mondo. Per me ci sono i libri, i cari, vecchi, semplici, comprensibili, amati libri di carta.

Stefano si bloccò un attimo a guardarla, a tentare di comprendere il livello di serietà dell’obiezione.

“Sì, naturalmente” disse con intonazione piatta, come uno che, facendo esperienza di una volontà estranea e conflittuale alla sua, è pur costretto a prenderne atto.
Per un momento dunque Giada ebbe l’impressione di aver stravinto. Partita giocata in casa, finita con un bottino pieno.
“Naturalmente, non entrerò nei dettagli che non ti interessano”, concluse Stefano come per manifestare compiutamente il suo pensiero.
“No, eh?” mugolò Giada. Mamma, ma che era successo? L’arbitro aveva fischiato, annullato il gol. La partita riprendeva, la squadra ora giocava in difesa, arretrava. Di più: subiva, era sbandata. Accusava il pressing, improvvisamente. I tifosi pure, fischiavano. Difatti a Giada fischiavano le orecchie.
“No, tranquilla.” Sorrise Stefano come sorride il dentista, mentre prepara i suoi strumenti di tortura.
“Certo, va detto per incominciare che…”
“Per in-co-min-cia-re ?” gemette Giada. “Abbiamo poco tempo, lo sai”
Stefano la guardò con un’espressione di compatimento. A Giada venne da chiedersi se anche alla ragazza di Stefano toccassero tutte queste tediose spiegazioni per qualsiasi cosa, oppure impiegassero il tempo in maniera più interessante.

“Dunque prima di tutto va detto che questo non è un computer, o un tablet”
“Ah. Non è come l’iPad insomma?”, chiese Giada nel mentre che si riprendeva, respirando fondo.
Stefano la guardò corrucciato, con espressione di bonario rimprovero.
“Allora, un tablet, tanto per essere chiari, non deve essere per forza un iPad. Solo perché siamo abituati a farci infinocchiare da tutto quello che ha il marchio con la mela, che tra l’altro paghi di più che…”
“Ok ok, chiarissimo, dicevo per dire”, si affrettò a specificare Giada, annotando mentalmente un primo errore. Mai menzionare i prodotti Apple a Stefano; sembrava che ci avesse litigato. O che gli avessero fatto qualcosa, non si capisce bene (ma non le andava punto per niente di chiedere maggiori dettagli).
“Ebbene” proseguì Stefano, fattosi più tranquillo, avendo fatto repentinamente sparire l’iPad dalla conversazione, “la prima cosa da considerare è il display. Questo qui sfrutta una sorta di inchiostro elettronico, tutt’altra cosa rispetto ad uno schermo luminoso.”
“Tutt’altro, eh?” Giada odiava infilarsi in queste conversazioni in cui non poteva che rivestire il ruolo analogo a quello di un Simplicio nei dotti discorsi dei filosofi. Eppure non vedeva altre possibilità.
“Ma certo! Guardalo bene, questo non è retroilluminato, non stanca la vista. E’ molto definito, ha ben sedici livelli di grigio. E poi consuma pochissimo. In realtà, consuma solo quando giri pagina.”
“Non è illuminato? E’ vero non fa mica luce.”, disse Giada accostandosi di più a Stefano. “Al buio non si vede allora?”
“Perché i libri tu li leggi al buio di solito?”
Ora che c’entra, pensò Giada. I libri no, non li posso certo leggere al buio. Ma questa cosa elettronica non è un libro. Un libro, cavoli, si fa capire. Questa è una cosa elettronica, con dei tasti, delle opzioni da decidere, delle cose da sapere. Devi essere malato di tecnologia, probabilmente devi essere nato con un… insomma, devi essere un maschio. Un libro è un amico, questa cosa qui ispira diffidenza, mi è abbastanza ostile. Lui lo sa bene, che io non ci capisco di cose tecniche; non sopporta che io non perda tempo per capirlo, e allora mi è ostile.  Con tutti i suoi transistor e i suoi astrusi circuitini, mi manifesta ostilità. Ha tutti questi circuiti che sprizzano odio verso di me. E’ chiarissimo.



“Perché devi abituarti a pensare questo aggeggio esattamente come un libro…”, chiosò Stefano con aria dotta.

Ecco, appunto.
“Come un libro?”
“No, anzi no. Come tantissimi libri. Tutti qui dentro”
Così dicendo si allontanò di qualche centimetro, distolse un momento lo sguardo. Non lo voleva ammettere, ma il profumo di Giada lo distraeva. Di botto, perdeva il filo delle cose che voleva dire. Di colpo sembrava tutto meno importante, ogni linea di pensiero indebolita, fiaccata da una misteriosa sensazione, come di affondare in una morbidezza ipnotica, appiccicosa.
“Ma non è meglio un libro vero, che giri le pagine, lo tocchi, senti la consistenza della carta…”
Meno male, Giada non sembrava essersi accorta di nulla. Stefano respirò a fondo. Ora tornava a vedere più chiaro.
“Come vanno i tuoi muscoli, Giada?”, le chiese di rimando.
“Eh?” Ma che è impazzito? Cosa c’entrano ora i miei muscoli?
“Sì dico, ce la fai a portarti a braccio 47 volumi?”
“Quarantasette? Non direi, non penso proprio”
“No chiedevo, perché qui dentro ora ce ne sono quarantasette…”, gongolò Stefano.
“Ok, lasciamo stare la faccenda della consistenza della carta. D’accordo”.  Secondo goal subito. Squadra sul tracollo, rischio retrocessione. Tifosi imbufaliti sugli spalti. L’arbitro fischia. Le orecchie fischiano sempre di più. Ragazzi, qui si finisce in B e nemmeno ce ne siamo accorti.
Ma ecco, improvvisamente un passaggio esaltante. Giada aveva l’idea giusta, eccola! Basta lanciarla, ora.  Palla spedita oltre la metà campo. Stefano subisce un contropiede, Giada può tirare in porta!
“Perfetto! Quarantasette libri.. Così se ti si rompe il coso, il lettore, oppure te lo rubano.. Ti perdi una biblioteca intera. Bravo, bravissimo. Ma che bella la tua tecnologia!” Giada gongolava, immaginando il trionfo. Solo questione di secondi: giocatori contenti della rimonta, pubblico in visibilio,  commentatori increduli.
Nel quadretto, soltanto stonava la strana tranquillità di Stefano. Sarà tattica da due soldi? Giada non ne era convinta.
Difatti, ecco che arrivava lesto il contropiede.
“Non mi perdo un fico secco. Ogni libro è presente anche sul mio computer, dove mantengo un database centralizzato di tutto il materiale. Sai, gestisco la mia libreria sul mio desktop linux con Calibre, un software open source, e mantengo sempre più copie di ogni libro, spesso in diversi formati. Per maggior sicurezza ogni notte alle quattro Back in Time si preoccupa di fare il backup incrementale dei miei dati su un disco separato. Documenti, musica… libri inclusi, ovviamente.”

Una schermata di Calibre.. dal PC di Stefano 😉

  Il tracollo è completo. Goal annullato, delusione cocente, squadra di nuovo allo sbaraglio. I tifosi abbandonano gli spalti per protesta. Altri, preda della delusione, innalzano striscioni con scritte irriferibili. Giada, disorientata, riparava in una sterile difesa d’ufficio.
“Va beh, ma la consistenza della carta…”
“Sì, certo. Ora, la cosa interessante è che tu puoi non solo leggere, ma anche annotare i tuoi libri. Se vuoi, puoi anche inviare le tue annotazioni su una pagina web apposita, così puoi far sapere a chi ti segue – chessò, sui microblog o sui social network – cosa stai leggendo e soprattutto cosa ne pensi. Io lo trovo molto comodo e divertente.”
“Cioè insomma, se leggo un libro devo scocciare tutti con le mie impressioni…”
“Non è che DEVI. E’ che, se ti va, lo puoi fare” puntualizzò Stefano.
“Ma come ce lo metti un libro, qui dentro?” chiese Giada che – avendo ormai ritirato i giocatori – veniva in pratica a congratularsi con il vincitore.
“Ah non è difficile. Puoi metterlo dai tuo computer, con il cavetto usb, oppure con il bluetooth. Trovi un sacco di libri a basso prezzo, o anche gratis, in diversi siti.”
“Ok, e se voglio un libro mentre sto in vacanza? Non ho il computer? Con i libri veri, vado in una libreria e mi scelgo qualcosa…”
“Qui non serve nemmeno. Dal lettore ti puoi collegare al negozio di libri, scegli quello che ti piace e te lo scarichi”
“Come mi collego scusa?”
“Allora, qui dentro c’è la connessione 3G incorporata. Ti permettono di navigare gratis su internet, ma ovviamente solo sul sito del loro negozio…”
“Curioso eh”, ammiccò Giada
Stefano non raccolse. Si chiese perché oggi fosse così sensibile alla sua vicinanza. Giada ora gli fa una tenerezza dolce, gli vien quasi voglia di stringerla, magari carezzarle piano i capelli. Forse dovrebbe tirar fuori una scusa e andar via. Però non sa come districarsi, dopotutto le ha promesso il suo aiuto.
“Comunque non paghi la connessione”, le disse, tentando di restringere i suoi pensieri ad un ambito squisitamente tecnologico.
“Però i libri li paghi” puntualizza lei.
“Certo, mica stanno lì per beneficenza, no?”
“No, era per capire…” fece Giada un pò seccata. Inspiegabilmente Stefano si era un pò spostato da lei, non riusciva più a sbirciare lo schermo del lettore. Che gli faccio paura? Ma mica glielo rovino il suo bel libro elettronico, insomma…

“Va beh, ma non è meglio che cominciamo? Sennò poi non si fa in tempo a finire…”, disse Stefano sempre nel suo modo focalizzato.
“Cominciamo? Ahh sì sì.” Giada si era quasi dimenticata. E’ che stava bene a parlare così, ora. A battaglia finita, si sentiva rilassata. Non aveva più niente da perdere, ormai era acclarato, sotto il profilo tecnico era una schiappa. Poteva smettere di nascondersi. E si era dimenticata il motivo per cui Stefano era venuto da lei.
Di fatto, stavolta dovette forzarsi un pò.
“Sì, hai ragione. Cominciamo. Vediamoceli, questi libri che avresti portato, va…”

Loading

Software per ebooks, ecco FBReader

Mi piace sempre di più, questo semplice ma efficace lettore di ebook. Parlo di FBReader, un lettore per Linux e Windows (e anche per Android). Lo uso con soddisfazione sia sul mio HTC Wildfire che sullo “sfortunato” tablet Toshiba Folio 100. Mi piace perché è semplice e si adatta molto bene a schermi di varia dimensione: ottimo sia sul 10 pollici del Folio che sullo schermo piccolino del Wildfire (e volendo posso usarlo anche sul desktop con Ubuntu). 
Inoltre nelle versioni più recenti è stato introdotto un sistema di annotazioni che trovo molto comodo. Si può selezionare una parte di testo che verrà inserita nella lista di annotazioni, in modo da ritrovarla con comodo in un secondo tempo (io la uso per tenere una lista di frasi “importanti” dei libri di Valerio Albisetti o della “Scuola di Comunità” di Juliàn Carron). Quello che apprezzo molto è l’opzione, formalizzata con due tab nella parte alta della pagina dei bookmark, che permette di transire dalla lista delle annotazione per il libro che si sta leggendo a quella per TUTTI i libri nel propri archivio. Ottimo per ritrovare facilmente un elenco di passaggi notevoli, che nel corso del tempo vengono a costituire, per ogni lettore, un piccolo ma importante “tesoro” cui poter far riferimento in ogni istante.
FBReader nella funzione di ricerca 
Certo non è che non abbia limitazioni; ad esempio i libri in formato epub protetti dal certificato digitale di Adobe non possono essere letti (e ahimè sono proprio tanti); inoltre non interpreta – mi pare – il foglio di stile a volte associato ai libri. Però a parte quello garantisce comunque una ottima esperienza di lettura, grazie anche alla barra inferiore, studiata per fornire una grande quantità di informazioni sul libro e sullo stato del device in un piccolo spazio: ingegnosa in particolare la rappresentazione grafica delle varie sezioni con la barra di avanzamento, che consente a colpo d’occhio di capire a che punto si è, e non ruba spazio nemmeno negli schermi piccoli degli smartphone)
Certo siamo lontani da sistemi integrati (ma blindati) come quelli appartenenti all’ecosistema di Amazon, tanto per dire, che in più offrono il WhisperSync tra un device e l’altro: grazie a questo si può iniziare a leggere sul Kindle, continuare sull’iPod, riprendere la lettura sull’iPad o sul tablet Android, aprendo ogni volta il libro alla posizione esatta in cui si è lasciato. Ma appunto è un sistema chiuso, ancorché apprezzabile, i cui libri non possono essere letti che con quel dato software. 
Insomma, per leggere gli epub “aperti” o con social DRM (l’unico sistema di “protezione” che mi sembra non imponga inaccettabili restrizioni agli utenti) per semplicità ed efficacia, FBReader fa secondo me un ottimo lavoro. Che ne dite? Avete un altro software di preferenza?

Loading

Sbagliando… divertendosi!

Si possono imparare molte cose anche dagli sbagli: questa è una regola di vita praticamente assodata, e non serve certo ribadirla in questa sede. Però ha una declinazione interessante anche nel web: così, in maniera simile a quanto abbiamo fatto per i siti di Ubuntu, Apple e Microsoft, vediamo un pochino cosa succede quando digitiamo l’indirizzo di uno dei famosi motori di ricerca, appendendo volutamente alla URL una stringa di nessun significato (ovvero cercando nel dato dominio una pagina chiaramente inesistente). Il server ci deve rispondere che quella pagina, naturalmente, non c’è. Abbiamo fatto una richiesta sbagliata. Ma come gestisce il nostro sbaglio? Questa è la parte interessante, secondo me.
Un esperimento facile facile…
Allora proviamo con Google, inevitabile prima opzione. Ecco cosa accade:

Un robottino triste e spezzettato (o meglio, triste perché spezzettato, con ogni probabilità) ci accoglie informandoci che la pagina che cercavamo non esiste sul server. Non manca neanche il dettaglio tecnico: è un errore “404”, pagina non trovata. Ad ogni buon conto, conclude con “è tutto quello che sappiamo”. Come a dire, ci spiace, ma la questione è chiusa.

Andiamo ora su Bing, il motore di ricerca Microsoft. Cerchiamo una pagina inesistente e vediamo cosa accade:

Ci accoglie giustamente in italiano, intanto. In maniera sobria ci dice che la pagina non esiste, e si mostra volenteroso per aiutarci a uscire dall’errore in cui, evidentemente, ci siamo incastrati. I suggerimenti sono un pò generici, ma non si può chiedere di più, perché il povero Bing non ha idea, in realtà, di come mai siamo finiti a chiamare una pagina che non c’è.

Cosa fa invece il “vecchio” padrone della rete, i re del web1.0, ovvero il celebre Yahoo! ?

Ecco qui cosa ci presenta:

Stavolta in inglese – ma similmente a Bing – si prodiga in un paio di generici suggerimenti, dopo essersi scusato perchè la pagina cercata non esiste (colpa nostra, a dire il vero, non certo sua). Forse un pochino asettico, come del resto Bing.
Conclusioni
Che dire… sarò di parte, ma la pagina più simpatica secondo me, è proprio quella di Google, che non cerca di aiutarti in maniera generica. Anzi ammette la failure (mia, sua, non è specificato, e forse non conta) con quel robottino simpatico ma triste (tuttavia, il fatto che brandisca una chiave inglese nell’arto meccanico fa pensare che le speranze per una ricomposizione armonica siano tutt’altro che esaurite), e poi conclude laconicamente con “è tutto quello che sappiamo”, da cui però traspare un intento ancora giocoso, a mio avviso.
Di converso, le pagine di Bing e Yahoo! mi fanno pensare ad un ambiente tipicamente da “ufficio” piuttosto serioso e non molto esaltante (mi perdonino quelli che hanno esperienza di uffici frizzanti, non vorrei generalizzare). Informativo sì, ma non troppo, collaborativo certo, ma non troppo; comunque con poco tempo e spazio per scherzare su una richiesta sbagliata. 
Tendenzialmente vengo attratto dalle cose giocose, così la mia simpatia va a Google, senza tentennamenti. Dopotutto, se ho usato per anni linux anche quando era (diciamolo) veramente un’impresa  avere un ambiente desktop veramente operativo e competitivo con altri sistemi, è stato quasi esclusivamente per il senso di avventura e di giocosità insito nel movimento culturale open source
Difatti, se ti diverti, se si desta il senso di scoperta, superi un sacco di ostacoli con una facilità incredibile.
Ora me ne rendo conto: ci voleva un errore, per scoprirlo.

Loading

In Twitter non si può

Ogni tanto mi viene da pensare che Twitter, al quale riconosco una buona serie di meriti e di caratteristiche “virtuose”, stia però influenzando un pò “perniciosamente” la comunicazione sul web, spingendola verso una eccessiva brevità e frammentazione. Non so dire se la nostra ridotta capacità di seguire un discorso esteso e articolato senza distrazioni possa risentire della frequentazione della nostra timeline (come qualcuno sostiene), o sia piuttosto un sintomo di una attitudine moderna ben più generale, ma di certo a volte mi infastidisce la scelta filosofica “tanti stimoli ma brevi” che sottende all’implementazione di Twitter: come se non ci fosse niente che meritasse un’attenzione superiore alla manciata di secondi (o alla frazione di essi).
Sistemi di microblogging alternativi a Twitter ci sono, con caratteristiche interessanti. Purtroppo il loro impiego effettivo e quotidiano, al di là dell’esplorazione delle loro caratteristiche, si scontra con il fatto che la base di utenti è sovente particolarmente ridotta, spesso a dispetto del loro intrinseco “valore”. Più volte in questo blog ho elogiato le doti di Qaiku, che mi sembra una delle piattaforme più valide in questo senso: il modello “ibrido” di “messaggio corto + risposta lunga”, mutuato da Jaiku, permette di sviluppare conversazioni interessanti e non necessariamente “costrette” a brevi botte e risposte dal medium medesimo, come in Twitter. 
Ecco, questa discussione  su Arch Linux ad esempio in Twitter (o in Identi.ca, che ne mutua diverse caratteristiche pur apportanto interessanti innovazioni), non si sarebbe potuta fare…
Un thread in Qaiku. Come spiegare le doti di Arch linux, su Twitter? 🙂
Eppure Twitter è diffusissimo (anche per diversi indubitabili pregi, non lo metto in dubbio) invece Qaiku – che dalla sua presenta una serie di altre caratteristiche interessanti, come il filtro per linguaggio, l’importazione di feed RSS, i gruppi – non lo usa quasi nessuno, almeno da noi.

Ammettendo che la mia visione delle sue qualità risulti condivisa, ebbene, non sarebbe la prima volta che a vincere non è il migliore…. Ora dirò una cosa su cui si può forse dissentire… ma quant’è superiore la base di utenti di Windows XP rispetto a quella di una moderna qualsiasi distribuzione linux…??

Loading

Ma Livia, poi…

  Stefano non voleva aspettare. Era fatto così, su certe cose era decisamente impaziente. Ok, è vero che Ubuntu esce tutto nuovo (o quasi) una volta ogni sei mesi. Due volte all’anno non è male, tutto sommato, come frequenza. Eppure ogni volta, all’approssimarsi dell’uscita della nuova versione, ricominciava a friggere d’impazienza.
  Certo la novità non era poi una vera novità, ormai. Da tempo aveva dischiuso i meravigliosi segreti della virtualizzazione, quell’arte sottile del riprodurre un sistema dentro un altro sistema. Aveva scaricato Virtualbox e lì dentro si divertiva ad istallare tutte le versioni di linux che gli piaceva, incluse le varie versioni preliminari del suo amato Ubuntu. Spesso le istallazioni duravano una settimana o poco più: comprese le caratteristiche, se non lo entusiasmavano, Stefano le buttava via per fare spazio ad altri tentativi, altre novità.  
  Era proprio una gran cosa; non doveva nemmeno masterizzare i CD, scaricava la versione “iso” dalla rete e la dava in pasto a Virtualbox; dopo qualche minuto aveva tutto pronto, il suo nuovo giocattolo bello e sistemato per l’uso, senza dover influire minimamente sul sistema (tipicamente, negli ultimi tempi, la Ubuntu più recente, con le dovute aggiunte e le impostazioni “ad hoc” operate da Stefano).
Prima era un inferno, invece. A forza di istallare versioni di linux, per provare come si comportavano, aveva ridotto il disco rigido in una serie di fettine piccole piccole, e ogni volta doveva districarsi tra complicati menù per far partire l’una o l’altra. Per non parlare di quando per sbaglio sovrascriveva le impostazioni corrette e non riusciva più a far partire la versione “giusta” di Ubuntu, quella con la quale lavorava normalmente. La virtualizzazione aveva posto fine a questi insidiosi problemi.
  Però un aggiornamento “vero” era sempre un’altra cosa. Il sistema che usava tutti i giorni, diventava tutto nuovo. Di colpo, il desktop che passava da Gnome ad Unity, tutte le librerie aggiornate, tante altre cose nuove da studiarsi, con calma.
  Il giorno dell’uscita di Natty, la versione 11.04 di Ubuntu, era tornato presto dall’università. Fatto un backup di sicurezza (si sa mai) aveva lanciato subito l’update, indi assorbito con attenzione esagerata – da puro geek – tutte le scritte a video mentre l’aggiornamento veniva portato a termine in una seducente tranquillità.
  Però prima ‘ste scritte erano molto più tecniche, si sorprese a pensare. Tipo updating gcc-232.323.23 resolving dependencies for xorg removing old lilo configuration files senza alcuna immagine. Solo linee di testo senza grafica. Potevi capire un botto se stavi attento. Liscio, non troppo attraente, pulito. Però ti faceva anche un bel pò di domande tecniche, dovevi saper cosa scegliere.
  Stefano sorrise. Giada, ad esempio, non l’avrebbe istallato mai. Le difficoltà di Giada con i computer gli mettevano tenerezza. Quel senso di bambina spaesata, lo intrigava, gli inspirava tenerezza. Oppure non era solo quello, a volte si sorprendeva a pensarlo. Che strano.
  Ora si erano fatti furbi, anche questi qui. Le informazioni tecniche erano più nascoste (ti dovevi cercare i maggiori dettagli cliccando sua una opzione un pò in ombra sul desktop, del tipo “questa la scopri solo se sei abbastanza fissato, se sei una persona normale manco te ne accorgi”). Se non facevi nulla – come era supposto che facessi (tipo Windows, insomma) ti scorrevano davanti una serie di immagini molto catchy (o supposte tali) che ti facevano assaporare le diverse virtù irrinunciabili del sistema che stavi istallando. Cose molto colorate, che possono capire tutti. E non ti chiedeva niente di complicato.
  Insomma, anche su linux la tecnica cedeva un pò il passo all’immagine. O perlomeno, la cura nella presentazione del prodotto era molto aumentata. Era diventato un qualcosa per la gente comune, non solo per quella con il pallino della tecnologia, che ricompilano il kernel i giorni pari e quelli dispari scrivono applicazioni per Android.

Ubuntu 11.04
Ubuntu 11.04 con qualche applicazione aperta…

  Era quasi arrivato al momento fatidico. Sistema istallato, ci vuole un reboot e vai, vediamo subito il nuovo sistema.
  Il suono del telefono lo fece sobbalzare mentre era fisso davanti al monitor, quasi con il fiato sospeso.
  “Stefano, ciao. Ma sei ancora a casa? Non ci dovevamo vedere alle sei?” la voce di Luisa era gentile come al solito, ma tradiva un pò di perplessità.
  Per tutti i virus di Windows, si era completamente scordato!
  “Oh sì scusa è vero… arrivo subito. Stavo aggiornando il computer e il tempo è volato…” disse Stefano
  “Ci avrei scommesso…” replicò all’altro capo del filo una voce in bilico tra la paziente comprensione e un moderato e ragionevole sconforto.
“No, ma arrivo, arrivo” si affrettò ad aggiungere Stefano.
“Ok ti aspetto. Dài che poi ho detto a Livia e Angelo che ci saremmo visti alla gelateria.”
“Sì tra poco sono lì, tranquilla. Un bacio”. Ora, se questo si sbrigasse, non posso uscire senza vedere almeno se funziona… dài fai questo reboot… spicciati. Stefano prese le chiavi, il portafoglio e il giaccone. Ripassò vicino al computer. Ecco, finalmente è pronto. Faccio il login. Ah ah funziona; ma che bello il nuovo sfondo. E queste grandi icone sulla parte sinistra. Curioso, devo capire se mi piace o se migrare su Gnome 3. Beh fammi andare sennò Luisa stavolta mi spella vivo.
  Spense il PC a malincuore.
  Se non torno troppo tardi un pò ci gioco stasera stessa, però. Pensò Stefano chiudendosi la porta alle spalle. Ma Livia, poi… ma chi è?


Indice dei racconti

Loading