Blog di Marco Castellani

Categoria: Musica Page 1 of 8

Un (altro) tè per il timoniere

Ci sono canzoni che rimangono, e altre che volano via subito. Ci sono pezzi che traversano i decenni, e con il tempo diventano solo più robusti, si assestano in un loro ambito, creano il loro spazio. O meglio, lo spazio per loro c’era, e lo riempiono bene. Esiste lo spazio, per tutte le cose utili. C’è sempre, questo spazio. Forse solo le immondizie musicali per dirla con Battiato, faticano a trovare spazio, non lo trovano facilmente, non si sedimentano, rimangono appena un istante, ad aggiungere rumore a rumore. Il rumore dell’inutilità.

Sono di parte, ovviamente, e voglio esserlo. Sono convinto, per ribadire, che tanto di Sanremo 2021 volerà via presto, e non lo rimpiangeremo. Sì sono di parte, persuaso che è necessario per dare sapore al discorso, per non sbiadirsi nel politicamente corretto e nel lodare tutto ciò che è contemporaneo, nel mostrarsi comprensivi e aperti fino a non distinguere più la fuffa dalla sostanza, fino magari ad avere una buona parola per tutto, che è l’anticamera della dispersione (e della disperazione) più completa.

Peraltro, alla fine è il tempo che decide. Il poeta e filosofo Marco Guzzi, nella sua appassionata conferenza su Holderlin di qualche mese fa, raccomandava di frequentare principalmente quei libri che hanno traversato i secoli. Credo si possa dire anche per la musica, e per la musica moderna ugualmente (magari restringendo un poco l’arco temporale per la verifica).

Il cantautore inglese Cat Stevens, classe 1948, è noto anche in ambito extramusicale per la sua improvvisa conversione all’Islam, che lo indusse ad un prolungato silenzio. Aveva calcato con grande successo le scene musicali degli anni settanta del secolo scorso, consegnandoci capolavori ispirati e sognanti. Come Tea for the Tillerman, per esempio. Album uscito esattamente nel 1970, che contiene canzoni ancora notissime come Wild Word, che conoscono (e forse canticchiano) perfino i sassi. O anche, Father and Son.

Portate un (altro) tè al timonere, perfavore… 

Incontrai questo disco durante una vacanza all’Argentario a casa di un amico, avvenuta appena dopo il conseguimento della maturità (partimmo in quattro in bicicletta da Roma, fu un’impresa, di quelle che invecchiando inizi a raccontare a tutti, temo anche a sproposito). Era su una cassetta Stereo 8, se ben ricordo. Veramente, cose di un’altra epoca, ormai.

Un album che ho amato tantissimo, da allora. Che ancora amo. Qualcosa capace, appunto, di traversare i decenni (all’anagrafe, sono cinque abbondanti, da quando è stato registrato). Se lo ascolti adesso non ti sembra datato, non senti quel sapore di arrangiamenti vecchi, di schemi abusati. Forse per la sua essenzialità (non concede molto a vezzi armonici che non siano funzionali al progetto), la sobrietà espressiva – unita ad una robusta vena melodica – riesce ad uscire indenne dal consumarsi delle varie mode musicali.

Va da sé, in molti hanno ripreso questi brani, hanno realizzato cover, hanno provato a renderli più attuali (cosa che appunto, secondo me, non serve). Ma il disco originale del 1970 è rimasto comunque il punto di riferimento. Cinquant’anni e passa, portati decisamente bene, che altro dire.

E tutto sarebbe rimasto così, magari. Se non che, il maestro ha deciso di ritornare sulle scene, da qualche anno. Certo è invecchiato, ma la sua figura è ancora affascinante e – quel che più conta – la sua voce è notevole.

E nonostante l’età, non ha paura di confrontarsi con il suo passato più glorioso. Ma i veri artisti sono così, riprendono il loro passato e ci giocano. Mi viene in mente Mike Oldfield con il suo incredibile Return to Ommadawn, per citare qualcosa di quasi altrettanto recente.

Cat Stevens ha deciso di ripercorrere tutto l’album che lo ha reso immortale, canzone per canzone. Interpretandolo nuovamente, a cinquant’anni di distanza. Ecco dunque che nel 2020 – l’anno terribile della pandemia – esce Tea for the Tillerman 2. Già qui mi sorprende. Prima ancora di ascoltare, mi incanta la mancanza di paura nel ritornare su qualcosa di così famoso. La tranquillità di non temere confronti, di proporre ancora qualcosa e non lasciare un album come questo, a sfavillare indisturbato nella sua gloria.

Nel brano di apertura, da come la vedo io, c’è già il senso di questa operazione. Where Do The Children Play è fedele all’originale, fino al dettaglio, eppure allo stesso tempo è nuovo. Qui c’è l’alchimia segreta che governa tutto l’album, in proporzioni variabili a seconda del brano, ma presente dall’inizio alla fine. Le nuove interpretazioni non stravolgono, non negano, non fanno violenza alle vecchie. Piuttosto, costruiscono su una fedeltà al dettato originale. Fedeltà dalla quale, soltanto, può veramente nascere il nuovo. Il nuovo nasce sempre da un’amore a ciò che esiste, da un (anche implicito) omaggio alla tradizione.

E mi meraviglio, di fronte ad alcune variazioni così semplici, ma anche così inaspettate, di come nessuno ci avesse mai pensato. In questi anni, nessuno l’ha fatto. Qui credo che conti moltissimo il fatto di averle scritte, queste canzoni. Sì, capisci che l’autore ha in testa uno spettro ampio di possibili incarnazioni di una idea, e che quella che decenni fa è finita sui dischi, è appena una delle molte possibilità. Perché qui magari ne sceglie altre, con una facilità e sapienza che tu non capisci da dove venga fuori. Cioè, nessuno come chi ha ideato qualcosa, riesce a modificarla e a rinnovarla così efficacemente, rimanendo fedele all’idea originale.

Questo rimane vero perfino nella canzone forse più sorprendente del nuovo album, Longer Boats, dove la rivisitazione è così profonda da cambiare perfino delle strofe, e dove c’è una virata decisa sul rap così temeraria che nessuno se non l’autore stesso avrebbe mai osato. Due minuti e mezzo assolutamente geniali, che rimani a bocca aperta. Tu, con la tua idea che Cat Stevens sia una cosa, e il rap un’altra. Con le tue caselline ben separate nel cervello.

L’espressione artistica scombina le varie caselline, frulla via allegramente tutte le distinzioni tra generi, tutte le gerarchie di valore che ci costruiamo. Tutte le nostre comodità mentali – ordinariamente così dure – si sciolgono come neve al sole, davanti alla pura meraviglia di qualcosa di bello. Sia un quadro, un libro, un film. O come qui, una canzone. Che acquista nuova forza, senza rinnegare sé stessa, senza abiurare al proprio passato.

E convince che Cat Stevens con questo rinnovato atto di amore al proprio passato – passato che per un lungo periodo ha voluto silenziare – ci mostra come l’arte è amica della vera spiritualità, anzi che l’arte costituisce parte essenziale di ogni cammino spirituale. E che la forza di certe canzoni, non si smorza con il passare del tempo. Perché dietro le canzoni c’è un’idea e ogni forma è provvisoria. Chissà, se Beethoven fosse qui ora, come rivisiterebbe la Quinta, ad esempio. E certo non perché abbia bisogno di essere rivisitata! Del resto, mutatis mutandis, nemmeno queste canzoni ne avevano bisogno.

Ma la vera arte si esprima come una misteriosa sovrabbondanza. L’ha sempre fatto, e non dubito che lo farà ancora ed ancora. Per il diletto profondo del nostro cuore, e per venire incontro al nostro bisogno di consolazione, anch’esso così misteriosamente grande.

Loading

Di tutte le impressioni…

Parto da questo flashback. Sole, molto molto sole. Caldo. Estate piena. Sono al mare. A conti fatti, credo sia il 1982. Campeggio sulla Feniglia. Sto ciabattando intorno all’ingresso (forse vengo dalla spiaggia, o ci sto andando), sabbia, macchine parcheggiate, afa. Da qualche altoparlante esce la musica di Franco Battiato. Chi è costui? Fino a qualche mese fa nessuno ne sapeva niente, nessuno lo conosceva. E quest’estate ecco, è esploso. Non si ascolta altro.

Ricordo bene questa impressione. Dappertutto passano quasi solo le canzoni di questo album. La voce del padrone. Io ragazzo quasi ventenne, ripenso ai dischi con il cagnolino seduto davanti al grammofono. Papà o mamma mi avevano spiegato l’arcano, la riproduzione del disco è così fedele che il cane riconosce appunto, la voce del padrone. Avevamo anche dei 78 giri, a casa. Oggi farebbe sorridere il pensiero che il cane possa cogliere alcuna differenza tra lavoce reale e quella riprodotta: non ci riusciamo più nemmeno noi.

Il famoso cagnolino della casa discografica La voce del padrone

Torno a quell’anno, a quel disco. Il titolo mi piace, lo trovo intrigante. Le canzoni sono carine, orecchiabili ma non stucchevoli. Si sopporta facilmente il fatto che, in vacanza, vengano sparate ovunque, ad una frequenza quasi improponibile. Qualsiasi altra musica, ripetuta a questo livello, avrebbe portato al collasso. Sfibrata dal ripetuto ascolto, avrebbe presto mostrato il suo limite. Questa, resiste.

Personalmente, mi trovo nella piena fase cantautorale. Branduardi, De Gregori, Venditti, Guccini, Bennato. Un po’ di Cocciante (poco, quelli troppo romantici li guardo ancora con la puzza sotto il naso). Niente Battisti (la cosa è francamente incredibile, e me ne scuso: ma avrei recuperato dopo). Questo Battiato non lo pratico molto. Ma non lo praticava molto quasi nessuno. Fino a quel momento, almeno.

Dice Wikipedia che è il suo undicesimo disco da studio. Beh io me li ero persi quasi tutti, senza fatica. Come tanti, del resto. Ma ora non si può più, non si può più far finta che non ci sia. Entrato di prepotenza nelle nostre orecchie, nel nostro cervello. Un pop facile ed ispirato insieme, testi sufficientemente misteriosi che non umiliano la tua facoltà di comprendere, ti lasciano addosso quel tanto di mistero che poi ti ricircola piacevolmente in testa. La sensazione che c’è sempre altro da capire, non è un palloncino che appena comprato si sgonfia. Addirittura, puoi non capire niente e te la godi lo stesso. Basta lasciarsi andare alle suggestioni che i testi evocano.

Gesuiti euclidei vestiti come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori, della dinastia dei Ming.

Non male per noi abituati – al tempo – a ritornelli profondi ed evocativi come quelli (esempio) dei Ricchi e Poveri, in circolo in quello stesso periodo

Che confusione sarà perché ti amo, è un’emozione che cresce piano piano; stringimi forte e stammi più vicino, se ci sto bene sarà perché ti amo.

Davanti a tutto questo, Battiato esplode come una cosa nuova, coraggiosa, impertinente. Coscientemente commerciale e insieme sperimentale. La quadratura del cerchio, in musica.

Ricordo quell’estate, e poi confusamente, alcuni dischi nel periodo universitario. L’era del Cinghiale Bianco, per esempio. Indimenticabile quell’ironia dissacrante nell’incipit di Magic Shop,

C’è chi parte con un raga della sera / E finisce per cantare “la Paloma” / E giorni di digiuno e di silenzio / Per fare i cori nelle messe tipo Amanda Lear

Con Battiato c’è questo, c’è il gusto del non capito che comunque restituisce una profondità marina all’intera questione (e per questo sulla Feniglia suonava benissimo), hai questa sensazione di stare sulla soglia di qualcosa di profondo, che già ti basta. Ti appaga, in qualche modo misterioso, arcano. Io non capivo nemmeno il titolo dell’album. Certo, Stereoplay nella sua recensione diceva qualcosa sul fatto che il cinghiale bianco fosse il simbolo della rinascita spirituale. Mi accontentavo di questo, anche se sulla rinascita spirituale non avevo esattamente idee chiarissime.

Mi misi a cercare altri dischi ed incappai presto nel suo periodo sperimentale. Del resto questi sui primi dischi erano entrati nelle collane economiche, potevo permettermelo, anche se non sapevo assolutamente cosa mi stavo portando a casa. Ma la curiosità musicale che nutrivo mi spingeva ad osare, a prendere dei rischi. In questo ero molto aiutato, capisco oggi, dall’accesso ad un repertorio abbastanza ristretto, ovvero quello che potevo permettermi di acquisire tra misurati acquisti e condivisioni di dischi di amici. Non c’era Spotify (per dirla tutta non c’era nemmeno Internet, e quindi l’assenza di Spotify era in qualche modo giustificata) e questo, in un certo modo, faceva gioco. Sì, perché eri spinto a non darti per vinto, sopratutto se avevi investito qualche soldo nella faccenda. Eri spinto ad andare a fondo della musica che avevi comprato con i tuoi sudati risparmi, invece di passare subito alla successiva, cambiare playlist con un click, o roba del genere. Non avere accesso a milioni di dischi ti spingeva a estrarre il massimo succo da quei pochi che avevi a disposizione.

Quindi, il disco che (ad un certo punto) avevo acquistato da Ricordi a prezzo popolare, era Juke Box. Devo dire, ci volle tutta la mia ostinazione musicale per non lasciar perdere, già a metà della prima facciata. Ma poi, cominciai ad entrare un poco nelle dinamiche di quel lavoro. Non ero certo di capirlo bene, anzi non ne sono certo nemmeno adesso. Ma qualcosa mi intrigava. La provocazione minimalista dei ben nove minuti di Martyre Celeste, per esempio. Illuminante o irritante, a seconda dei punti di vista (forse tutte e due le cose). O ancora di più, Hiver, per soprano e pianoforte. All’inizio fai fatica ma dopo un po’ ci entri dentro e quello si piazza dentro di te e ci rimane. Negli anni, rimane. Hai presente quando il soprano riprende con Quelquefois dans le crepuscule… e il pianoforte (galeotto) inizia a srotolare quel tappetino di note fintamente inoffensivo, che accompagnano lievemente, come in una promenade? Mi torna in mente anche ora, a distanza di anni che non lo ascolto.

Inciso polemico: quanta musica contemporanea (alta o bassa, d’élite o popolare) invece scivola via in un avvitamento intellettuale senza carne, senza sangue, senza umanità? Del resto, era sempre Franco che avvertiva, da Patriots, la musica contemporanea, mi butta giù. Chiudo l’inciso.

Potrei continuare ad agganciare rapsodici ricordi, ma poi mi chiedo chi leggerebbe fino in fondo (e se siete arrivati fin qui, vi prego lasciate un commento in modo che io vi possa quanto meno ammirare). Potrei, ma alla fine non servirebbe. Battiato è stato tutto questo anzi, è tutto questo, perché le opere di un artista non sono soggette alla corrosione del tempo, si muovono in un ordine diverso. Battiato è Hiver e Bandiera Bianca insieme. Qualcuno che comunque sia – adotti scaltramente il linguaggio del pop o si diletti nello sperimentalismo – ha un approccio geniale alla musica, non si fa incasellare in un genere. Soprattutto, non tira fuori sempre lo stesso prodotto.

Battiato è uno che ci ha insegnato – non con le parole ma con la pratica artistica – che i confini tra i generi musicali non esistono, sono invenzioni di comodo, riparo del pensiero pigro. Che il genio sorpassa ogni steccato. E che quando decide che si è stancato di giocare all’intellettuale e vuole parlare alle masse (per così dire) lo fa in modo semplice e non banale. Con una voce autorevole, la voce del padrone appunto. Padrone della musica e delle parole, che domina con irresistibile fantasia.

Un tipo che dedica metà di un disco fantastico, Come un cammello in una grondaia, a lieder di autori classici. E le canzoni della prima parte, così belle che oggettivamente non capisci più, non distingui, saltano gli schemi.

Uno che in un disco di cover di canzoni famose, Fleurs 2, ti inserisce a sorpresa un pezzo originale (non riesco proprio a chiamarla canzone) come L’addio, delicatissimo e struggente. Arte, senza ulteriori qualifiche.

E vorrei raccontarvi ancora di tanti tanti altri dischi, che ho amato e amo visceralmente. Ma inutile rincorrere il miraggio di essere esaustivi. L’arte del resto, non la possiedi, non la catturi, nemmeno con le parole. Al massimo, ti lasci catturare. In qualcosa che non ha una conclusione, non ha una fine. In un oceano di silenzio, potremmo anche dire. La vera musica è molto più amica del silenzio di quanto lo è la musica piccola, povera, sintetica. La vera musica gioca col silenzio, lo esalta, lo edifica all’interno del tuo animo affannato. Che così respira, di nuovo.

Riflettevo su questo, giorni fa. L’uscita di Franco dal mondo dello sperimentalismo è una sconfitta e una vittoria, insieme. Una sconfitta, perché è la presa d’atto dell’impossibilità di raggiungere un vasto pubblico, dentro i confini (diciamolo, spesso autoreferenziali) della cosiddetta “musica colta”. Una vittoria, perché di fatto è una iniezione di una massiccia dose di coraggio e di creatività nel mondo della musica di consumo. E’ vero, come dice lui stesso, che sul ponte sventola bandiera bianca. Ma è una resa di altissimo livello. Magari di grande furbizia, ma anche di notevole creatività. E appunto, di fantasia.

Lui ne aveva di fantasia, eccome. Come tutti i veri artisti, il suo transito terrestre (per citarlo ancora), il suo appassionato registro di tutte le impressioni che abbiamo in questa vita lascia un Universo più ricco, complesso, strutturato, di quanto era prima del suo arrivo.

E questo certamente basta, per la nostra gratitudine.

Loading

Sanremo 2021 (la musica muore)

Come molti, anche io mi sono messo ad ascoltare i brani di Sanremo. Ma non quello di adesso, no. Quello del 1999 (la versione breve del post, qui).

Ho provato sì, a sentire qualcosa di quello dell’anno in corso (tanto per restare sull’attualità), ma non mi ha preso niente, non ho avuto un solo sussulto. Sai quei sussulti che ti accadono davanti ad una sorpresa bella? Quelli, insomma. Niente. Se escludiamo momenti fuori gara, come Samuele Bersani che interpreta con (tal) Willy Peyote un capolavoro come Giudizi Universali. Che atroce distanza tra questo e le sciape canzoncine semiparlate che hanno inondato le nostre case! Dov’è il sapore? Dov’è fuggito? Dov’è il profumo? E la parola chiave, è rosmarino, avverte Lucio Battisti in un brano favoloso (questo sì) come Però il rinoceronte. Rinunciare al rosmarino non mai è senza conseguenze. Mai.

Il vero punto alla fine è questo, il rosmarino…

Non è che io sia contento di questo, anzi penso che sto invecchiando, che sono preda della sindrome dei bei tempi andati o cose del genere. Oppure che segretamente mi ritengo superiore e custode di chissà quale suprema verità musicale (pensiero francamente difficile da gestire).

Sono andato su Wikipedia per capire se fossi stato assalito da un sussulto di elitarismo, per cui le canzoni di Sanremo non sono vera musica, e tutte queste cose qui. E ho scoperto l’acqua calda, ovvero che in Sanremo sono passate anche canzoni molto belle, e a volte hanno perfino guadagnato i primi posti. Mi sono fermato sul festival del 1999 perché è uno di quelli in cui mi sento più a casa. Dove la mia sensazione di cose belle si incontra con una classifica oggettiva, matematica.

Cioè, niente da dire sui Maneskin (mai sentiti prima di adesso, comunque), non c’è molto da dire in effetti. Del resto, questa finta trasgressione molto patinata e commerciale, si commenta un po’ da sola. Ragazzi miei, la vera trasgressione è artistica, da quello poi segue tutto. Qui, dove la trovo? Se ti attesti sulla forma canzone più standard e non la forzi nemmeno un attimo, non so, un colpetto di batteria fuori da quando l’aspetto, un silenzio appena più lungo, una ripresa lievemente diversa dopo il ritornello, insomma qualcosa almeno piccolo, che metta anche minimamente in discussione l’assetto. Nulla di questo. Nada. Se stai così, non serve dimenarti tanto, impiegare qualche parolaccia (che non scandalizza più neanche il mio cane), sei comunque pienamente nel sistema. Si evade prima di tutto con l’arte, che ti mette in contatto con i tuoi sogni e ti dice che possono essere reali, che esiste ciò di cui è fatto il tuo cuore e questa è la cosa che fa più paura ad ogni potere, perché rischia di svegliarti dall’anestesia mediatica in cui sei immerso.

A mio avviso, è molto più rivoluzionario cantare A Beethoven e Sinatra preferisco l’insalata / a Vivaldi l’uva passa che mi dà più calorie come fa il grande Franco Battiato in Bandiera Bianca (di una attualità sconcertante, solo a ripensare questi giorni di Festival) che ripetere Sono fuori di testa, ma diverso da loro / E tu sei fuori di testa, ma diversa da loro.

Show, don’t tell dicono, per essere un bravo scrittore. La diversità va mostrata, non raccontata. Allora trovare l’insalata e l’uva passa in un verso che parla di musica (classica e popolare) ti può colpire, smuovere qualcosa. Aprire una linea di pensiero, di riflessione. Il resto, purtroppo no. Il resto è già assimilato dal sistema, è tranquillo, tanto più tranquillo e inoffensivo quanto si pretende rivoluzionario. Certo, potreste dirmi, ora vuoi vedere la rivoluzione a Sanremo? No, non voglio la rivoluzione. Cerco la bellezza, poi il resto viene. Se c’è quella, tutto il resto viene, a tempo debito. Verrà, di sicuro.

Chissà se vent’anni fa ero più facile alla sorpresa, o c’è qualcosa di condivisibile nel mio tornare all’ultimo festival dell’altro millennio. Comunque, fatemi dire. Podio assolutamente fantastico. Prima, Anna Oxa con Senza Pietà. Bel brano, testo interessante dove il tema della conquista viene fatto continuamente oscillare tra il registro amoroso e quello militare, con sapide analogie, divertenti da scoprire. ‌Le mie mani, le tue mani in questa battaglia / È un agguato a tradimento in questa boscaglia. Poi la voce di Anna su tutto, i suoi mille registri tra l’espressivo più graffiante e il flautato più setoso, veramente pazzesco. Bella la musica, mi colpisce ancora oggi. L’entrata dei cori è sempre una delizia qui.

Seconda Antonella Ruggero, il suo Non ti dimentico (Se non ci fossero le nuvole) è delicato ed espressivo insieme. E che dire, un’altra bellissima voce, dalle capacità assolutamente stratosferiche, come sappiamo: ascoltatela in Elettroshock nei Mattia Bazar, tanto per capire.

Terza Mariella Nava con Così è la vita. Un brano favoloso, fantastico nel testo e nella melodia, un incedere incalzante e densissimo di delicata poesia e di sincerità accorata. Altissima e precisa. Lancinante nella scelta precisa delle parole e nell’apertura armonica così mediterranea e implacabile. Altro che raccontare, altro che finto rap, qui si vola, e si volta alto!

Questi i primi tre insomma. Nel 1999. Tre grandi donne con tre proposte piene, succose, profumate (anche di rosmarino, sì). Qui io mi trovo, qui ci faccio casa, mi sistemo. Ascolto e riascolto. Musica popolare, va bene. Ma la bellezza c’è, la trovo, la tocco (anzi, è lei che mi tocca). Sono lieto, mi muovo tra queste note, queste parole. Davvero, sono a casa. Che bella la musica, e la musica italiana, che bella che è!

Però, se perfino uno come Ernesto Assante, che ho ascoltato in memorabili lezioni sui Beatles e sui Pink Floyd (e lì qualcosa di rivoluzionario c’è, sissignori), scrive che stavolta ha vinto la musica, inizio a sentirmi un poi un extraterrestre, in questo mio problema con il Festival di quest’anno. Io la musica non l’ho sentita tanto tanto, magari riascoltando forse ammorbidisco il giudizio, non so.

Mi ritorna in mente sempre il già citato brano di Battiato, che conclude significativamente così la sua implacabile analisi della società attuale, e sommersi soprattutto, da immondizie musicali. E penso anche all’altro pezzo mirabile, La musica muore, sempre del grande maestro siciliano. Lì in realtà si parla di altro, della fine ingloriosa del tempo in cui si pensava che la musica potesse cambiare il mondo. Ma forse no, non si parla d’altro. Il tema è questo, alla fine.

Sospendo il giudizio, anche scagliarsi contro il Sanremo dell’anno non è poi uno sport molto appagante. Ma nel segreto, mi riascolto Anna Oxa, Antonella Ruggero e Mariella Nava. E gioisco.

Così è la vita, del resto.

Loading

La scienza è un gioco!

In fondo è questo, è questo che spesso dimentichiamo: la scienza è un gioco! Il gioco è una delle attività fondamentali dell’uomo, tanto che i piccoli – che non hanno tempo da perdere in chiacchiere come i grandi – essenzialmente fanno questo, giocano. La scienza è gioco nella sua parte migliore, gioco di scoperta e di perpetua meraviglia. Non c’è senso del dovere che possa essere così produttivo, per uno scienziato, come un solo momento di sincero entusiasmo per l’oggetto della sua ricerca.

Per l’uomo, scoprire che la realtà del mondo fisico si fa comprendere nella sua complessità è sempre stato un bellissimo gioco. Certo in ogni umana attività ci sono poi frustrazioni, rivalità, invidie, strade sbagliate, riprese, scoramenti, e tutto quello che volete. Ma la base resta quella del gioco, e se togliete quella, temo che rimanga ben poco. Scoprire come funziona l’universo, scoprire sopratutto che l’universo si fa scoprire, è un gioco bellissimo, che apporta significato all’agire umano.

Questo video girato da ricercatori dell’Agenzia Spaziale Europea (dove anche Gaia ha il suo ruolo) nei loro momenti di pausa, ci aiuta meglio di mille parola a ricordarci che gioco fantastico che è la scienza. Molti riconosceranno la musica, e anche il tipo che fa capolino al minuto 5.41.

Insomma, io dico che la massima serietà è possibile solo così, con questa libertà interiore che si nutre davanti ad un bel gioco. Al gioco della scoperta del mondo, inesauribile e continuamente sorprendente.

Loading

Teresa è all’Harry’s Bar

Me lo scrive sorella Chiara (intesa in senso di parentela), Domani vado a vedere questo, con i ragazzi… così, ammiccante. E intanto mi passa il link. Non lo sapevo. Non ne sapevo proprio niente. Prendo tempo, intanto dico bravissima ma non mi decido. Alla fine però c’è qualcosa, qualcosa che non mi lascia passare oltre, non mi lascia scartare, troppo facilmente.

Va bene ci vado, ci vado. Acchiappo il biglietto in extremis. Un po’ angolato il posto, è quel che rimane, ma va bene lo stesso. In realtà (con il classico senno del poi) sarebbe andata benissimo, non bene. Non mi aspettavo quello che sarebbe successo, non mi aspettavo niente, di ciò che sarebbe successo. Uno non si aspetta mai niente quello che succede, d’altra parte. Non può proprio. Stai alla frontiera, quel che viene non lo calcoli, lo attraversi.

Sì De Andrè, la PFM, carino… E poi, proprio pochi giorni prima, passeggiando in montagna, mi ero riascoltato e riassaporato quel piccolo capolavoro che è Volume 8 riscoprendo molte canzoni che avevo dimenticato. Straordinarie canzoni. De André è un vero artista. Un poeta, per quanto questa espressione sia terribilmente abusata, nel campo della musica. Ma lui, lui lo é. Diamine, andrà pure detto. Ribadito.

Così a Chiara scherzando (ma non troppo) chiedo, ma me la fanno Giugno ’73? E rincarando la dose (è impossibile smorzare il desiderio, è cosa contro natura), e poi Amico fragile? Due canzoni pazzesche, bellissime, contenute in quell’album. Due canzoni (soprattutto la prima) che avevo scordato, avevo totalmente svaporato la loro umanità così spudorata, così toccante.

Così sarà, per la cronaca. Ma anche di più. Sarà molto di più. Perché è un collegamento con il cuore, che si accende. Un tuffo nel passato che ritorna qui, presente e palpitante. Tuffo imprevisto, ma istantaneo. Più che tuffo, spanciata. Accade subito, appena la PFM inizia a toccare gli strumenti, le prime note che si levano in aria. Ti viene addosso qualcosa, frontale.

La PFM nella Cavea dell’Auditorium (foto da cellulare, come si capisce bene…)

Io non so come fanno, non conosco i dettagli di questa magia, ma realmente fanno esplodere la musicalità che c’è nelle canzoni di Fabrizio, senza forzare nulla, senza introdurre niente di estraneo. E’ un lavoro a far venir fuori, non a sovrapporre altro. Esaltano De André, lavorando a far uscire cose che già ci sono, piuttosto che ad inserire elementi arbitrari. E quindi sono bravi, sono bravi proprio. Le canzoni ti investono, sono realmente godibili, gli equilibri tra gli strumenti mi appaiono molto ben lavorati. Fin dalla prima canzone, ogni canzone è una festa, per le orecchie e per il cuore.

Per me è qualcosa di speciale, che esonda potentemente la portata dell’evento. E lo capisco. Il fatto è questo, papà amava De André. Fin da piccolissimo ascoltavo risuonare per l’aria, a casa, queste curiose melodie dal sapore arcaico. E poi una stranissima voce bassa, calma, una voce che mi è sempre sembrata così, come dire, incredibilmente autorevole. Gravida di mistero, lambiva territori sconosciuti, portava odori, sapori di cose lontane ma interessanti, evocava universi appena socchiusi, mondi diversi e sempre umani, umanissimi.

Questo mi ritorna spudoratamente addosso, appena la PFM inizia a suonare. E mi sbatte addosso senza preavviso, il me stesso di tanti anni fa. Subito, subitissimo. Lo so che non sono imparziale, ma il cuore è troppo coinvolto. E poi questi hanno rispetto, per De André, grande rispetto: si sente a pelle. E quindi hanno rispetto per me, per la mia storia. Anche per papà, è chiaro. Lo rispettano. D’accordo, Magari non lo sanno, ma è così.

O forse invece lo sanno. Sì, secondo me lo sanno.

Perché se non lo sapevano, come veniva loro in mente di rifare, nella parte centrale del concerto, gran parte de La Buona Novella? Quel disco, proprio quel disco. Quello che papà ascoltava con religiosa attenzione, quell’unico disco a cui dedicava attenzione totale. Quelle note scarne che mi entravano nella pelle, da bambino, quegli arpeggi semplici e profondi, quelle parole addosso, prima ancora che capissi di cosa parlassero, che storia viva trasportassero.

Sì, quando la ascolto piango. Mi vengono esattamente le lacrime, mi manca papà, anche adesso che scrivo mi si inumidiscono gli occhi. Ma è una mancanza buona, sono lacrime buone, le voglio. Eppure l’emozione – e il senso di nostalgia – è fortissimo. Mi lascio piangere, per un po’ è necessario, non si può fare altro. Accidenti, speriamo solo che non mi veda nessuno. Come fai a spiegare?

E mi ricordo, ancora. Quando da ragazzetto, mi studiavo le note di copertina di quel disco che papà aveva portato a casa. Quello che per lui aveva una importanza tutta particolare. Non era un tipo che ascoltava molta musica “leggera”, papà. Anzi. Però quel disco era un’eccezione, una poderosa eccezione. C’era una nota del gruppo che suonava, si chiamavano I Quelli, e parlava del rapporto con questi testi, e con Fabrizio. Scrivevano qualcosa tipo dopo un po’ siamo andati da Fabrizio incuriositi, a chiedere perché aveva scritto questa cosa... A proposito, per come narra De André la nascita di Cristo (sempre con grande poesia e umanità comunque), rimando alla trattazione di Giovanni Marcotullio che per me è una delle cose più sensate che abbia avuto occasione di leggere, sul tema. Qui non sto valutando l’opera, controversa in alcuni punti, figlia del tempo in certe parti. Sto affondando nei ricordi. Anzi no, sono loro a venire su e inondarmi. Colpa loro.

Bene, quando dal palco avvisano che eseguiranno La Buona Novella in modo diverso da come l’avevano fatta a suo tempo sul disco (e si parla del 1970) , per un momento non comprendo. Subito viene aggiunto a quell’epoca ancora ci chiamavamo I Quelli. Tutto torna. Allora sono loro. Ed è ancora più magico, ancora più magico essere qui.

Ed è tutto particolarmente sbalorditivo, se penso alla casualità che mi ha portato qui, sbalordisco. Ma infatti, nessuna casualità, non è credibile. Non può essere un caso, se sono qui, adesso. Fatevi pure, al proposito i vostri ragionamenti rassicuranti, bilanciati, distaccati. Io non vi seguo. Se sono qui non è un caso, non lo è per niente.

E de André è un gigante, anche nei testi. Non è qualcuno che riveste di parole un motivo musicale, affatto. Le parole non accompagnano, e basta. No, le parole fanno esplodere la musica, la caricano a potenza. Queste cose non le fanno tutti, queste cose le fanno solo i poeti. Fabrizio De André è stato un poeta (anzi è un poeta, perché i poeti non muoiono mai). Sai, sono cose che magari quando ascolti le canzoni da ragazzetto, non te ne accorgi, non te ne accorgi del tutto.

Ora, con i miei cinquantasei anni, me ne accorgo molto di più. E mi commuovo, ancora e di nuovo.

Perché c’è Giugno 73 con il suo bellissimo, paradossale incipit

Tua madre ce l’ha molto con me
perché sono sposato e in più canto,
però canto bene e non so se tua madre
sia altrettanto capace
a vergognarsi di me.

E questi allegri pirati della Premiata Forneria Marconi, fanno anche Amico Fragile, ovviamente (ma è logico, visto che la serata è per me, in qualche modo arcano).

Evaporato in una nuvola rossa
in una delle molte
feritoie della notte,
con un bisogno di attenzione ed amore
troppo “se mi vuoi bene piangi”
per essere corrisposto

L’ho detto, suonano bene, le canzoni sono sempre arricchite e mai stravolte, c’è quel profondo rispetto per Fabrizio, quell’amicizia devota che si allarga dolcemente dai musicisti all’intero uditorio. Ed è un po’ come se lui fosse qui (e in una canzone “compare” la sua voce, come tributo doveroso).

Il gioco fra musica e parole funziona, i testi del Faber invadono l’aria serale tardoestiva di una Roma sotto Covid ma con tanta voglia di tornare a respirare, e risanano con i loro delicati paradossi. Appena entrato dentro Rimini, sbatto il cuore su una articolazione umanissima, che mi commuove in modo inaspettato. Di nuovo mi inumidiscono gli occhi…

Ma voi che siete uomini
sotto il vento e le vele
non regalate terre promesse
a chi non le mantiene

Ed anche, questa sovrabbondanza mediterranea di Andrea, il delizioso ritornello che ti sveste di ogni pensiero malinconico e ti porta dentro il mondo – al tempo stesso introverso e frizzante – tipico di Fabrizio.

Che ora lo capisci bene, e proprio per questo ti commuove a raschiare il pianto. Perché è un mondo in cui l’unica cosa che è declinata è la pietà. L’unica cosa di cui si parla. Come architrave di tutto. Pietà per gli ultimi, per quelli ai margini, pietà per gli assassini e le puttane. Una pietà credibile, scomoda, terribilmente concreta perché sfacciatamente antiretorica. Declamata con coraggio, decenni prima di ogni buonismo, sfida perpetua ai benpensanti e ad ogni loro (e nostro) pruriginoso bigottismo.

Mi guardo intorno. Stasera non c’è nulla di morto. De André è vivo, è ancora l’amico che cantava in salone quand’ero bambino, nella casa a Poggio Ameno. E papà è vivo: la sua mancanza infatti è terribilmente concreta, esiste, si tocca, è lui, è la sua, lui è qui. La PFM onora il maestro (i maestri?) nell’unico modo possibile: poche frasi, niente retorica. Le sue canzoni, dal sapore di donna, dal sapore dell’oceano. Il timbro di voce di papà, anch’esso così basso, mi si unisce in memoria. Sapeva di avventure, di amicizie, di amori e guerre.

Ora Teresa è all’Harry’s Bar
guarda verso il mare…

Loading

Quella Luna degli anni settanta…

Sono lì che ascolto. Sono seduto al mio posto nella Cavea dell’Auditorium Parco della Musica (che ho appena scoperto essere ora chiamato Ennio Morricone), e sono appena stato oggetto (credo, con altre persone) di un fenomeno spaziotemporale abbastanza curioso.

Me ne sono accorto appena il tastierista ha affrontato la stupenda intro di pianoforte di The Lamb lies down on Broadway, questo fantasmagorico disco realizzato dai Genesis nel 1974. Vabbè, più che disco, dovremmo precisamente dire concept album, come appunto viene menzionato da quelli che la sanno lunga.

Ma dicevamo, il fenomeno spaziotemporale. Eccolo. E’ un salto indietro nel tempo per un ammontare di circa 45 anni, e nessuno mi aveva avvertito. Di fatto, dopo un minuto di musica (glorioso tripudio di tastiere), mi trovo nel bel mezzo degli anni settanta. Non c’è possibilità di sbagliare, non c’è alcun errore. E’ tutto perfettamente coerente, in effetti la coerenza è veicolata dalla musica, dai rapporti di tensione e distensione tra le note, dall’architettura di universo che espongono, e diffondono, istante per istante.

Beh, foto fatta con il mio smartphone (riapparso per un momento appena, d’accordo)

Penso che ogni melodia, anche la più banale, proponga una architettura di universo, trasporti un modello cosmologico. Un modo di pensare, di guardare alle sensazioni, alle emozioni, alle pulsioni, alla natura, al cielo, alla Luna. Al destino dell’universo, alla presenza di un senso o alla sua mancanza. A come vanno a finire le cose, per te e per tutti quanti e per tutto quel che c’è. Certo tale modello è nascosto, è cablato nelle note e nel ritmo, nei timbri degli strumenti e nel modo di suonarli. Nascosto, e per questo più potente. Ti arriva sottopelle senza passare per il ragionamento, lo assorbi senza quasi accorgerti. Ti arriva in vena, senza che tu debba iniettarti nulla.

Ed eccola lei, la Luna. Si vede bene dal mio posto nella Cavea (Tribuna Numerata, fila E), durante la prima parte del concerto. La guardo con curiosità, e trovo subito piena conferma. E’ stata sostituita, non è quella solita. Per la precisione, è una Luna del 1975 (o giù di lì, l’esattezza totale non è possibile), una Luna ancora tutta emozionata, un po’ scomposta, un po’ arruffata, dall’essere stata visitata dall’uomo solo pochi anni prima, toccata per la prima volta. Eh già, penso, in fin dei conti l’arrivo sulla Luna degli astronauti di Apollo 11 è del 1969, insomma pochi pochi anni fa. Una Luna che stiamo percorrendo adesso in fin dei conti (l’ultima missione, Apollo 17, è appena di un paio di anni fa). Siamo nel 1975, ricordiamoci.

Essere nel 1975 vuol dire qualcosa. Non è una cosa leggera. Non c’è Internet, non ci sono telefonini. Soprattutto (non troppo strano) non esiste niente, di tutta la musica creata dopo il 1975. Non esistono tutte le invenzioni melodiche, ritmiche, inventate dopo. Per dire, non esiste il suono delle percussioni più secche e precise, degli anno ’90 (infatti in realtà non so di cosa sto parlando): qui ci sono ancora quelle pastose, piene, totali. Non ci sono i ritmi disco degli ‘80, i ritmi facili e ripetitivi e minimalistici. Quali? Non lo so, ripeto. Non esiste ancora The Wall dei Pink Floyd, nemmeno come possibilità del pensiero. Attenzione, qui. Essere nel 1975 vuol dire che puoi pensare quello che vuoi, che credi di poter pensare qualsiasi cosa, ma di fatto non riesci a pensare il giro di basso di Another Brick in the Wall nemmeno se ti sforzi come un pazzo. Non ti viene. Non ti avvicini nemmeno. Puoi prendere una nota o due se sei geniale, come anticipo nell’aria, ma subito ricaschi nella circuitazione più barocca, meno cinica e più enunciativa, propria di questi tuoi anni. E’ una categoria mentale che non esiste, e tu non ti rendi nemmeno conto che non esiste, è questo il bello. Non capisci che c’è uno spazio di esistenza di qualcosa di incredibile, ma che ora non esiste. Non vedi lo spazio vuoto, è disponibile ma in un certo senso non lo è. Si nasconde, non c’è. Non lo sai. Lo saprai tra qualche anno (non molti), ma ora no.

E mica è finita qui. Non esiste nemmeno Abacab, questa canzone che è così stupendamente nelle corde dei Genesis (quelli senza Peter Gabriel, d’accordo, ma ora non entriamo nel dettaglio), che ti stupisci totalmente del fatto che non esiste. Che non è nell’aria. Che vuoto che lasciano le cose che non esistono! Ora sarebbe intollerabile. E tu niente, nemmeno sai che non esiste, appunto. Pazzesco, a pensarci.

Così ho attraversato un tunnel spaziotemporale e ora mi trovo qui. Del resto è normale. Perfettamente normale. Non è che ti avvertono prima che tu attraversi un tunnel di questi. Mica trovi dei cartelli attenzione al tunnel, ti porterà negli anni settanta, vuoi proseguire? No, niente di tutto questo.

Potenza della musica, potremmo dire. E qui la musica c’è, c’è eccome. E c’è gente capace di suonarla, di cantarla: per la cronaca, un supergruppo composto dai Revelation e dagli Squonk. Vabbé io non li conoscevo, ma non importa. Ciò che importa adesso è che c’è gente che ti esegue Lambs con una precisione nitida quasi da maniaci. Sì, e con bravura. Certo. Parecchia, anche. Tutto è come nel disco (forse anche troppo? Non so). Ogni specifico pattern di batteria (e sì che è una invenzione continua quel disco, che Phil Collins se ne è inventate di tutte) è riprodotto qui dal vivo adesso, ed ecco spiegato il meccanismo della macchina del tempo. Rendere viva una cosa degli anni settanta è possibile solo se sei negli anni settanta. Diamine, questo spiega tutto. E anche la parte visiva è curata, l’idea che non ascolti appena una musica, ma sei dentro una storia, calato completamente in una storia, che è di colori, maschere, costumi, video.

Mi dico, questi qui che suonano, ma quanto avranno studiato il disco come dei pazzi maniaci? Ogni grappolino di secondi di suono è stato certo riascoltato innumerevoli volte, per fare questo reverse engineering che restituisce un’opera rock (con una trama complessa ed onirica) con questa precisione quasi imbarazzante.

E le luci, i colori, che accompagnano il dipanarsi della storia di Rael, il giovane portoricano sbucato fuori dal riformatorio di Pontiac (la storia narra di un altro salto spaziotemporale, quella di Rael verso una sorta di regno sotterraneo sede di incontri tra il mitologico e l’allucinato).

Il filmato sostituisce la tonnellata di diapositive che a suo tempo (cioè ora) i Genesis si portavano in concerto, e muove tra l’evocativo, il sognante, l’inquietante, con lo spaesamento dell’arrivo inesorabile dell’epoca moderna, il sogno che si fa incubo perché non è più accolto, è pigiato verso le profondità della coscienza dalla modernità industriale che nell’esaltato delirio della produzione in serie pialla ogni differenza, la solitudine, la violenza, la paura dell’intimità, il mondo non più avvertito come rifugio, ma come un posto dove ci si gioca tutto, non ci si può rilassare, anche l’amore è ridotto ad una prestazione, un imparare dei codici di azione (e di sopraffazione) per non fare brutta figura, affidandosi ai manuali, in perdita verticale di spontaneità libera. Fino all’uscita finale, nel qui ed ora, forse sbrigativa ma in ogni modo indicativa, riunificativa (anche nella storia), che chiude il tunnel spaziotemporale e mi riporta (dopo un esteso bis, in verità) all’anno 2020: quello dove di botto ritornano all’esistenza i telefonini, Internet e tutto il resto.

Insieme con la nostalgia di un’epoca, provvisoria ed imperfetta quanto si vuole, dove sognare non era ancora concepito come antitesi al cambiamento del mondo, ma ne era la necessaira premessa.

Come in realtà deve essere, perfino dopo 45 anni da allora.

Loading

Sapere tutto, di qualcuno?

Canta nessuno sa mai tutto, di qualcuno. Ed è una verità che mi colpisce e mi ritorna in circolo, mi rientra nella testa, più volte. Una di quelle verità che sembrano così scontate che invece a volte te le perdi, corri il rischio di perderle, di non digerirle davvero.  
Comunque, io lo sapevo che prima o poi doveva accadere. 
Ligabue ha voluto mettere la prima canzone del suo album come omaggio a questo blog, chiamandola appunto Polvere di stelle (insomma, quello StarDust che è la denominazione propria di questo ambiente).  Veramente carino, da parte sua. Chissà se lo sa, che ho colto il suo celato omaggio. Se almeno questo, di me, lo sa.

A parte gli scherzi, qui c’è qualcosa.

Lei, la copertina…

C’è qualcosa in questo album Start, che non permette che lo si metta via con troppa facilità. C’è qualcosa nella musica e nelle parole, che mi fa pensare, che mostra un punto di valore. Che mi ci fa tornare.

Anche, che mi fa rivedere alcuni giudizi forse frettolosi, forse impazienti, forse involontariamente saccenti, che avevo formulato e per i quali mi tenevo abbastanza lontano da Luciano Ligabue. Non ne sapevo forse abbastanza, tutto qui. Che poi, appunto, nessuno sa mai tutto di qualcuno. Ma anche, direi, o meglio potrebbe dire lui (come infatti davvero dice, anzi come davvero canta, sempre nella stessa canzone) hai mai conosciuto qualche d’uno che ti conosca? 

E bravo. C’è infatti questa zona, questa zona grigia, che è tra me e te, tra me e chiunque, che è la frantumazione, la sconfessione del mito della conoscenza completa l’uno dell’altro (dell’altra). Che poi a pensarci bene, è anche lì dove naufraga il mito persistente e luminescente, che ci sia una persona che mi può salvare. Incidentalmente, questo ammette l’unica scappatoia di una persona con la maiuscola, ovvero una Persona: allora è chiaro – crediamoci oppure no – comunque è chiaro che si riapre la discussione. Oppure, che i rapporti con le persone siano fondati e resi fragranti e colorati e profumati (d’accordo, quando accade) dal rapporto, dal tentativo di rapporto, dall’implorazione di rapporto, di conforto, con una Persona. Sempre con la maiuscola.

Così una canzone appena, mi riporta a tutto questo, con un realismo che avverto sano, semplice e coinvolgente. Mi riporta al fatto inequivocabile che nessuno può conoscermi completamente, e che il mio tenacissimo sogno in questo senso appena questo, un sogno magico. E forse un sogno comodo, artefatto. Che mi evita la fatica, che mi vorrebbe far bypassare ogni lavoro su di me, che ultimamente mi riporta bambino, nella ricerca di una figura materna che possa soddisfare e addirittura prevenire ogni mia necessità, ogni mio desiderio.

Bellissimo, sarebbe bellissimo, certo. Però penso, così rientrerei in caduta libera in me stesso, totalmente irrimediabilmente in me stesso. Così non mi muoverei, non andrei verso l’esterno, non proverei a fare, a costruire, a rischiarmi in niente. Per dire, non starei scrivendo, adesso. Nessuno scrive, da dentro la pancia della sua mamma. Del resto, a parte l’oggettiva difficoltà dell’impresa: non ne vedrebbe la necessità.

Che poi, il rapporto con le persone, per quanto non compia in sé, è fondamentale, ugualmente.

Ho bisogno di te
Che hai bisogno di me
Per cambiare il tuo mondo
Hai bisogno di me
Che ho bisogno di te
Per cambiare il mio mondo

Il mondo (mio, tuo) non lo cambio da solo. Ho bisogno di te. Devo uscire dal mio mondo, per venirti a cercare, per cambiare il mio mondo, e il tuo. In altri termini: la completezza a cui anelo, non la trovo organizzando le mie cose, ragionando chiuso sulle mie cose. C’è una incompletezza originaria, che mi spinge verso fuori. Non posso rimanere chiuso, devo aprire i confini, aprire i miei porti, rischiarmi nella relazione. Non è bene che l’uomo sia solo, dice Genesi 2,18.

Va beh, che poi fin qui si sarebbe parlato appena delle prima canzone di questo Start. Che probabilmente non è neanche la più bella canzone dell’album. Album, va detto, che mostra (davvero) una certa finezza psicologica in Quello che mi fa la guerra. Che ha delle gemme delicate e intime come Vita morte e miracoli, che ha… Beh non è escluso che non se ne riparli, anche qui.

Non adesso, che sono già andato un po’ lungo. Forse, nel tempo davanti, però.

Loading

Sì, ho visto Sanremo

Sì, forse è il caso di fare outing fin dal titolo. Dunque per quanto possa sembrare strano, lo ammetto. Lo ripeto, scanso equivoci: ho visto Sanremo. 

Insomma. Non l’ho visto tutto. Ho visto dei pezzetti, o un po’ di più. Beh l’ultima serata l’ho vista per buona parte, quello sì. E devo anche dire che mi è piaciuto. O meglio, ho apprezzato molto il fatto semplice che lo stavo guardando. 

Il che non è la stessa cosa, in effetti. 

Perché per capire la differenza, bisogna andare alla radice della faccenda. Sanremo non è appena una trasmissione, è un evento televisivo. Ormai una dei pochissimi. E’ una delle pochissime occasioni in cui ci si ritrova in grandissima parte (qui, in Italia) impegnati in una stessa cosa. Ci si ritrova insieme ad assistere allo stesso evento. Il quale poi sarà anche fatuo, inconsistente, sfilacciato, pilotato (come spesso si dice), d’accordo. Ma il fatto è che la portata di quello che accade travalica ampiamente l’evento stesso. Il merito di Sanremo è aver richiamato così tante persone intorno ad un solo evento: sempre più difficile ora che l’offerta televisiva e mediatica è così ampia, che è pienamente normale essere dispersi in una miriade di sentieri distanti.

Che poi, alla fine erano anche simpatici… 

Quando un evento riunisce tante persone, accade qualcosa. Come i mondiali di calcio: anche se non ti piace questo sport, alla fine i mondiali li guardi, perché avverti questa vibrazione sottile, quest’aria elettrica e nuova, questo senso di qualcosa che sta accadendo e che riguarda tutti. Partecipi a qualcosa che ti unisce agli altri (e non importa se sei solo in casa tua, perché il segnale unitivo in qualche modo, viaggia nell’aria, entra dalle finestre, insomma ti raggiunge). Ne ragioni con chi ti vive accanto, ne parli nel bar, con i colleghi di lavoro. Magari non ti piacciono le canzoni, quelle canzoni. Forse detesti quella che ha vinto, perfino (no, non è il mio caso). Però sei dentro un evento, che nemmeno capisci del tutto, ma sei dentro. Cioè, non capisci come mai senti questo coinvolgimento in qualcosa, ma lo senti. 

Nell’ultima serata, sentivo che era naturale e facile essere lì a guardare. Anche se magari per buona parte mi potevo annoiare, o spesso divagavo con il pensiero. Ma ero cullato e protetto, ero sottilmente confortato dal fatto che ero lì, in qualche modo. E quando sono dovuto uscire di casa, mio malgrado, ho proseguito ascoltando in macchina, felice (lo ammetto) di non perdere la connessione con l’evento. 
Che poi alla fine i motivi di interesse li trovi. E alla fine in qualche modo ti appassioni. Cominci a trovare il tuo spazio di movimento, la tua costellazione di valori nel panorama delle canzoni. E’ chiaro, ti è molto chiaro che la musica è (anche) altrove. Ti basta ascoltare un brano di Peter Gabriel (per non scomodare i grossi nomi della sinfonica, Mahler e Bruckner per esempio) per ricapirlo, ricapitolartelo in testa, se serve. Ma inizi a muoverti in questo panorama. Le coordinate sono chiare. Deve essere facile, orecchiabile, ripetibile, ti deve però nutrire senza sembrare troppo scontata, devi trovarci un motivo sensato per ascoltare, e riascoltare. Le parole devono far fiorire qualcosa, non devono essere grande poesia, ma allo stesso tempo non devono risiedere nel completamente ovvio. 
E le sorprese belle, si trovano. 
E ognuno ha le sue.
La mia questa volta si chiama Simone Cristicchi

E qui si potrebbe parlare, parlare per tantissimo tempo, parlare di questo brano così struggente, felice nelle parole e felice nella musica. Si potrebbe parlare tanto, ma la cosa migliore è stare in silenzio, e ascoltarlo. Stare in silenzio, come suggerisce il brano stesso: non lo dice, ma lo fa capire. Il sussurro iniziale, l’inizio in pianissimo, a differenza di tante altra canzoni sanremesi (intro con il pianoforte, poi parta la batteria e la sezione ritmica, poi il cantante canta, e via così), è veramente un invito al silenzio, dentro e fuori di noi.  
Perché di silenzio è deliziosamente impastata questa canzone. Quasi non vuole disturbarlo, il silenzio: rimane sommessa, sospesa. In attesa. Bisogna addentrarsi bene nel brano perché finalmente la musica decolli, dispiegando un tema che è ampio e lirico, italiano nel senso più interessante. E le parole, quelle parole che osano colorare il silenzio, disturbarlo: quelle alla fine ti arricchiscono, ti fanno capire un pelino di più, ti rimangono amiche, soprattutto. Le puoi abitare, sono parole abitabili. 

Adesso chiudi dolcemente gli occhi e stammi ad ascoltare
sono solo quattro accordi ed un pugno di parole
più che perle di saggezza sono sassi di miniera
che ho scavato a fondo a mani nude in una vita intera
non cercare un senso a tutto perché tutto ha senso
anche in un chicco di grano si nasconde l’universo…

E con tutti i limiti possibili, ma senza Sanremo non sarebbero arrivate a così tante persone. E questo credo sia un valore, un grande valore. Il messaggio di cura, di possibile guarigione, che portano queste strofe è benefico, è grande. O meglio, non è grande in sé, ma è grande nella possibilità che apre, verso qualcosa di veramente immenso, che a volte non vediamo. Che viene a trovarci, ci visita, se l’attitudine nostra lo permette: in questo senso ogni modo per ricordare è realmente benedetto. 

Così che se qualcosa del genere passa attraverso questa cosa così poliedrica e non inquadrabile e anche a suo modo contestabile come Sanremo (immensa macchina commerciale e insieme appunto, come dicevamo, evento), direi che comunque va bene. Va benissimo. 
Un altro modo per noi, per imparare che le vie di contatto con il vero non le decidiamo noi, non le stabiliamo noi. Che dobbiamo solo chiudere gli occhi, aprire un poco il cuore, ed ascoltare. 
Grazie, Simone. E anche grazie, devo dirlo, Sanremo 2019. 

Loading

Page 1 of 8

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén